mercoledì 30 settembre 2009

Articolo degno del premio Pulitzer per il giornalismo


Di primo acchito quello che pubblico è l'articolo di giornale che meriterebbe di far vincere al suo autore il prestigioso Premio Pulitzer. Peccato che l'estensore non sia cittadino USA, ma italiano e quindi non  potrà esserne insignito. Ma dopo averlo riletto mi sono sorti molti dubbi: ma di chi sta parlando il grande giornalista Travaglio, fondatore come Scalfari, Montanelli, Feltri di un quotidiano, mica un normale giornalista per giunta democratico e apolitico, ed anche, perdippiù,  editore di se stesso?

Il grande editore-giornalista-apolitico-democratico da per scontato che tutti i suoi lettori conoscano per filo e per segno i fatti di cronaca, di politica e di gossip che lui cità a iosa nell'articolo.

Sono più che certo che anche chi mi legge lo capirà, ma spero sia per le mie stesse ragioni.

Provateci un po', non è affatto difficile. Si tratta della sua "ossessione" da anni, che gli ha portato anche una buona fortuna economica, oltre a farlo diventare un pregiudicato per il reato di calunnia. E sì, perchè anche il grande editore-giornalista-apolitico-democratico Travaglio, ogni tanto una bugia la dice e la scrive,  e  quando lo querelano, come é successo, viene poi condannato per calunnia con l'obbligo di risarcire il calunniato. 
Già questo dovrebbe essere motivo di radiazione dall'Albo dei giornalisti. Ma siamo in Italia, questa Italia, mica negli USA.  Ad maiora Italioti!


Chiamate l'ambulanza 
  di Marco Travaglio


Messaggio riepilogativo a reti unificate. L’opposizione non deve opporsi, infatti per fortuna non lo fa. I giornalisti non devono farmi domande, a parte quelle che suggerisco io. I fotografi non devono fotografarmi, tranne i miei. I sindacati non devono sindacare. I magistrati non devono indagare sulle stragi di mafia, cioè su di me, perché quella è roba vecchia. E Mangano era un eroe, infatti non ha fatto il mio nome né quello di Marcello. I giudici non devono interpretare né contestare le leggi e, se la Costituzione glielo consente, è sbagliata la Costituzione. La Corte costituzionale non si deve permettere di giudicare incostituzionali le mie leggi incostituzionali; chi si crede di essere: la Corte Costituzionale? Il Capo dello Stato deve firmare quello che gli mando io e basta, come del resto ha sempre fatto. I tribunali devono condannare tutti gli immigrati a prescindere e assolvere tutti i miei amici a prescindere. Io posso denunciare gli altri, ma gli altri non possono denunciare me. I portavoce della Commissione europea non devono portare la voce della Commissione europea, se no usciamo dall’Europa. I parlamentari non devono votare perché mi fanno perdere tempo: bastano e avanzano i capigruppo.

L’Onu non deve fare l’Onu, altrimenti usciamo pure dall’Onu. La Chiesa non deve impicciarsi nei diritti umani degli immigrati e di Dino Boffo, ma solo nelle faccende di sua competenza: scuola privata, Ici, fecondazione assistita, testamento biologico. Il Papa deve dare la comunione ai divorziati, o almeno a uno: io. Gli italiani devono sposarsi in chiesa e avere una sola famiglia, eccetto me e le mie famiglie. Michelle Obama, la moglie abbronzata dell’abbronzato, deve baciarmi e all’occorrenza lasciarsi dare una palpatina. Mia moglie non deve chiedere il divorzio da me, io invece posso chiederlo da lei. Fini non deve avere delle idee e, se gliene vengono, se le tenga per sé. I pubblicitari non devono fare pubblicità ai giornali che non sono miei e alle tv che non sono mie (fra l’altro, pochissime). La Rai deve controllarla il governo, quando al governo ci sono io; quando invece sto all’opposizione, il controllo spetta alla Vigilanza, cioè all’opposizione, cioè sempre a me.

Santoro e la Gabanelli non devono raccontare cose vere, se no è giornalismo e si mette in cattiva luce Vespa. I miei giornali invitano gli elettori di centrodestra a non pagare il canone della Rai, così lo stipendio a Minzolini, Mazza, Orfeo, Liofredi, Masi, Vespa e agli altri amici lo pagano gli elettori della sinistra. La crisi finanziaria non esiste, è un’illusione ottica delle gazzette della sinistra: basta non parlarne e sparisce. I contribuenti devono smetterla di lamentarsi per le tasse troppo alte: gli faccio un condono all’anno, possibile che non capiscano? I registi non devono fare film non prodotti da me, altrimenti non sono capolavori, ma culturame. Gli insegnanti non devono insegnare. Le escort non devono farsi pagare, altrimenti addio gioia della conquista. I tenori degli enti lirici devono andare a lavorare nei campi, fannulloni che non sono altro. Il Carnevale di Viareggio non deve fare carri allegorici su di me, casomai su Mao, Stalin, Pol Pot e Di Pietro. Non ho nulla a che vedere con il Giornale di Feltri, ma mi dissocio dal Giornale di Feltri.

Kakà e Leonardo mi remano contro. Fini è un nano. Sono alto un metro e settantuno e nessuno deve permettersi di essere più alto di me, il che fra l’altro è impossibile. Sono il miglior presidente del Consiglio dai tempi di Mario e Silla: me l’ha detto l’amico Alcide De Gasperi, che mi è stato presentato l’altro giorno da don Sturzo in conference call con Luigi Einaudi. (Lo portano via)

Fonte:  Il Fatto Quotidiano, n°6 del 29 settembre 2009 

La lingua batte dove il dente duole


 

La lingua batte dove il dente duole recita un vecchio adagio. 
Per certi giornalisti ossessionati dalla presenza in politica di Berlusconi, che ha tolto ai loro compagni politici l'insediamento perenne alla guida del Paese (come nelle varie regioni "rosse"), nonostante la gioiosa macchina da guerra di occhettiana memoria,, non sembra vero il potersi intrufolare fra le lenzuola del presidente del Consiglio e raccontarne i fasti o la deblacle.
Questo giornalismo gossipparo e spazzatura sta prendendo piede anche in Italia soltanto perchè c'è il nemico, il "cavaliere "nero" che bisogna annientare.

Quale informazione di qualità, a nostre spese, è mai questa, visto che si preannucia l'ospitata ad Anno zero della escort  Patrizia Daddario (nuovo eufemismo per non dire prostituta) che, per soli 1000 euro (pagati dal  Tarantini di turno) passò la notte nel letto di Berlusconi certamente per non sentirsi raccontare barzellette, ma essere lei, a sollazzarlo col più vecchio mestiere del mondo.
Cosa mai gli chiederà Santoro o il suo sodale Travaglio di quella "memorabile" nottata di sesso e docce?
Oppure gli chiederanno se il premier, come lei dice, le avesse fatto realizzare il "sogno" di una vita, quello di diventare imprenditrice, lei avebbe raccontato questa storia, privata, ai quattro venti?

Mi permetto un consiglio ai due "grandi giornalisti": 
facciano perquisire la Daddario per motivi di sicurezza, altrimenti un domani potranno trovarsi pure loro sulle prime pagine dei giornali per motivi molto meno nobili di quelli dell'odiato nemico.

Concludo con una semplice domanda: 
quanto costerà alla RAI, ovvero a noi cittadini che paghiamo il canone,  ospitare ad Anno zero questa "peripatetica d'alto bordo"? 
Il giudice del lavoro che ha reintegrato al suo posto il democratico-giornalista Santoro ha scritto anche questo - lo sperpero di pubblico denaro - nella sentenza di reintegro.  


Parodossi Rai, di tutto di più!

