domenica 31 maggio 2009

Franceschini: ne scrive chi lo conosce da tempo.

A causa della mia poca memoria e dell'età mi meraviglio molto che non abbia ricordi di fatti anche importanti. Meno male che ci sono persone dalla memoria prodigiosa che ricordano tutto, e che riportandoli adesso alla luce ci possono far capire fatti e persone che avevamo dimenticato.
Ecco, quindi, chi è veramente l'attuale segretario del PD, Dario Franceschini, quello che ha giurato fedeltà alla Costituzione nell'assumere la carica di segretario di un partito politico, confondendola con quella di presidente della Repubblica.
Dario, il trinariciuto bianco

di Giampaolo Pansa
Ci deve essere un falso storico nella biografia di Dario Franceschini. Dappertutto si scrive che il leader del Pd è cresciuto in parrocchia e sin dall`infanzia ha avuto nel cuore lo Scudo crociato della Balena democristiana. In più, quando ha iniziato a fare politica è stato discepolo di Benigno Zaccagnini, diventato segretario della De nel 1975. Nel mio lavoro di cronista, ho conosciuto bene "Zac". Era un vero signore, dai modi cortesi e con una spiccata eleganza intellettuale. Anche per questo si distingueva dalla casta partitica del tempo. Affollata pure allora di tipacci volgari, capaci di una violenza verbale senza limiti. Pronti a gridare le peggio cose nei confronti degli avversari. Chi lavorava con Zaccagnini era altrettanto gentile. La scuola di "Zac" respingeva chi si mostrava rozzo, i burini, la gentuccia e la gentaglia. Dove sta il falso storico nelle note biografiche di Franceschini? Sta nel fatto che, ogni giorno di più, il suo modo di fare contrasta con lo stile del presunto maestro. Come apre bocca, si lascia andare a qualche volgarità nei confronti di chi osa contrastarlo. Lo si è visto anche durante il Ballarò dell`altro ieri. Nel tentativo di annullare quel che stava dicendo Maurizio Belpietro, direttore di Panorama, Franceschini si è rivolto ai telespettatori ringhiando: «Vi avverto che questo signore è un dipendente di Berlusconi!». Franceschini deve godere molto nello sparare quella parola. L`aveva già tirata in faccia a Carlo Rossella durante un Ballarò di qualche settimana fa. Quando il mio vecchio amico Carlo, presidente della Medusa Film, iniziò a parlare, il leader del Pd si mise a urlacchiare, sempre rivolto al pubblico: «Attenzione, questo è un dipendente di Berlusconi!». Rossella gli replicò come meritava. E lo stesso ha fatto Belpietro, ricordandogli di essere il direttore di un settimanale della Mondadori e non un famiglio di Arcore. A questo punto, è giusto chiedersi se Franceschini sia davvero cresciuto nella Democrazia cristiana di Zaccagnini e non in una delle scuole di partito del vecchio Partito comunista di Ferrara. Sappiamo com`erano fatti i maestroni comunisti, soprattutto in aree integralmente rosse. Erano compagni che non andavano per il sottile. Se gli conveniva aggredire, aggredivano. Se dovevano offendere, lo facevano senza risparmio. E il loro primo passo consisteva nel dire che l`avversario era un dipendente di qualcuno più grande e più nefando di lui. In- somma un servo. II Pci di Togliatti non aveva riguardi per nessuno. Si comportò così persino nei confronti di un big del comunismo mondiale: il maresciallo Tito. Nel primo dopoguerra veniva osannato come il capo della guerra partigiana jugoslava, un grande combattente per la libertà dei popoli. Poi nel giugno 1948 Tito ruppe con Stalin e divenne subito uno sporco fascista, un servo degli Stati Uniti, al soldo dei banchieri di Wall Street, un capitalista tra i più odiosi. Sette anni dopo, Tito fece la pace con l`Urss, guidata da Nikita Krusciov. E ritornò un compagno, un capo socialista, un eroe rosso. Molto più in piccolo, ho fatto anch`io l`esperienza di passare per servo di qualcuno. Alla fine del 1960, quando entrai alla Stampa diretta da Giulio De Benedetti, mi resi subito conto di una seccatura spiacevole. Per il Pci torinese, i redattori del giornale erano tutti servi della Fiat. E come tali andavano trattati. Anche gli intellettuali della rossa Einaudi ci guatavano con disprezzo. Considerandoci dipendenti di Vittorio Valletta, il dittatore che aveva sconfitto la Cgil e metteva i comunisti fuori dalla fabbrica. Quando andai al Giorno, diventai subito un servitore dell`Eni. Arrivato al Corriere della Sera, venni classificato come servo dei Crespi, poi dell`avvocato Agnelli, quindi di Angelo Rizzoli. Evitai per un soffio di finire al servizio della Loggia P2 perché me ne andai in tempo da via Solferino. E il giorno che Carlo De Benedetti diventò il proprietario del gruppo Espresso-Repubblica, eccomi con la livrea di servente dell`Ingegnere. Tutti i politici strillano che la democrazia ha bisogno di un`informazione libera. Ma non hanno rispetto dell`autonomia dei giornalisti. Arrivando così a conclusioni paradossali. Seguendo la logica distorta del segretario del Partito democratico, anche Giovanni Floris, il conduttore di Ballarò, dovrebbe essere ritenuto un dipendente prima di Walter Veltroni e poi dello stesso Franceschini. In quanto proprietari di fatto della Rete3 che la spartizione della Rai in lotti gli ha assegnato. Non so come finirà la battaglia elettorale del 7-8 giugno. Sappiamo che il centrodestra vive giorni d`angoscia per l`affare Noemi. E che il presidente del Consiglio si sente inseguito come non mai dall`incubo di una vittoria dimezzata, molto somigliante a una sconfitta. Ma Franceschini si è già condannato da solo. Meritandosi la medaglia di Trinariciuto Bianco. Un bel guaio per un ex ragazzo tutto casa, famiglia e "Zac".
• da Il Riformista del 28 maggio 2009, pag. 1