In questo squallido panorama dei media italiani, quasi tutti superimpegnati in gossip escortiferi e d'alcova del premier,  e molto poco sui problemi reali che assillano i cittadini, una voce si alza limpida e chiara: quella del Il Riformista che sposa la tesi del direttore de Il Giornale, per toglere questo odioso balzello della tassa sul possesso del televisore, alias canone. 


Abolire il canone? Finalmente una cosa di sinistra
 
Nel gran casino italiano, può capitare che la cosiddetta stampa di destra dica una cosa di sinistra. Il boicottaggio del canone Rai, anche se fosse puramente e semplicemente una vendetta contro un programma sgradito (Libero e il Giornale propongono lo sciopero fiscale contro Santoro), dovrebbe essere il cavallo di battaglia della sinistra, che di motivi di vendetta ne ha mille. Tutto sommato, fino a giovedì sera protestava che la Rai è occupata dalla destra, faziosa e filogovernativa, serva di codardo encomio al premier e censurante tutte le sue malefatte. Se è vero ciò che ha detto il gran sacerdote della sinistra televisiva, Paolo Gentiloni, e cioè che il 90% della Rai è in mano alla destra e solo il 10% è rimasto alla sinistra, dovrebbe essere quest'ultima a battersi per far saltare il canone Rai che finanzia con i soldi di tutti il dominio di pochi. O, almeno, proporre uno sciopero del canone pro quota: pagare solo il 10% che va a Santoro e a Raitre.

Ma, scherzi a parte, e fuor di contingenza santoriana, l'abolizione del canone Rai sarebbe davvero una cosa di sinistra, se per questo si intende una cosa giusta, equa e moderna.

Innanzitutto il canone è un residuo di un'altra era geologica. Milioni di anni sono passati da quando la nascita della tv pubblica fu finanziata anche con quella tassa. A quei tempi, il semplice fatto di acquistare un apparecchio televisivo ci rendeva utenti della Rai, di un servizio unico gestito dallo Stato. Ma oggi le cose sono completamente diverse. L'uso della tv si è completamente separato dall'utenza del servizio pubblico Rai. Potrei per esempio decidere di acquistare un televisore solo per abbonarmi a Sky. O per acquistare le partite di calcio su Mediaset Premium. O per usare la parabola perché mi interessa la Cnn. E domani per godermi la tv via internet, e nel frattempo per vedere i film che ho scaricato dalla rete, o per giocare ai videogame con i miei figli. Potrei cioè comprare un televisore senza vedere mai né Minzolini né Santoro. Ma sarei ugualmente obbligato a pagare il canone Rai, nel presupposto, non più vero, che lo Stato continui ad essere l'unico fornitore di servizi televisivi.

Trovo anzi stupefacente che né l'Antitrust né l'Unione Europea siano ancora intervenuti a dichiarare illegittimo il canone. Abolirlo, sarebbe dunque in primo luogo moderno.

Sarebbe poi in secondo luogo giusto. Perché il servizio pubblico, in Rai, non esiste più. Non può essere pubblico se è così settario, se spacca così l'Italia in due, se provoca tante polemiche e odio, da una parte e dall'altra. Opporre faziosità a faziosità non è pluralismo, è uso privato (politico) di uno spazio e di una risorsa pubblica. Non è che se la sinistra ha Santoro da contrapporre a Minzolini, la somma totale dia più servizio pubblico. La giaculatoria del servizio pubblico è ormai più una presunzione che una realtà, di cui parlano con tono padronale gli amministratori della Rai, come se noi italiani avessimo bisogno della loro opera informativa e culturale a fini pedagogici ed edificanti. Fino al punto di dover pagare per quel servizio. Mentre invece l'unica speranza di pluralismo sarebbe consentire che nel settore televisivo entri qualche altro concorrente che spezzi il duopolio tra Rai e Mediaset, questo incantesimo in cui vive la tv italiana. L'unico servizio al pubblico che potrebbe utilmente fare la Rai sarebbe sparire, privatizzarsi, vendere due reti a un imprenditore del settore che non debba rispondere a qualche partito politico, e che farebbe comunque lavorare sia Vespa sia Fazio, con gli ascolti che fanno. E trasmettere ciò che davvero è interesse pubblico in un'unica rete, che basta e avanza, finanziata quella sì dal canone.

Ma perdete ogni speranza, o voi che vi siete illusi leggendo la stampa di destra: la destra non lo farà. Già dalla maggioranza hanno precisato che non hanno alcuna intenzione di abolire il canone Rai, ma che hanno tutte le intenzioni di usarlo a proprio vantaggio. E perché mai dovrebbero farne a meno? E qui veniamo alla ragione per cui abolirlo sarebbe invece equo. A favore del canone militano infatti, e a ragione, i principali concorrenti della Rai. Senza canone, l'azienda di Viale Mazzini dovrebbe essere lasciata libera di fare delle cose che i concorrenti fanno oggi in regime di monopolio. Mediaset e Sky sono ben contente di tenere la Rai lontana dal mercato pubblicitario (grazie al tetto che le imposto) o al mercato dei programmi a pagamento (calcio in primo luogo) che così rimangono esclusiva dei due competitori privati. Questa è la prova provata del fatto che la politica sta ammazzando la Rai, se non l'ha già ammazzata. Tenendola in ostaggio per i suoi comodi e facendola pagare a noi col canone. Abolirlo sarebbe dunque un atto rivoluzionario. Qualsiasi cosa rompa o anche solo inceppi il meccanismo infernale del duopolio televisivo italiano sarebbe una cosa di sinistra. Oltre che molto popolare. Provate a chiedere a milioni di italiani che pagano il canone (obbligatoriamente) se sarebbero disposti, avendone la scelta, a spendere gli stessi soldi per un abbonamento a Sky, e vediamo quanti scelgono il canone.


di Antonio Polito 
Fonte: Il Riformista 29/09/2009
 

Governo Berlusconi: voglia di rimpasto?

Dall'attenta analisi fatta dall'articolista che pubblco, sembra proprio che il presidente Berlusconi abbia qualche "grattacapo" proveniente dai suoli alleati . Vedremo mai un governo che duri da una tornata elettorale all'altra senza  problemi?



Voglia di rimpasto
 Ecco la strategia anti-poteri forti del premier. Offrirà un ministero a Montezemolo. Preoccupato del feeling Tremonti-Fini e del loro gioco con le élite, il Cavaliere pensa a una mossa a sorpresa. Scajola così tornerebbe al partito.
È infuriato Silvio Berlusconi. La Rai è solo uno dei motivi. Chiuso nel fortino di Arcore si è sfogato: «Gli attacchi non finiranno. Tv, giornali, sinistra. C’è una manovra in atto. Dobbiamo contrastarla, rispondere colpo su colpo». Perché l'obiettivo, per il premier, è sempre lo stesso: disarcionarlo. Ai suoi occhi la campagna dei media è solo un tassello del grande disegno che sta prendendo corpo, in ambienti politici e finanziari, da mesi. In attesa del pronunciamento della Consulta quelli che l’inquilino di palazzo Chigi chiama i «poteri forti» si stanno muovendo.

E si stanno muovendo, con loro, attori della maggioranza. Come Gianfranco Fini e Giulio Tremonti. Entrambi possibili candidati alla presidenza di un governo tecnico. Per sminare il terreno, Berlusconi ha chiesto a Montezemolo di entrare nel governo dopo le regionali.