sabato 23 maggio 2009

Tutti uguali i nostri pOLITICANTI!

Non se ne salva nessuno, ma proprio nessuno dei pOLITICANTI italiani che fannnop politica (si fa per dire) esclusivamente per la "pagnotta" loro e dei loro "amici" ed accoliti.

Il tesoro della casta
di Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli

Trasparenza addio, sulle sovvenzioni di privati e aziende ai partiti cala di nuovo l`ombra. Ai tempi di Tangentopoli il reato di illecito finanziamento travolse la prima Repubblica? Bene, adesso il finanziamento è diventato lecito ma invisibile, praticamente occulto: sotto i 50 mila euro resta nascosto a norma di legge. È l`arma segreta di un esercito di uomini con la ventiquattr`ore che cinge d`assedio i palazzi del potere: si chiamano lobbisti, e bussano alle porte dei politici, ungendo ingranaggi dove più gli conviene. Quanto pesi veramente la loro opera di "seduzione" sulle decisioni dei Parlamento è cosa ardua da capire.
Le liste tenute dalle Camere non sono soltanto difficili da consultare, ma nascondono la reale entità del fenomeno. Spulciando i bilanci 2007 delle formazioni politiche rappresentate in Parlamento, infatti, "L' Espresso" ha individuato una "zona grigia", formata dai fondi dei quali i tesorieri di partito non sono tenuti a render nota la provenienza.
Qui si scopre che ben il 27 per cento dei contributi privati ai principali partiti italiani è perlopiù di origine ignota. Un limbo da 15 milioni di euro, insomma.
Appena due, invece, i milioni di curo in finanziamenti "trasparenti" nello stesso anno. Se poi pensi che nel 2008 (che è stata annata di campagne elettorali) le cifre "alla luce del sole" sono quadruplicate, vien da chiedersi quanto sia cresciuta in proporzione la zona d'ombra. Come funzioni il lobbismo sommerso celo spiega Franco Bonato, ex tesoriere di Rifondazione:
«L'intento di celare la provenienza dei fondi diviene evidente quando si constata la facilità con cui il limite fissato per legge può essere aggirato. Se io, imprenditore, decido di dare 50 mila euro a un partito, ma preferisco che il mio contributo resti segreto, mi basterà versarne 49.999.
Se ho intenzione di versarne più di 50 mila, e voglio sempre restare anonimo, mi basterà ripartire la somma fra i componenti della mia famiglia. Così io ne verserò una quota, mia moglie un`altra, mio figlio un'altra ancora e così via. Sono stratagemmi di uso comune per chi non vuole farsi notare", conclude.
Tutto grazie allo scorso governo Berlusconi.
Agli inizi del 2006, poche righe inserite di soppiatto nel famoso Milleproroghe, a mò di sandwich fra una disposizione sull'8 per mille e un contributo a "Genova capitale europea della cultura 2004", sono andate a innalzare la soglia di trasparenza dei fondi privati, al di sotto della quale è impossibile sapere chi-dà-quanto-a-chi.
La cifra è schizzata dai circa 6.600 euro fissati nel lontano 1981 ai 50 mila di oggi.
Venti volte tanto. Pure fra i banchi dell`opposizione se n'erano accorti in pochi: fra questi Pierluigi Castagnetti, allora deputato della Margherita, ora Pd. «Permettere che si elargiscano anonimamente cento milioni di vecchie lire», ribadisce oggi, «vuol dire che qui non si parla più di "finanziamento", ma di semplice corruzione politica. Per i partiti come per i singoli parlamentari. Lo stesso accadeva nel medesimo periodo per il finanziamento privato a deputati e senatori, con una modifica voluta dai parlamentari della Casa delle libertà, e infilata con altrettanta destrezza in un testo di legge sul voto domiciliare. In questo caso la soglia è salita dai 6.500 curo a 20 mila e con una differenza non da poco: mentre la zona grigia dei partiti è calcolabile a partire dai loro bilanci, quella dei parlamentari no. Il grigio, da noi, non è fatto solo di soldi che vanno da privati e lobbisti a partiti o singoli parlamentari. Fioccano i versamenti che per varie ragioni viaggiano da partito a garrito o da politico a partito. Le liste della Camera sono piene di rappresentanti che finanziano la propria formazione. Come gli oltre 4 milioni di curo arrivati ai Ds dai propri deputati e senatori nel 2007, i circa 713 mila curo dei leghisti o i 281 mila curo dell'Idv, ma succede anche con An e Margherita, ed era tradizione consolidata fra quelli di Rifondazione. Se l'autofinanziamento attraverso i propri politici può avere un senso, però, qualche perplessità la suscitano i casi in cui è il gruppo parlamentare a rimpinguare le casse del suo partito coi finanziamenti pubblici che riceve da Camera e Senato.
Soldi che in teoria servirebbero esclusivamente alle spese di gestione degli uffici, ma che si traducono in un ulteriore finanziamento pubblico indiretto. Vedi i 97 mila curo del gruppo alla Camera di An, ma vedi anche il mezzo milione di curo che nel 2007 i gruppi leghisti hanno girato a via Bellerio. Se a tutto ciò aggiungi il fatto che, grazie a un vecchio cavillo tornato "utile" ai tempi di Internet, le liste dei finanziamenti privati non possono essere pubblicate ori line, è evidente che in Italia lobbisti e lobbizzati godono di una comoda cortina di fumo. Che fa diventare sempre più opachi i rapporti fra il potere economico e quello politico. Prendiamo Forza Italia. Il confronto fra i contributi sopra i 50 mila curo ricevuti negli ultimi due anni fa riflettere: nel 2007, quando era all`opposizione, è stata corteggiata dai lobbisti con 310 mila curo. Che però un anno dopo, conquistato palazzo Chigi, sono lievitati a quasi 2 milioni e mezzo. Tanti soldi, tanti favori da ricambiare? Una delle più folte pattuglie di sostenitori del Cavaliere sono i costruttori. A scendere in campo addirittura l`Associazione nazionale costruttori edili, con 50 mila euro che certo non staranno rendendo la vita più difficile al Piano Casa di Berlusconi. Insieme all`Ance i grandi costruttori privati. quelli che sugli appalti pubblici fanno la loro fortuna, a cominciare dall`Astaldi. passando per la Pizzarotti di Parma, per finire con il gruppo Gavio. Proprio Marcellino Gavio è il maggior finanziatore forzista, con 650 mila curo in 13 assegni da 50 mila l`uno. Gavio è azionista dell`Impregilo, società capofila per la costruzione del ponte sullo Stretto: è notizia di qualche settimana fa che, dopo lo stop imposto da Prodi, la grande opera ripartirà presto. Ma l`imprenditore alessandrino è anche uno dei signori delle autostrade italiane, visto che gestisce chilometri e chilometri di asfalto, soprattutto al Nord (una su tutte la Torino-Milano). Non gli dispiacerà se dal primo maggio il ministro delle Altero tata i pedaggi. Non solo cemento. Il partito berlusconiano si nutre anche di acciaio, coi 300 mila euro dell`imprenditore cremonese Gio- dalle cliniche, La Nuova Sanità srl di Bari, e Multimedica Holding spa di Milano. Che per un partito andare al potere sia come un battesimo, con tanto di regali degli invitati, lo ha capito bene Raffaele Lombardo, padre-padrone dell`Mpa, che da quando è diventato governatore della Sicilia e alleato di governo della destra ha fatto l`en plein. Nel 2007 nessun contributo di peso, un anno dopo 665 mila euro. Primo fan del medico siciliano è Maurizio Zamparini, presidente del Palermo calcio, con due versamenti da 100 mila euro l`uno. E si capisce: i suoi interessi nell`isola sono molteplici, visto che nel capoluogo sta per costruire un grosso centro commerciale, e in più vorrebbe gestire il progetto di un nuovo stadio. Va di magra, invece, a chi esce dalla stanza dei bottoni. E successo a Lamberto Dini, che quando risultava decisivo per le sorti del governo Prodi aveva ricevuto dall'imprenditore Davide Cincotti 295 mila euro. E ora che è intruppato nel Pdl gli tocca accontentarsi delle briciole (appena 100 mila). Idem per i Ds senesi. Quando il centrosinistra guidava il Paese, Giuseppe Mussari (capo del Monte Paschi) donava loro 162.500 euro, cifra che poi nel 2008 si è ridotta a meno della metà. A volte lobbista e politico sono anime gemelle, altre una strana coppia.
Come l'antiberlusconiano ante litteram, Antonio Di Pietro, che ha intascato 50 mila euro da Sei Tv, una società televisiva milanese. Dalla visura camerale salta fuori che la proprietaria è tale Tiziana Grilli, moglie di Raimondo Lagostena Bassi, reuccio delle tv locali grazie al circuito Odeon. Lagostena però è uomo che fa affari col Cavaliere (visto che mandava in onda la defunta Tv delle libertà della Brambilla ), ed è anche editore di Telepadania (non a caso ha foraggiato anche la Lega con 60 mila euro). Allora con Di Pietro che t`azzecca?
Curioso pure il finanziamento di 60 mila euro alla campagna elettorale di Gianni Alemanno da parte della Snai, società di scommesse. Anche se in fondo al sindaco di Roma l'azzardo non dispiace, visto che da tempo preme per un casinò nella capitale. Ancora, c`è lo strano caso dell`onorevole Sergio De Gregorio, che invece di finanziare la propria televisione (Italiani nel mondo reti televisive", società che gestisce una tv satellitare e web) riceve dalla stessa quasi 75 mila euro. Infine c'è il finanziamento al partito che diventa "lessico famigliare". Stiamo parlando dell'Udc di Pier Ferdinando Casini, che lo scorso anno ha potuto contare su 2.2 10.000 euro (seconda sola a Forza Italia), l'80 per cento dei quali proviene da un`unica fonte: l'immobiliarista Francesco Gaetano Caltagirone.
Un bel po' di soldi, ma spezzettati in 18 tranche da 100 mila, perché così il suocero ci ha anche risparmiato su. Esiste infatti una norma studiata ad hoc perché i partiti calamitino soldi dai privati: chi dona fino a 103 mila euro può scaricare dalle tasse il 19 per cento dell'importo, molto di più rispetto a un'associazione qualsiasi.
• da L'Espresso del 22 maggio 2009, pag. 68/70