Il premier è convinto che la partita finale si gioca soprattutto nei salotti buoni. Per questo vuole Montezemolo. Per questo vuole consolidare l'alleanza con Geronzi, provando a consolidarla nella partita che si è aperta nel futuro assetto di Generali, la vera cassaforte della finanza italiana. Tutte operazioni che servono per smontare la trama. Visto che i complottisti, per il premier, stanno alzando il tiro. Come Gianfranco Fini. Berlusconi non ha mai digerito la tavola rotonda con il presidente della Camera sotto le bandiere della fondazione Italia Futura di Montezemolo, il cui battesimo - e chissà se è un caso - coincide con il giorno del pronunciamento della Corte sul Lodo Alfano. La considera una sfida. Così come la guerriglia parlamentare del presidente della Camera. Coi suoi poi si è sfogato: l'asse di Fini col Colle, per ora, non gli ha portato un solo beneficio sugli orientamenti della Consulta. Ecco perché ha deciso di rompere la tregua con l’ex capo di An nel discorso alla festa del Pdl di Milano. Toni da campagna elettorale e richiamo al discorso del '94. Altro che co-fondatori. Anche perché l'inquilino di Montecitorio sembra meno isolato. Il gioco di sponda tra lui e Tremonti agita, e non poco il premier. Dura da un po'. L'uno piccona a Gubbio e l'altro sul Corriere dice: «Serve una tregua. Giusto discutere le idee di Fini». L'uno spinge per la legge sugli immigrati e l'altro lo definisce «coraggioso». Insomma, per dirla con la cerchia ristretta del Cavaliere, «entrambi si muovono apertamente nell'ottica del post-Berlusconi».

Tremonti soprattutto, è fuori controllo: «Gioca per sé» ha detto ai suoi Berlusconi. Che si è lamentato dei silenzi di «Giulio» sugli scandali che lo hanno coinvolto. Ma anche sulla Rai. Il Tesoro è azionista di maggioranza ma il ministro non ha detto una parola. A preoccupare di più il premier è però la tela personale del super-ministro con i poteri forti. È sempre più fitta, e autonoma rispetto a palazzo Chigi. È di più di una rete di protezione rispetto al pericolo che qualcuno chieda un suo ridimensionamento. Il titolare del Tesoro ha stabilito una serie di alleanze degne di un premier in pectore. A partire da quella con le fondazioni bancarie e in particolare con Giuseppe Guzzetti, capo della fondazione Compagnia San Paolo, e con Angelo Benessia: è lui che il ministro sta sponsorizzando per i vertici di intesa San Paolo in funzione anti-Passera. Il suo rapporto poi con la finanza cattolica è diventato, in questi giorni, sempre più di ferro. Il suo consigliere economico al ministero, Ettore Gotti Tedeschi, è appena diventato presidente dello Ior, la banca che cura gli affari del Vaticano. Per non parlare dell'operazione che il ministro ha condotto nella banca popolare di Milano, alla cui presidenza è arrivato Massimo Ponzellini, che ha portato in dote al ministro la sua robusta e trasversale rete di relazioni negli ambienti della politica e della finanza che conta.

Per bloccare il “dopo Cavaliere” serve un segnale alle élite, dunque. Non è la prima volta che Berlusconi offre a Montezemolo la poltrona di ministro. Accadde nel 2001, quando poi agli Esteri andò Renato Ruggiero, legato agli Agnelli. Ma anche nel 2008, quando mise sul tavolo il dicastero dello Sviluppo economico. Un modo per sancire la tregua pure con l'establishment confindustriale, mentre Emma Marcegaglia da viale dell'Astronomia inaugurava un nuovo corso («post ideologico» disse Sacconi) meno conflittuale col governo. Questa volta però è diverso. Perché un governo già c'è. E Montezemolo sta lavorando su una prospettiva terzista, con la sua fondazione Italia Futura. Il Cavaliere però lo vuole in squadra. Glielo ha detto a inizio settembre, quando i due si sono visti a palazzo Grazioli. L'offerta definitiva ancora non c'è stata. Ma fonti di Palazzo Chigi rivelano che il dialogo è in corso e che lo sta portando avanti Berlusconi senza intermediari. Il premier ha intenzione di fare un rimpasto dopo le regionali. Che gli consenta di ritoccare la squadra di governo e di affidare il partito a un coordinatore unico, il cui ruolo dovrebbero essere ricoperto da Claudio Scajola. Non è un caso che proprio con lui Berlusconi si è sentito dall'America per concordare la controffensiva sulla Rai, e non solo perché ha la delega in materia. Ma perché lo considera politicamente più duro degli attuali triumviri. È proprio la sua poltrona che Berlusconi ha offerto a Montezemolo. Il problema è che il leader degli industriali l'ha già rifiutata dopo le scorse elezioni. Ecco perché per rendere l'offerta più allettante Berlusconi ha un piano B: l'idea sarebbe la creazione di un dicastero pesante del Commercio con l'Estero. Una sorta di ministero della diplomazia commerciale italiana, che consentirebbe a Montezemolo di capitalizzare la sua credibilità e il suo peso politico, in perfetta autonomia e senza entrare in rotta di collisione con Tremonti. Per ora - secondo fonti di palazzo Chigi - Montezemolo ha accettato il confronto. E in agenda ci sono altri faccia a faccia. Dopo il pronunciamento della Corte.

di Alessandro De Angelis
Fonte: Il Riformista martedì, 29 settembre 2009

 

martedì 29 settembre 2009

Le superbufale di Beppe Grillo


Desidero ritornare su una delle più grandi superbufale raccontate da Grillo, il comico urlante alla Luna.
In uno dei suo spettacoli ha illustrato le proprietà miracolose di una strana pallina che, a suo parere, dovrebbe sostituire il detersivo e permetterci di risparmiare denaro e inquinare meno.  
Magari fosse vero...
Molti dei suoi seguaci, i grillini, hanno preso per oro colato le sue parole (così come per altre cose) comprando la sferetta magica.
Magica però soltanto per il suo produttore che incassa i denari della vendita e per Grillo che l'ha pubblicizzata (senza un ritorno economico?).
La cosa, se fosse stata vera, avrebbe meritato le prime pagine di tutti i media.

Ma in effetti si è rivelata una delle solite superbufale del comico.
Eccone i risultati fra quelli più importanti. 
A questo link il video di Grillo che parla della palla "magica". 


La trasmissione Mi manda Rai3 ha dedicato alla questione un'intera trasmissione il 29/11/2008, nalla quale si evidenzianio i risultati da parte del CNR di questa strana palla che in pratica non fa assolutamente nulla, tranne toglierci dalla tasca i 32,00 euro del suo costo, oltre alle spese di spedizione.
A questo link trovate il filmato di Mi Manda Rai 3 del'intera trasmissione, che non ha bisogno di ulteriori commenti.

Dopo questa trasmissione il comico non ha più parlato della palla "magica".
Insomma, la stessa cosa di quando spaccava i computer sul palco dei suoi spettacoli dicendo che erano il male del secolo, per poi divenirne un convinto fruitore sia dei PC che della rete, col risultato di fargli raddoppiare gli incassi annuali. Il comico urlante denuncia quasi 5 milioni di euro l'anno di guadagno, contro i 2,5 di prima dell'uso della rete e dei PC!
Bell'affare per un pregiudicato di omicidio colposo che si atteggia a moralista in servizio permanente effettivo come il suo amico Travaglio, che da sconosciuto giornalista è diventato editore si se stesso.



sabato 26 settembre 2009

Anno Zero: altra lezione di "democrazia"


Dopo l'ultima stupefacente lezione di democrazia giornalistica del duo Santoro-Travaglio con la trasmissione Anno zero del 24 settembtre scorso, chiedo a questi grandi del giornalismo italico di fare una puntata della trasmisisone, realizzata con i soldi di noi tutti, su quanto ha scritto l'imprenditore lombardo, Bernardo Caprotti, titolare dei supermercati Esselunga, nel libro Falce e carrello.

Per dare l'input pubblico due episodi che la dicono lunga sul modo di amministrare i comuni da parte delle giunte di sinistra, ma anche, e soprattutto,  sul modo di gestire il denaro degli oltre sette milioni di soci della LegaCoop da parte dei suoi imperituri ed inossidabili dirigenti. 