Sul clima chi ha ragione?

Dopo aver letto quanto scrivono Zichichi e i suoi colleghi, ho qualche dubbio su tutto quello che ci propinano i soliti noti pOLITICANTI i cui provvedimenti vanno in favore delle solite multinazionali.

Il G8 sul clima vi svelo chi sta barando sui gas serra

di Antonio Zichichi

L’Italia presiede a Siracusa il G8 sul clima e torna al centro dell’attenzione nel mondo la responsabilità dei Governi su scelte che incidono pesantemente nell’economia mondiale.

Ricordiamo che finora nessuno è riuscito a stabilire con rigore scientifico il legame tra attività umane e aumento della temperatura media dell’atmosfera (Global Warming). Le uniche certezze sono le misure sulla concentrazione crescente della percentuale di anidride carbonica (CO2) e di altri gas a effetto serra (com’è il metano) nell’atmosfera. Il problema da risolvere sono le origini di questo incremento. Infatti nel bilancio globale ci sono «sorgenti» e «pozzi» naturali per questi gas-serra.

L’atmosfera è come un grande mantice che assorbe ed espelle anidride carbonica. Questo meccanismo è azionato da tre pompe: l’oceano globale (superficie liquida della Terra che è due volte più vasta di quella solida), la Terra solida (piante e suolo) e l’uomo. Le tre pompe hanno otenze diverse. Le prime due sono molto più potenti di tutte le attività umane. Si calcola che l’oceano globale immette nell’atmosfera circa il 48% di CO2; il respiro del suolo ne immette il 4%; quello delle piante ancora il 24%. Le attività umane, inclusa la deforestazione, contribuisce al ivello del 4%. Passiamo all’assorbimento. L’oceano globale assorbe poco più del 50%. La otosintesi ne assorbe poco meno del 50%. Nel bilancio tra immissione e assorbimento di CO2 imane un «surplus» che corrisponde a circa tre miliardi di tonnellate di CO2. Attenzione: questo urplus è nel bilancio globale. È quindi importante conoscere bene le «sorgenti» e i «pozzi» naturali di CO2 e gas-serra. Ed ecco una novità su cui imperversa il silenzio dei media. Nessuno finora aveva pensato che potessero partecipare al bilancio dei gas-serra anche le calotte polari. Trovare che sotto le calotte polari i batteri possano essere attivi a 40 gradi sotto zero è una assoluta novità.
Due scienziati americani, Vladimir Romanosky dell’Università di Alaska e Nicolai Panikov dell’Istituto Tecnologico del New Jersey hanno scoperto che sotto le calotte è come se i batteri si mettessero a dormire, continuando però a produrre anidride carbonica e metano. Questa coperta apre un fronte nuovo nella ricerca delle sorgenti naturali di gas-serra. Le zone permanentemente ghiacciate della superficie terrestre (un quinto del totale) erano considerate come efficientissimi pozzi per i gas a effetto serra. Se le scoperte di Panikov e Romanosky venissero confermate, questi pozzi diventerebbero potenti sorgenti, riducendo a livelli minimi l’effetto delle attività umane. C’è un’altra novità su cui i media tacciono. Come tutti sanno quest’ultimo inverno ha visto un forte abbassamento della temperatura ed enormi precipitazioni d’acqua e neve in diverse zone del mondo inclusa l’Europa il cui clima dipende fortemente dall’estensione settentrionale del cosiddetto Gulf-Stream che arriva fino alle fredde acque della Groenlandia.
In un articolo su Nature GeoScience un gruppo di specialisti americani e francesi dimostra che dell’ultimo inverno le correnti marine - dopo avere circolato sulla superficie atlantica scaldandosi - ritornano a inabissarsi nelle acque fredde della Groenlandia.
Questo fenomeno determina l’equilibrio climatico in quanto contribuisce alla ridistribuzione del calore tra le regioni polari ed equatoriali. Si è rimesso in moto un meccanismo di inabissamento delle acque superficiali e calde dell’Atlantico che era scomparso da molti anni senza che se ne capissero i motivi. La scomparsa dell’inabissarsi delle correnti oceaniche potrebbe spiegare il Global Warming mentre il loro ritorno a inabissarsi spiega il freddo dell’ultimo inverno.
Ecco un altro esempio di fenomeni che mettono in crisi le origini del Global Warming. La Scienza del clima è un campo di ricerche con un enorme numero di problemi ancora da capire. Portare nel cuore della Scienza queste tematiche, togliendole dalle mani di coloro che ne hanno fatto strumento indispensabile per soddisfare ambizioni che nulla hanno a che fare con la verità scientifica, sarebbe la prova di una nuova grande alleanza tra Politica e Scienza. Che ce ne sia bisogno lo testimoniano le tematiche in gioco, le cui conseguenze si valutano in miliardi di dollari e coinvolgono la responsabilità di tutti i Governi del mondo. Quando il presidente Berlusconi invitò la Comunità Europea a una seria riflessione sulle origini del Global Warming forse conosceva
già queste novità scientifiche, che hanno nei Seminari di Erice sulle Emergenze Planetarie un punto di riferimento cui fa capo la comunità scientifica internazionale impegnata su queste tematiche.
• da Il Giornale del 23 aprile 2009, pag. 1

martedì 31 marzo 2009
Scienziati e Nobel smentiscono Obama sull'effetto serra

Mr President, sul clima ha torto». In coincidenza con l’odierno inizio del viaggio europeo di Barack Obama 114 scienziati e premi Nobel di 13 nazioni firmano un manifesto per contestare, documenti alla mano, la posizione dell’Amministrazione sui cambiamenti climatici, che è alla
base delle nuove politiche energetiche.«Noi sottoscritti scienziati confermiamo che l’allarme sui cambiamenti climatici è grossolanamente esagerato» si legge nel testo redatto dal Cato Institute di Washington, pubblicato a pagamento su un’intera pagina del New York Times sotto il titolo «Con tutto il rispetto, Mr President, non è vero». Non è vero quanto ha detto Obama dopo l’elezione sul fatto che «poche sfide sono più urgenti della lotta ai cambiamenti climatici e la scienza non ha dubbi in proposito». Il centro studi Cato, di area libertaria, aveva già sfidato Obama il mese scorso pubblicando un manifesto di economisti ostili alle politiche keynesiane dell’amministrazione e ora apre un secondo fronte sul clima schierando il premio Nobel Ivar Giaever assieme a scienziati, accademici, esperti e ricercatori sui temi del clima provenienti da Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Canada, Germania, Pakistan, Sud Africa, Paraguay, Finlandia, Svezia, Norvegia, Spagna e anche Italia. Il nostro Paese infatti è rappresentato da Antonio Zichichi, presidente della Federazione mondiale degli scienziati, da Umberto Crescenti, ex presidente della Società geologica italiana e da Carlo-Forese Wezel, dell’Università di Urbino.
L’affondo che la pattuglia di scienziati del clima lancia contro Obama punta a smantellare l’approccio sull’ambiente del quale il presidente si fa portatore in Europa al fine di promuovere nuove politiche energetiche e di accelerare una solida intesa sul taglio delle emissioni nocive alla Conferenza Onu di Copenhagen che si svolgerà alla fine di dicembre. In concreto le obiezioni raccolte dal Cato Institute sono tre. Ecco di cosa si tratta.
Primo: «I cambiamenti delle temperature di superficie nel corso dell’ultimo secolo sono stati episodici, modesti e non vi è stato un netto surriscaldamento del clima negli ultimi dieci anni» come attestato dalla recente pubblicazione della Geophysical Research Letters ed anche da uno studio apparso sul Journal of Geophysical Research nel 2006. Secondo: «Dopo aver controllato l’aumento della popolazione e i valori delle proprietà» si può affermare che «non vi è stato un aumento dei danni causato da eventi dovuti al clima» come attestato da uno studio apparso nel 2005 nel Bullettin of the American Meteorological Society. Terzo: «I modelli computerizzati che prevedono un rapido cambiamento delle temperature non riescono a spiegare i recenti comportamenti climatici» come documentato nel 2007 dall’International Journal of Climatology. Da qui la conclusione: «Mr President, la sua descrizione dei fatti scientifici riguardo i cambiamenti climatici e il livello di informazione del dibattito scientifico è semplicemente non corretta». L’aver fatto riferimento ad una documentazione scientifica risalente ad alcuni anni fa è stata una scelta con la quale gli scienziati hanno voluto sottolineare come i dubbi sui cambiamenti climatici sono consolidati da tempo, smentendo quindi la tesi del premio Nobel Al Gore rotagonista, con libri e un film insignito dall’Oscar, di una campagna sull’«assenza di dubbi» sul
processo di surriscaldamento del clima le cui conclusioni sono state fatte proprie dalla Casa Bianca.
(Da La Stampa)