Vada l'inviato Ruotolo, che ho conosciuto personalmente, ad intervistare la ex ministra dei Beni culturali - Signora Melandri, l'amerikana - per chiederle il perchè dello scempio dei reperti sottoposti a vincolo descritti nell'episodio "Bologna, Via Andrea Costa".

Vada a chiedere al presidente della Coop Estense, Mario Zucchelli, il perchè abbia sperperato, nel 2001,  quasi venti miliardi di vecchie lire dei soci, per come descritto nell'episodio "Modena, Via Canaletto".

Sono più che certo, purtroppo, che questi campioni che urlano per la mancanza di libertà di stampa se ne guarderanno bene dal fare quanto chiedo loro in della della vera libertà di stampa e della Democrazia, quella vera, con la D maiuscola..

Il perchè è molto semplice: il libro in questione, Falce e carrello, è stato pubblicato nel 2007  dalla Marsilio editore, a spese del suo autore, e non ha avuto nessun eco da parte dei media per la gravità dei fatti narrati e documentati. 
Semplicemente ignorato, seppur vi sia descritto uno dei più grandi scandali italiani dal dopoguerra, pur di non toccare gli intoccabili democratici di sinistra. Storia già vista e vissuta con "Mani Pulite" e la vicenda di Mister G, alias Primo Greganti. 


Pubblico i due episodi citati, ma il libro merita di esssere letto per intero. 
In questo modo si apprenderebbe che dove i supermercati della LegaCoop non hanno la concorrenza della Esselunga, i prodotti costano mediamente fino al 20% in più. !!! (Vedere da pagina 30 a 35 del libro).

Per maggiori notizie Caprotti ha aperto un sito web con lo stesso nome del libro. Lo trovate a quest'URL

Episodio "Bologna, Via Andrea  Costa"



 






 

 





Episodio  "Modena, Via Canaletto"

 
 




















Giustizia all'italiana!

Siamo alle solite: la certezza della sicurezza dei cittadini, la certezza del diritto e della pena sono utopie italiche.
Nessun'altro commento alla notizia che pubblico.


GIUSTIZIA ALL'ITALIANA: SCONTO DI PENA AI ROMENI RAPINATORI

È stata parzialmente ridotta in appello la sentenza di condanna nei confronti di due dei tre romeni rimasti coinvolti nella violenta rapina in villa messa a segno il 28 febbraio 2007 a Dello (Brescia). Quella sera i rapinatori entrarono nella cascina 'Betulla' e malmenarono Giuseppe Mangiavini, 88 anni, e i figli Roberto e Aldo, rispettivamente di 40 e 50 anni. L'anziano morì nel novembre successivo quando i tre rapinatori erano già stati arrestati. In primo grado erano stati condannati a pene comprese tra i 16 e i 12 anni. Oggi, al termine del processo d'appello celebrato nei confronti di due di loro, le pene sono state ridotte a 8 anni e 8 anni e sei mesi. Il terzo romeno non ha presentato ricorso (male ha fatto!).

Fonte: Leggo it 

Panni sporchi alla luce del sole

Il giornalista Paolo Flores D'arcais, direttore di Micromega, anche lui un duro e puro antiberlusconiano d'eccellenza dalla prima ora, spara a palle incatenate contro contro l'amico Di Pietro. Cosa farà l'ex pm? Di solito querela... ma adesso?


"L'Italia dei faccendieri e dei riciclati"
MicroMega spara a zero su Di Pietro

In gergo militare si chiama fuoco amico. Che brutto, però. Non c’è cosa peggiore, infatti, per un moralista sentirsi fare la morale da qualcun altro. Ancora peggio quando questo qualcun altro non è il tuo avversario politico ma i tuoi (ex?) compagni d’avventura. Quelli che addirittura hanno coniato un nuovo termine, “dipietrismo”, per dipingere la parte dura e pura dei resistenti a Berlusconi e al berlusconismo. I resistenti tutti d’un pezzo, s’intende, quelli che non sono mai stati ex, moralmente ineccepibili e pronti a difendere la democrazia dagli assalti del Sultano di Arcore come cavalieri senza macchia e senza paura al soldo di Tonino l'inquisitore.

A denunciare la doppia natura dell’Italia dei Valori (già il nome…) stavolta non è qualche giornale di destra o di proprietà del Padrone, ma MicroMega. Sì, avete letto bene. MicroMega. La rivista, diretta da Paolo Flores D'Arcais, punto di riferimento della sinistra giustizialista e girotondina, dipietrista e moralista, che ospita gli interventi dei magistrati che indagano su Silvio e le requisitorie di Marco Travaglio.
Il saggio-inchiesta, lungo 50 pagine e scritto da Marco Zerbino, anticipato oggi su “La Stampa”, s’intitola “C’è del marcio in Danimarca. L’Italia dei Valori regione per regione”. Questa la tesi di fondo: «Esistono due anime di Idv, quella ideal-movimentista da un lato, e quella inciucista e politicante dall’altro», una situazione che «crea spesso a livello locale situazioni di stallo», e di frequente «si risolve a favore della seconda».

«Ali zavorrate» – Molto precisa l’accusa di MicroMega: «A livello locale, le ali del gabbiano arcobaleno sembrano troppo spesso zavorrate dal peso della sua contiguità a un ceto politico dai modi di fare discutibili, in molti casi approdato all’Idv dopo svariati cambi di casacca, alcuni dei quali acrobatici, e in seguito a ponderatissimi calcoli di convenienza personale. Non proprio quello che si aspetterebbe da un partito che aspira a incarnare un nuovo modo di fare politica». Un’analisi politica campata in aria? Fatta, magari, per screditare Tonino Di Pietro e la sua lotta contro il totalitarismo oscurantista di Berlusconi? No, perché la “doppia natura” dell’Idv ha nomi, cognomi e record.

Il partito dei commissari – Quello dei commissariamenti anzitutto. In Friuli, come anticipa oggi “La Stampa”, sono state a lungo commissariate Udine e Pordenone. In Liguria il capo Paladini in un anno ha allestito un congresso moltiplicando le tessere (da 700 a 7000, roba che neanche il Pd). In Toscana è commissariata Lucca. In Umbria c’è un «garante» (Leoluca Orlando). Nelle Marche tutte le sezioni provinciali sono commissariate. In Campania non si fa congresso dal 2005, come in Puglia. In Calabria spopolava fino a poche settimane fa Aurelio Misiti, ex sindaco comunista di Melicucco, ex assessore della giunta Carraro a Roma, presidente (di nomina berlusconiana) del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Tonino alla fine lo ha sostituito con Ignazio Messina, capo degli enti locali dell’Idv, che ha ruoli di rilievo anche in Sicilia. Piccolo particolare, Messina, per nove anni sindaco a Sciacca, è uno degli antesignani del trasversalismo: nel 2004 sostenne laggiù il candidato sindaco di Forza Italia, Mario Turturici. Tonino con Silvio, che orrore. Ma accade, e pure spesso, in Italia.
In Liguria Giovanni Paladini, ex Ppi, poliziotto e segretario del Sap (uno di quelli che votarono «per affossare l’inchiesta parlamentare sul G8») tra le tante altre cose, accusa MicroMega, ha inserito in lista alle europee Marylin Fusco, «sua fiamma» (la neodipietrista, in un dibattito tv su Odeon, sbottò sconsolata: «Nei confronti di Silvio Berlusconi è in atto una persecuzione»). C’è chi, in quell’entourage, è stato al centro di attenzioni dei pm per rapporti con famiglie calabresi.
Zerbino racconta vita e miracoli di Nello Formisano, capo in Campania. «Insieme all’ex dc potentino Felice Belisario incarna l’ala “pragmatica”, per così dire, dell’Idv: entrambi hanno riempito il partito delle mani pulite di faccendieri e arrivisti, in larga misura di provenienza democristiana». Grazie a Formisano - scrive - sono entrati Mimmo Porfidia (ex Udeur che verrà indagato dalla Dda di Napoli per il 416 bis), Nicola Marrazzo (attualmente capogruppo in consiglio regionale, «la sua famiglia possiede diverse imprese impegnate nel settore dei rifiuti, quattro delle quali si son viste ritirare dalla Prefettura il certificato antimafia»). È entrato il leggendario Sergio De Gregorio. È Formisano, in posti come Torre del Greco, San Giorgio a Cremano, Qualiano, ad aver reso normali operazioni di «Grosse Koalition alla pummarola», facendo entrare sistematicamente l’Idv in giunte di destra. Di Belisario MicroMega ricorda che ha lo stesso, diciamo così, talento trasversale; o che ha fatto arrivare al partito uomini del calibro di Orazio Schiavone, ex Udeur, condannato per esercizio abusivo della professione odontoiatrica.
Ex tutto, invece, è Pino Pisicchio: ex dc, Ppi, Rinnovamento italiano, Udeur. Ora è parlamentare dell’Idv e ha scritto un libro, “Il post partito” (edizioni Rubbettino) per magnificare il “movimento” del trattorista molisano.