domenica 17 maggio 2009

Questa è una delle più belle sull'ex pm

Questa news mi era quasi sfuggita, ma è una delle più belle sul comportamento del padrone del associazione-partito IVD, ovvero l' iTALIA dei SUOI vALORI, l'ex pm "io lo distruggo".
Leggere per credere come l'immarcescibile cambia idea dal un momento all'altro.

E si spaccia pure per ecologista
di Filippo Facci

L’uomo più ipocrita della Terra ha disseminato le strade di manifesti pieni di pale: c’è il suo faccione che dice «Per un’Europa delle energie rinnovabili» e poi un’immagine con delle pale eoliche che troneggiano su uno sfondo di centrali nucleari sporche e cattive. Trattandosi di elezioni europee, significa che Di Pietro vorrebbe che le pale fossero sparpagliate in tutto il Continente fuorché a casa sua: non c’è altra spiegazione, visto che da ministro delle Infrastrutture ebbe a bloccare il più grande progetto italiano di centrali a vento offshore (162 megawatt) solo perché doveva sorgere sulla costa di Termoli, ben visibile dalle colline della sua Montenero di Bisaccia. Non solo.
Domanda: a margine di quale summit prese la decisione? Con quale competenza si confrontò ufficialmente al Dicastero, prima di decidere? Risposta: con un modesto consigliere provinciale del Molise, attualmente inquisito: suo figlio Cristiano. Ma raccontiamola da capo. Nel marzo 2007 sembrava quasi che l’Unione europea stesse rifacendo la rivoluzione industriale: approvò un piano energetico che pareva una svolta storica e che introduceva quote vincolanti per la produzione di fonti energetiche rinnovabili (eccole) le quali parevano fatte apposta per un progetto studiato dalla Effeventi, una società milanese che aveva presentato un progetto che ltretutto era finanziabile con capitale privato: 54 pale, alte tra i 60 e gli 80 metri, da far sorgere in pieno Adriatico a circa tre chilometri dalla costa tra Vasto e Termoli. Una centrale che, sfruttando i venti marini, avrebbe potuto produrre corrente per i consumi di almeno 120mila famiglie. Il tempo di realizzazione sarebbe stato anche breve, un anno e mezzo, e l’idea insomma entusiasmò prevedibilmente anche le associazioni ambientaliste: sia Legambiente che Greenpeace plaudirono all’iniziativa anche perché le pale, secondo il progetto e secondo una simulazione presentata alla stampa, sarebbero state così lontane dalla costa (5 miglia) da essere appena percettibili a occhio nudo. La commissione per la valutazione d’impatto ambientale (Via) non fece problemi, ma poi cominciarono le varie lagnanze: degli operatori turistici, dei sindaci soprattutto di Vasto e Montenero di Bisaccia, della Provincia orchestrata dal giovane ma già spregiudicato Cristiano Di Pietro, nondimeno del presidente della Regione Michele Iorio (Forza Italia) che di tale malcontento non poté che prenderne atto. Anche la Regione, morale, si oppose. E Di Pietro? Che disse il garante morale dell’arretrato Molise? Il pallino, da ministro delle Infrastrutture, era praticamente in mano sua. E si oppose pure lui. Lo ribadì, sempre nel marzo 2007, a Luca Sancillo, comandante della Capitaneria di Porto di Termoli: «Questa vicenda ci segnala l’urgenza di definire a livello governativo un piano nazionale per l’energia eolica», disse alla fine dell’incontro in perfetto stile democristiano.
Poi passò al dipietrese: «Si tratta di un progetto nato più nel sottoscala che nelle sedi opportune, e mi appare mosso più da interessi speculativi che industriali». Insomma, non fece niente. A influenzare la sua decisione anche un ridicolo summit familista che Massimo Gramellini, sulla Stampa, fotografò così: «Il ministro Antonio Di Pietro ha ricevuto la visita del consigliere provinciale di Campobasso, Cristiano Di Pietro, per discutere la richiesta di una ditta privata che vorrebbe insediare un impianto di energia eolica in Molise. Al termine del summit il consigliere Cristiano, figlio di Antonio, ha manifestato pubblicamente la sua soddisfazione per aver chiesto e ottenuto un incontro con il ministro Antonio, papà di Cristiano. E poi dicono che nelle famiglie italiane non c’è dialogo». Le associazioni ambientaliste protestarono: «Bloccare il progetto è un’assurdità», disse Legambiente, «anche perché l’esperienza straniera ci dice che le cose stanno in maniera esattamente opposta: quello molisano finirebbe per essere un ulteriore richiamo turistico». Ma le sorprese non erano finite.
Edoardo Zanchini di Legambiente, nel novembre scorso, rivelò un particolare che cambiava le carte in tavola: la Regione, nei Comuni di Montenero di Bisaccia, Guglionesi e Petacciato, aveva dato il via a un nuovo e misterioso progetto di impianto eolico da svilupparsi «in un’area sottoposta allo stesso vincolo paesaggistico dell'impianto bocciato a mare», disse Zanchini. Possibile? Sì. Il progetto esiste: 12 pale per un’altezza di 80 metri ed una potenza generata di 36 megawatt. A proporlo sarebbe la K.R.Energy, ex Kaitech. La Regione avrebbe dato il suo beneplacito, ma la situazione a questo punto si è fatta confusa: «Non è possibile usare due pesi e due misure, o i pali eolici non devono stare né in mare né sulla costa, oppure ci devono stare» ha dichiarato anche la Confcommercio molisana. Dalla Regione, e soprattutto dalla Ceppaloni di Antonio Di Pietro, Montenero di Bisaccia, per ora nessuna protesta. Cristiano Di Pietro non dice una parola. Suo padre è occupato con le pale europee.