Il direttore: «I panni sporchi non si lavano in famiglia» – Farà discutere tanto quest’inchiesta. Per chi considera l’Idv l’ultimo baluardo contro il berlusconismo forse sarà un boomerang. Necessario, però, stando a quanto scrive il direttore di MicroMega Paolo Flores D’Arcais nell’editoriale d’apertura: «Se qualcuno si straccerà le vesti manifestando la sindrome di lesa maestà, e si arroccherà di fatto nell’universo ben noto dei “panni sporchi si lavano in famiglia” vorrà dire che una volta di più la speranza è stata tradita e l’ultimo regalo a Berlusconi (forse definitivo) è già stato spedito».


giovedì 24 settembre 2009

Una commedia degna del miglior Totò



In questa notizia vi è la prova provata che qualcosa non va nella gIUSTIZIA italiana. Sapendo di restare praticamente impuniti fanno tutto quello che vogliono, come raccontato nell'articolo che pubblico di seguito.
L'esempio lo abbiamo nel processo della Parmalat dove il principale imputato, Calisto Tanzi, non farà più un giorno di carcere tolti quei tre mesi di arresti domiciliari fatti dell'inizio della vicenda.
Negli Stati Uniti d'America il principale imputato della ENRON (scandalo simile a quello della Parmalat) è in galera dove sconta la pena di 25 anni di carcere.



Una commedia degna del miglior Totò quella messa in scena da "Tributi Italia"
 

di Dimitri Buffa

In un paese ossessionato dal fisco come è sempre stato l’Italia, prima o poi doveva capitare che, per il sarcasmo della sorte, una concessionaria di riscossione dei tributi degli enti locali (Tarsu e Ici soprattutto) mettesse in atto uno stratagemma degno del principe De Curtis, in arte Totò: incassare le tasse dei cittadini e trattenerle per sé invece che versarle nelle casse dei comuni. Adesso questa situazione è realtà da quando svariate procure della Repubblica italiana hanno messo sotto la lente l’operato di Tributi Italia, già Gestor, San Giorgio e prima ancora Custer, cioè sempre società di riscossione trasformatesi, come le scatole cinesi, in Tributi Italia grazie all’inventiva imprenditoriale dei fratelli Giuseppe e Patrizia Saggese. Anche la deputata (eletta nel Pd) dei Radicali italiani Rita Bernardini ha recentemente dedicato un’interrogazione alla vicenda. Ma basta solo girare nei siti degli enti locali, sono circa 585 quelli che hanno affidato a Tributi Italia la riscossione delle entrate, per imbattersi in comunicati tragicomici come il seguente dei comune di Lauria in provincia di Potenza: "Oggetto: Decadenza della concessione affidata alla Tributi Italia Spa (già San Giorgio Spa) per l’accertamento, la liquidazione e la riscossione dell’imposta Comunale sulla pubblicità, dei diritto sulle pubbliche affissioni e relativo servizio, del canone occupazione spazi ed aree pubbliche, nonché di servizi affidati in materia di imposta comunale sugli immobili. Il responsabile dei servizio avvisa che con Determina Dirigenziale n. 22 de 20 luglio 2009 la Tributi Italia Spa, è stata dichiarata decaduta, con effetto immediato, dal pubblico servizio svolto in questo comune, per l’accertamento, la liquidazione e la riscossione dell’imposta Comunale sulla pubblicità, del diritto sulle pubbliche affissioni e relativo servizio, del canone occupazione spazi ed aree pubbliche, nonché dei servizi affidati in materia di Imposta Comunale sugli Immobili. Detta società, non è autorizzata a riscuotere alcuna somma per conto di questo Comune. I contribuenti per servizi, notizie ed informazioni, già svolti dalla suddetta Società, potranno rivolgersi all’Ufficio Tributi Comunale, sito nel Palazzo Municipale, anche telefonando ai numeri 0973 627286/3". Secondo le accuse, dunque, la società concessionaria di livello nazionale per anni avrebbe trattenuto su propri conti correnti e investito in altre operazioni i soldi dell’Ici e della Tarsu versati dai cittadini, dimenticando di girarli alle casse di Comuni con i quali avevano stipulato il contratto. L’ultimo episodio ha avuto per vittima il Comune di Pomezia: secondo gli inquirenti la società avrebbe sottratto alle casse comunali ben 140 milioni di euro. Quattro mesi prima ci fu l’inchiesta sul Comune di Nettuno. Mezza Guardia di finanza sta ora setacciando l’Italia a caccia di un "tesoretto" ormai miliardario di tasse non versate. Tributi Italia ha sede ufficiale a Roma, in via Veneto, e sede operativa a Chiavari, in provincia di Genova ed è anche il terzo agente di riscossione in Italia per volume d’affari. Pare però che sia il primo per contenziosi in corso, inchieste penali (Latina, Velletri, Bologna, Alghero, Brindisi, Siracusa), accertamenti della Guardia di finanza, aperture di procedimenti presso la Corte dei conti e il ministero delle Finanze. E solo in Italia, c’è da dire, poteva scoppiare uno scandalo del genere visto che da noi l’ossessione fiscale si accompagna non solo all’evasione delle tasse ma anche alla delega a decine di concessionari privati della riscossione delle imposte. Dato che lo stato e gli enti locali da soli il loro mestiere non sembrano saperlo fare. Mentre altri, a quanto pare, lo fanno fin troppo bene.

 Fonte: L'Opinione del 23 settembre 2009, pag. 6

L'ipocrisia dei nostri politici sancita con sentenza!

Ecco l'ipocrisia del "politici" italiani sancita da una sentenza della magistratura.
Leggete con attenzione quanto dichiara il presidente pidiessino della provincia di taranto, Gianni Florido (parte evidenziata i giallo), dopo l'esito della causa.
Purtroppo l'incorenza dei politici in Italia non paga mai pegno, siamo di memoria troppo corta o addirittura assente. 
  

 Taranto: giunta provinciale senza donne, Tar Puglia la annulla.

 Il Tar della Puglia, sezione di Lecce, ha accolto oggi il ricorso presentato da un comitato locale che aveva chiesto con un ricorso l'annullamento della giunta della Provincia di Taranto, di centrosinistra, perchè non ha rispettato le quote rosa, così come dispone lo stesso regolamento dell'ente.




"Il presidente Gianni Florido ha nominato gli assessori senza una rappresentanza femminile, anche in violazioned el principo di non disriminazione previsto dalla Costiruzione italiana e ddela Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea", ha detto al telefono dell'agenzia Reuters l'avvocato Nicola Russo, coordinatore di "Taranto futura", il comitato che ha presentato il ricorso.
"Ora la giunta provinciale é illegittima e si dovrà procedere alla sua modifica entro 30 giorni, pena la decadenza della stessa, in modo tale da assicurare la presemza di entrambi i sessi" spiega Russo.

La giunta provinciale di Taranto guidata da Gianni Florido (PD) é composta da 10 assessori, tutti maschi.

"Noi pretendiamo la presenza di almeno tre donne, anche se sarebbe meglio fare cinque assessori donne e cinque maschi. Ma se il presidente nion nomima almeno tre donne entro il mese non presenteremo al TAR un'altra istanza. Perchè la nomina deve essere proporzionale. Non solo, nel ricorso abbiamo anche sostenuto che non può essere una scelta politica: tutte le nostre ragioni
sono state accolte dal TAR", ha aggiunto l'avvocato Russo.

Intanto il presidente della provincia di Taranto si difende dicendo che non c'é stata alcuna attività discriminatoria, non sono un maschilista."

"Mi adeguerò a una norma che peraltro condivido e che ho fatto cambiare io stesso nello Statuto con l'articolo 48 dello Statuto della Provincia (Questo dopo la sentenza  Prima, ipocritamente, predicava bene ma razzolava male! NdB). 
Farò in modo  
di rappresentare il genere femminile nel governo provinciale, come avevo già spiegato nelle motivazioni con cui ho presentato la giunta il 3 settembre scorso, con un secondo decreto di nomina", ha detto al telefono a Reuters Florido. Dicendosi vittima "di una criterio concordato e messo in pratica da tutti i partiti della mia coalizione".

Non è la prima volta che davanti al TAR, in Puglia, si deve discutere del mancato rispetto delle quote rosa nella formazione delle giunta. Proprio in provincia di Taranto c'è il precedente del comune di Maruggio. Mentre in provincia di Bari, nel settembre del 2008, fu sempre il Tar, questa volta della sezione di Bari, ad imporre al sindaco di Molfetta, Antonio Azzolini, (senatore in carica del Pdl) la presenza femminile in giunta, non ritenendo sufficiente l'elezione in Consiglio Comunale di sole quattro donne.
  
A presentare l'istanza furono la Commissione femminile della Regione Puglia e alcuni consiglieri dell'opposizione di centrosinistra.

Fonte: internet


CASO MORO, UN PENTITO RIVELA "TUTTI SAPEVANO DI VIA GRADOLI"...

Quanto asserisce questo ennesimo pentito che dice di non volere nulla in cambio della sua "collaborazione", ma poi si lamenta di non avere protezione e rischia di essere ammazzato dai suoi ex amici di malaffare,  di essere senza soldi e lavoro, è cosa che deve essere indagata a fondo per la sua estrema gravità.


«Tutti sapevano di via Gradoli».


Francesco Fonti, il pentito della ‘ndrangheta che ha permesso di individuare le "navi dei veleni" nei fondali della Calabria, fa nuove clamorose rivelazioni. Stavolta sul caso Moro, l´ex presidente della Dc sequestrato e ucciso dalle Br nel 1978. Una testimonianza raccolta da Riccardo Bocca de L'Espresso, registrata con un video, che accompagna un lungo articolo pubblicato sul sito del settimanale.


Fonti racconta di essere stato inviato dalla ‘ndrangheta a Roma nel marzo del ‘78, chiamato da Riccardo Misasi, ex braccio destro di De Mita, e dall´onorevole Vito Napoli. Il suo boss, Sebastiano Romeo, gli dice che bisogna dare una mano per scoprire il covo delle Br e di mettersi in contatto con «l´amico» dei Servizi. Il pentito riferisce di un incontro con l'ex segretario della Dc Benigno Zaccagnini, sostiene di aver presto capito che diversi personaggi della banda della Magliana sanno che Aldo Moro e i suoi rapitori stanno in via Gradoli, sulla Cassia.


«Come è possibile, mi domando, che tutta la malavita di Roma sappia dove si trova il covo delle BR?».
Fonti - scrive L'Espresso - ha riscontri anche dai rappresentanti della ‘ndrangheta nella capitale, dove incontra la sua fonte nel Sismi, un certo Pino. È lui che lo porta dall'allora direttore del Servizio, Giuseppe Santovito, il 4 aprile 1978.

«Pino mi porta dal capo a Forte Braschi. Santovito mi chiede se ho notizie su un appartamento in via Gradoli 96. Gli rispondo che ho sentito questo indirizzo da amici. E lui commenta: "Tutto vero, Fonti: è giunto il momento di liberare Moro"». Ma tornato in Calabria, il suo boss lo gela: «A Roma i politici hanno cambiato idea. Dicono che dobbiamo soltanto farci i cazzi nostri».

Fonti decide di chiamare la questura capitolina: «Via Gradoli 96, lì troverete i carcerieri di Moro». Pochi giorni dopo il covo di via Gradoli viene scoperto per una "strana" perdita d´acqua. Dei brigatisti non c´è traccia.



«Non c´è stata la volontà di agire», afferma il pentito. Una conferma l'uomo ritiene di averla avuta nel 1990, quando stava nel carcere di Opera con Mario Moretti: il capo delle BR riceveva ogni mese una busta con un assegno circolare. «Qualche tempo dopo un brigadiere che credo si chiami Lombardo mi confida che, per recapitare i soldi (del ministero dell´Interno [i ministri di quel periodo furono Antonio GAVA e Vincenzo SCOTTI. NdB]), lo hanno fatto risultare come un insegnante di informatica, e in quanto tale Moretti viene retribuito. L´ennesimo mistero tra i misteri».


Il Pdci chiede una verifica. Cautela in procura a Roma: il video sarà visionato, tra oggi e domani si deciderà che fare.


2 - "IO BOSS, CERCAI DI SALVARE MORO"
Testimonianza di Francesco Fonti raccolta da Riccardo Bocca per


Si chiama Francesco Fonti, e il suo nome in queste settimane rimbalza tra giornali e televisioni. Grazie al dossier che ha consegnato alla Direzione nazionale antimafia, pubblicato da "L'espresso" nel 2005, i magistrati della Procura di Paola e la regione Calabria hanno individuato il 12 settembre scorso, al largo della costa cosentina, il relitto di un mercantile carico di bidoni: il primo passo verso una verità che riguarda il traffico internazionale di scorie tossiche e radioattive.

Un intreccio tra politica, servizi segreti e malavita organizzata."Soltanto un aspetto, per quanto grave, della mia attività", lo definisce Fonti (condannato a 50 anni di carcere, prima di iniziare la collaborazione con i giudici).

E sempre Fonti, in queste ore delicate, decide di rivelare al nostro giornale un altro capitolo della sua vita criminale: il ruolo che avrebbe avuto nel tentativo di salvare la vita al presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse e trovato morto nel centro di Roma il 9 maggio seguente. Un compito, dice, affidatogli dal boss Sebastiano Romeo, dietro richiesta di una parte della Dc. Ecco il drammatico racconto, in prima persona, di quelle tre settimane.

Non mi lascia aprire bocca, Sebastiano. È innervosito dall'allarme nazionale procurato dal caso Moro, un clamore che sta disturbando gli affari della nostra organizzazione. "Ho ricevuto pressioni a due livelli", spiega: "Mi hanno chiamato Riccardo Misasi e Vito Napoli (figure di spicco della Democrazia cristiana calabrese, ndr), ma anche certi personaggi da Roma...". Non precisa chi sono, queste persone. Ribadisce, invece, che la missione è di importanza straordinaria, e non avrebbe accettato un mio fallimento.