da Il Giornale del 22 aprile 2009, pag. 1

sabato 16 maggio 2009

Altra puntata sull'immarcescibile ex pm

Quanto italiani sanno quello che scrive il giornalista Facci, ma non solo lui, sull'ex pm Di Pietro?
Pochi, ma certamente nessuno di quelli che lo votano che hanno un quoziente intellettivo normale.
Lo vedono spesso, quasi ogni giorno nei telegiornali che tuona paroloni contro il governo e, in particolare, contro il presidente del consiglio che definisce: duce, fascista, razzista, sudamericano (ovviamente nella connotazione più dispregiativa del termine), ladro ecc.

Considerato che si definisce uomo di gIUSTIZIA e lEGATILITA', oltre che di tradizione contadine, io gli chiedere conto del perchè non spende realmente tutti i miliardi di vecchie lire, milioni di euro d'adesso, per spese elettorali del suo "partito" anzichè comprarsi beni, appartamenti e fare la bella vita con controrno di menage a troi?
Che fine hanno fatto i soldi che ha preso anche per conto di Occhetto e Chiesa quando si presentarono insieme alle precedenti elezioni europee?
Occhetto e Chiesa hanno mandato l'ufficiale giudiziario alla Camera dei deputati per avre il maltonto incassato tutto dall'ex pm, cosa mai accaduta prima, ma il puro, duro ma elegante ex presidente Bertinotti della Camera ha fatto finta di nulla.

La dinastia nordcoreana di Tonino
di Filippo Facci

C’è da rivalutare Kim il Sung per la sua modestia e le acque del Gange per la loro trasparenza, dottor Di Pietro: non ci viene nessun altro paragone rispetto alla sua personalistica gestione del Partito e rispetto all’oscuro statuto interno che sino a prova contraria (e ce la mostri questa prova contraria, dottor Di Pietro) fa di lei il percettore unico di milioni di euro che erano stati previsti a sostegno di organismi democratici, lo sappia: non della sua familistica saccoccia.

Lei, dopo essersi rimangiato la consueta minaccia di querele, aveva detto che avrebbe modificato lo statuto, e a un certo punto ha detto semplicemente che ok, l’aveva fatto: si potrebbe saperne di più? Dovremmo fidarci? Vogliamo scherzare? Fidarci di uno che ha modificato i suoi comportamenti da furbastro solo quando è stato beccato col sorcio in bocca? Ci stiamo riferendo solo ai suoi intrallazzi di partito, tranquillo, non alle conclamate balle su prestiti & favori che lei raccontò al Paese e persino ai suoi colleghi del Pool. Stiamo parlando per esempio del mutuo delle sue case di Roma e Milano che lei faceva pagare al Partito sotto forma di affitto, la circostanza la svergognò persino agli occhi del suo Ugo Intini ad personam, Marco Travaglio: promise di non farlo più, e invece, perlomeno a Roma, lo fa ancora. Stiamo appunto ritornando all’unico partito delle vicine galassie di cui un solo organismo cellulare (lei) è formalmente proprietario e nel cui consiglio si può accedere solo con il suo consenso: lei è dunque l’unico al quale andranno tutti i soldi del finanziamento pubblico (il resto del Partito è finanziato coi soldi degli iscritti) e lei rimarrà presidente a vita giacché né gli iscritti né un eventuale vero congresso potranno mai sfiduciarla: se il Partito Nazionale Fascista avesse avuto uno statuto del genere, come ha osservato Alberico Giostra nel libro a lei dedicato, Benito Mussolini il 23 luglio del 1943 non si sarebbe dovuto dimettere.