Con questa premessa parto per la Capitale il giorno dopo. Salgo sulla mia Renault 5 Alpine grigia metallizzata e scarico i bagagli all'hotel Palace di via Nazionale, dove ho già soggiornato e dove consegno documenti falsi intestati a un inesistente Michele Sità. Poi mi metto in contatto con un agente del Sismi che si fa chiamare Pino: un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta, con capelli corti pettinati all'indietro. L'ho conosciuto anni prima tramite Guido Giannettini, il quale ha cercato di blandirmi per ottenere informazioni sulla gerarchia interna della 'ndrangheta.

Visto il solido rapporto tra me e Pino, gli chiedo cosa sappiano i servizi del caso Moro, e se abbiano scoperto dove si trovano i carcerieri delle Br. Lui risponde vago, dicendo che è una storiaccia, e che neppure lui è riuscito a capire come stiano le cose. In compenso, mi invita a parlare con il segretario della Democrazia cristiana Benigno Zaccagnini, il quale sta lavorando sotto traccia per aiutare Moro. Un'ipotesi diventata, poche ore dopo, un vero appuntamento.

Al termine di una giornata convulsa (durante un ultimo controllo alla Fiat 130 su cui viaggiava Moro, è stata trovata una terza borsa non elencata nel verbale della prima perquisizione) rivedo infatti l'agente Pino, che nel frattempo ha parlato con Zaccagnini. E mi dice di presentarmi il giorno dopo, alle 10 della mattina, al Café De Paris di via Veneto.


Specificando: "In mano devi tenere la "Gazzetta del sud"", di cui mi consegna una copia. "In questo modo, il segretario ti riconoscerà facilmente". Il mattino del 22 marzo, mentre al Viminale si riunisce il Comitato tecnico operativo gestito dal ministro dell'Interno Francesco Cossiga, arrivo puntuale all'appuntamento. Mi siedo a un tavolino nel dehors del Cafè de Paris, e aspetto circa dieci minuti.

Dopodiché arriva il segretario Zaccagnini: dà un'occhiata attorno, mi individua e si accomoda di fronte a me. Forse, penso, ha qualche indicazione chiave da riferirmi. Ma non è così: "È un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico", inizia senza neppure avermi detto buongiorno. Si vede che è imbarazzato, e irritato, per essere costretto a incontrare uno come me.

"Mi creda", prosegue, "non avrei mai immaginato un giorno di sedermi davanti a lei in qualità di petulante. Non sono mai sceso a compromessi, ma se sono venuto a incontrarla, significa che il sistema sta cambiando. Faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva. Ci dia una mano e la Dc, di cui mi faccio garante, saprà sdebitarsi". Poi sorseggia un sorso d'acqua, si alza per andarsene e aggiunge: "Noi non ci siamo mai incontrati... Se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona, le dirà all'agente Pino".

La mia risposta, visto l'atteggiamento scostante del segretario, è gelida. Mi limito a comunicargli che mi sono attivato per recuperare le informazioni utili. E aggiungo: "Sicuramente le nostre ricerche saranno fruttuose, e le saranno comunicate da me in prima persona". Parole che pronuncio con convinzione. Non posso sapere che questa sarà la prima e unica volta che incontrerò Benigno Zaccagnini, e tantomeno che nelle settimane seguenti succederanno fatti anche per me sorprendenti.

A partire dall'incontro con un malavitoso capitolino, noto con il soprannome di "Cinese" per i baffetti alla mongola. Non so quale sia il suo vero nome, ma è certamente inserito nella celebre banda della Magliana. Me lo spiega il referente romano di Cosa nostra, Pippo Calò, il quale garantisce che può essermi utile: "Quelli sanno tutto?", dice. E aggiunge che, in quelle stesse ore, anche Cosa Nostra sta lavorando per i politici romani all'individuazione dei carcerieri di Aldo Moro.

"So bene che le promesse dei politici non vengono mantenute", mi dice, "ma dobbiamo aiutarli per cercare di ottenere l'annullamento degli ergastoli inflitti ai nostri uomini".

Da parte mia, ho forti perplessità a trattare con la malavita romana, perché in Calabria si dice che con i romani si può mangiare e bere, ma non fare affari. Parlano troppo. Si vantano e cacciano tutti nei guai. Così, quando incontro il Cinese tramite Bruna P., una donna con la quale ho una relazione, e che ha un negozio di biancheria intima dove ricicla soldi della Magliana, sono molto prudente.

Ci vediamo il 25 marzo, giorno in cui le Br diffondono il loro secondo comunicato, in una birreria di via Merulana, a poche decine di metri da piazza San Giovanni. E il mio interlocutore non tarda a fare lo sbruffone: "Lo sanno tutti dove sono nascosti Mario Moretti e tutti gli altri!", ride. Impugna un boccale di birra da un litro, e nonostante la delicatezza del tema parla a voce alta nel locale affollatissimo: "I rapitori di Moro si trovano in un appartamento in via Gradoli, dalle parti della Cassia", dice. Non mi indica il numero esatto, ma in ogni caso non ha dubbi: "Se lo volessero trovare, Moro, non ci vorrebbe niente. Però chi lo vo' trovà, a quello?", conclude con un'altra risata.
aldo moro prigioniero visto da tullio pericolicopertina left aldo moro

Inutile dire che rimango perplesso: da una parte mi fa divertire, come si comporta il Cinese, dall'altra temo di buttare il mio tempo. Com'è possibile, mi domando, che tutta la malavita di Roma sia al corrente di dove si trova il covo delle Brigate rosse? Ci vogliono ben altre conferme, penso, prima di contattare Zaccagnini; e anche per questo decido di parlare con Angelo Laurendi, un 'ndranghetista di Sant'Eufemia D'Aspromonte che conosco da tempo e che spero possa darmi notizie interessanti.

Una speranza, purtroppo, infondata, ma questo non significa che la nostra chiacchierata sia inutile. Angelo, infatti, mi accompagna sulla sua Lancia Appia nel comune di Ciampino, e per la precisione in un negozio di mobili il cui proprietario è Morabito di Reggio Calabria, un 'ndranghetista di cui non conosco il nome di battesimo. È comunque in quel momento un uomo tarchiato, sulla quarantina abbondante, con la barba scura e una piccola cicatrice sullo zigomo.

Mi accoglie cordiale e rispettoso in ufficio, e quando domando se gli risulta di un appartamento delle Brigate rosse in via Gradoli, annuisce: "Voi potete stare sicuro che qualcosa c'è, in via Gradoli", dice. "Mi hanno detto che i brigatisti gestiscono un appartamento, lì, e probabilmente c'entra con Moro".

A questo punto, capisco che l'indicazione datami in prima battuta dalla banda della Magliana non è così improbabile. Perciò ricontatto l'agente Pino, gli faccio credere di non sapere ancora nulla, e insisto per ottenere nuovamente aiuto. Una richiesta che non può rifiutare, visto il nostro legame, tant'è che dopo avere premesso che sono in atto vari depistaggi, mi suggerisce di parlare con l'appuntato dei carabinieri Damiano Balestra, addetto all'ambasciata di Beirut sotto il comando del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, il quale gli ha raccomandato di salvare a tutti i costi il presidente Moro (non a caso, in una sua lettera durante la prigionia, Moro invoca proprio l'intervento di Giovannone, ndr).

"Balestra ha ottime fonti", dice l'agente Pino. E non sta esagerando. Ne ho la riprova quando ci vediamo tutti e tre (io, Pino e Balestra) negli ultimissimi giorni di marzo, davanti a un bar nel quartiere romano dell'Alberone, dalle parti di via Tuscolana. È pomeriggio, e parliamo a bordo della Lancia di Pino. Il discorso dell'appuntato Balestra è chiarissimo: "Io sto dando l'anima", dice, "per arrivare alla liberazione del presidente, ma continuo a sbattere contro un muro. Ogni informazione che ricevo è vera e falsa allo stesso tempo. Non distinguo più tra chi mi vuole aiutare e chi cerca di farmi girare a vuoto.



In più c'è la guerra politica, con i socialisti che vogliono vivo Moro, e gran parte della Dc che finge di volerlo liberare". Poi sussurra: "In questo covo di cui si vocifera, in via Gradoli 96, non abita nessuno. O almeno, così dice chi ha verificato (un primo sopralluogo in via Gradoli 96 è avvenuto il 18 marzo: sono stati perquisiti tutti gli appartamenti tranne quello affittato dalle BR,dove l'inquilino non ha risposto al campanello e gli agenti se ne sono andati, ndr)". In ogni caso, insiste Balestra, ha la certezza che in quella casa bazzichino i brigatisti, anche se non sono stati fermati.

È qui che capisco quanto la mia trasferta romana rischi di essere inutile. Il dramma di Moro campeggia sulle prime pagine dei giornali, i partiti si mostrano formalmente costernati, ma dietro le quinte si consuma qualcosa di inconfessabile. Chi si batte veramente, con tutte le forze, per individuare i covi delle Br, non viene appoggiato.

Anche se è una persona seria come il democristiano siciliano di corrente fanfaniana Benito Cazora (scomparso nel 1999, ndr); un parlamentare che cerca di incontrare chiunque possa svelargli dove si nascondano i brigatisti e dove sia segregato Moro. Tra gli altri, il deputato parla con un certo Salvatore Varone, 'ndranghetista che noi chiamavamo Turi, ma che si presenta a Cazora come Rocco, incontrandolo in varie occasioni delle quali non conosco i particolari.

Posso invece riferire, per quel che mi riguarda, che contatto l'onorevole Cazora tramite Morabito di Ciampino, il quale dice che questo parlamentare "sta impazzendo per avere informazioni sul presidente Moro". Fisso quindi un incontro con lui a Roma, nel ristorante Rupe Calpurnia, dove noi 'ndranghetisti abbiamo festeggiato il compleanno dell'affiliato Rocco Sergi. Il nostro dialogo è breve e teso, e si svolge in presenza degli 'ndranghetisti Morabito e Laurendi. Cazora è angosciato, in effetti. Mi spiega che ha già parlato con un altro calabrese, Rocco, e che è perplesso perché ha fatto lo spaccone: "Sostiene", mi dice Cazora, "che può recuperare informazioni visto che i calabresi a Roma sono 400 mila, e perciò possono controllare il territorio'.


Io, dentro di me, penso che sono strane frasi, per uno come Varone che nella 'ndrangheta conta come il due di picche. In ogni caso, non faccio commenti perché non so chi frequenti Varone. Mi limito a informare il deputato che mi sto muovendo, dietro un mandato politico, per trovare il covo dei brigatisti, anche se non ho notizie certe. Al che lui risponde: "Mi auguro sinceramente che abbiate più fortuna di me, grazie alle vostre amicizie". Intanto i giorni passano, e la situazione si fa sempre più drammatica.

Il 29 marzo le Brigate rosse recapitano il terzo comunicato, con allegata una lettera di Aldo Moro per il ministro dell'Interno Cossiga. Il 4 aprile tocca a un quarto comunicato, trovato con l'angosciante missiva in cui Moro si rivolge a Zaccagnini (sulla trattativa per la liberazione, il presidente scrive: "Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la Dc che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l'avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone", ndr).

È evidente, dopo simili parole, che il dramma del sequestro rischia di incanalarsi verso la peggiore conclusione, e io stesso temo di fallire la missione. Ma mentre il clima si invelenisce, e le speranze di salvare Moro diminuiscono, mi ricontatta l'agente Pino per farmi sapere che Giuseppe Sansovito, numero uno (piduista, ndr) del Sismi, ha espresso il desiderio di parlarmi. E così accade.

Di lì a poco, Pino mi porta dal capo a Forte Braschi, e dopo un dialogo interlocutorio Santovito mi chiede se ho notizie precise riguardo a un appartamento in via Gradoli 96. Gli rispondo che, in effetti, ho sentito questo indirizzo da amici, e lui commenta: "Tutto vero, Fonti: è giunto il momento di liberare il presidente Moro". In ogni caso, aggiunge congedandomi, "teniamoci in contatto tramite Pino".

La mattina dopo, quella di domenica 9 aprile (o di lunedì 10, non vorrei sbagliarmi), lascio la Capitale e mi precipito a San Luca da Sebastiano Romeo. Sono soddisfatto perché non soltanto so dove probabilmente sono nascosti i brigatisti, ma c'è anche il preannuncio datomi dal colonnello Santovito della futura liberazione del presidente Moro.

Quando però incontro Sebastiano, lui ascolta con attenzione il mio resoconto per una mezz'ora, dopodiché mi stronca: "Sei stato bravo", riconosce. "Peccato che da Roma i politici abbiano cambiato idea: dicono che, a questo punto, dobbiamo soltanto farci i cazzi nostri". Una frase assurda, imprevedibile, che lì per lì incasso in silenzio, ma che di fatto vanifica il mio lavoro nella Capitale. Sono stanchissimo, amareggiato. Ho indagato come si deve, a Roma, e adesso dovrei fottermene come se ne fotte l'intera classe politica.

Ci provo con tutto il cuore, ma non ci riesco: sono un 'ndranghestista di primo livello con tanto di sgarro (indispensabile per accedere al massimo livello dell'organizzazione, ndr), ma sono anche una persona che sa dire di no, a volte: e questa è una di quelle volte.

Dopo l'incontro con Romeo, dunque, torno a Bovalino e telefono alla Questura di Roma, presentandomi al centralinista come Rocco. "Andate a Roma, in via Gradoli al numero 96", scandisco, "e troverete i carcerieri di Aldo Moro". "Da dove sta chiamando?", domanda il centralinista allarmato. "Chi parla? Chi è lei?", insiste. Ovviamente non rispondo; abbasso la cornetta e provo anon pensarci più.

Una promessa impossibile da mantenere. Poco dopo, il 18 aprile 1978, il covo di via Gradoli 96 viene scoperto per una strana perdita d'acqua. Dei brigatisti, come logico viste le premesse, non c'è traccia. E a questo punto so bene il perché: non c'è stata la volontà di agire. C'è invece, molti anni dopo, nel 1990, il mio incontro nel carcere di Opera (provincia di Milano, ndr) con il capo delle Br Mario Moretti, colui che ha ammesso di avere ucciso il presidente Moro, assieme al quale frequento casualmente un corso di informatica.

I nostri rapporti si fanno presto cordiali, piacevoli; lui sa esattamente chi sono e mi rispetta. Io pure. Finché un giorno, mentre armeggiamo al computer, una guardia gli consegna una busta e annuncia: "Moretti, c'è la solita lettera". Lui la apre senza nascondersi, estrae un assegno circolare, lo firma sul retro per girarlo all'ufficio conti correnti che permette l'incasso, e mi dice: "Questa, Ciccio, è la busta paga che arriva puntualmente dal ministero dell'Interno".

Frase che all'istante scambio per una battuta, per uno scherzo tra carcerati: sbagliando. Qualche tempo dopo, un brigadiere che credo si chiami Lombardo mi confida che, per recapitare soldi a Moretti, lo hanno fatto risultare come un insegnante di informatica, e in quanto tale è stato retribuito. L'ennesimo mistero tra i misteri del caso Moro, dico a me stesso; l'ennesima zona grigia in questa storia tragica.


Fonte: E. V. per "la Repubblica" sito Dagospia del 23-9-2009