Daccapo, allora: si può vedere l’atto notarile con cui ha sancito la modifica statutaria? Chi l’ha firmato? Sua moglie c’è ancora? Chi l’ha approvato? L’ha approvato qualcuno del Partito, chessò, un’assemblea, o sempre voi dioscuri dell’Associazione? Ah già, l’associazione, una cosa così trasparente che ogni volta tocca rispiegarla. Allora. L’Italia dei valori è affiancato da un associazione costituita da Di Pietro (Presidente) e da Silvana Mura (tesoriera) e da Susanna Mazzoleni (moglie di Di Pietro) nel cui consiglio si può entrare solo con il consenso del Presidente (Di Pietro) al quale andranno tutti i soldi del finanziamento pubblico, questo mentre il Partito e le singole campagne elettorali sono finanziati come detto coi soldi degli iscritti; il presidente del partito corrisponde solo al presidente a vita dell’associazione, cioè di Di Pietro, e la Tesoreria del partito appartiene alla tesoriera a vita dell’associazione, cioè a Silvana Mura, cioè a Di Pietro; né gli iscritti al Partito né un eventuale congresso democratico possono sfiduciare il Presidente, cioè Di Pietro: saluti dalla Corea del Nord.

Ecco, è cambiato qualcosa? Sì o no? Non è che avete fatto tutto voi come al solito, ciò che potrebbe non avere alcun valore giuridico? C’è un avvocato, in causa con lei, che già lo sostiene: ma noi no, noi non sospettiamo che lei abbia architettato qualche nuova gabola: noi ne siamo assolutamente certi. Vorremmo soltanto vederla. Aspettiamo la prova contraria. Sino a essa non ci sarà sicuramente nessuno, tantomeno nel suo partito, disposto a credere che lei possa voler rinunciare a dirigere l’attività politica e organizzativa, rappresentare il partito in tutte le sedi, nominare il tesoriere, approvare i rendiconti e i consuntivi, essere titolare del simbolo che lei ha copiato e scippato alla Larus di Bergamo (la casa editrice con cui fece tre libri) e ancora convocare e presiedere l’esecutivo del Partito, costituire e dirigere l’ufficio di presidenza, sovrintendere al centro elaborazione dati, modificare appunto lo statuto, approvare anche gli statuti regionali, commissariare le federazioni, ripartire i finanziamenti, assegnare gli incarichi retribuiti, piazzare il figliolo, essere persino titolare dei siti Internet nazionali e della stampa del giornale di partito: Kim il Sung, e chi sei.

Il bello è che l’Italia dei Valori non nacque così com’è adesso: da principio era aperto a più soggetti e quantomeno ai 248 personaggi che lo fondarono a Sansepolcro. Poi, all’insaputa persino del numero due del Partito, ossia quell’Elio Veltri che la conosceva da 14 anni e che infatti le sbatté la porta in faccia, l’Italia dei Valori fu trasformato da Partito a partita a tre. Di notaio in notaio, l’autocrate, cioè lei, giunse all’attuale triumvirato che controlla decine di milioni di euro (e tanti stanno per arrivare) senza nessun controllo di nessun genere da parte del Partito a cui pure sono ufficialmente destinati: a meno di intendere che il Partito sia lui, Di Pietro, cioè lei. E infatti l’unico controllo di bilancio, per ora, lo sta facendo il Giornale. Non s’è mai vista un’assemblea dei delegati (non dico un congresso) e tanti saluti a una legge che lei, Gran Tonino, fingeva sempre di schifare, e che nelle intenzioni, comunque sia, prevedeva dei rimborsi per un partito, non per un’associazione che ha per simbolo il suo codice fiscale. Quindi forza, Gran Tonino, ci dica come stanno le cose, ci dimostri che le sue astuzie da mozzaorecchi non sono servite solo a fare ciò che le ha fatto abbattere una Repubblica: usare il finanziamento pubblico dei partiti per fini che pubblici non sono per niente.

Renda tutto pubblico. Ricordi che cosa gli dicevano tutti quei politici nella mitica stanza 254, dov’era il re degli zanza: li ho presi per il partito, dicevano. Ecco, non deve dimostrarci altro.

da Il Giornale del 14 maggio 2009, pag. 1

I

2a puntata sul Barbapà: Eugenio Scalfari


Termino questa interessante pubblicazione sull'ex boss-padrone-direttore del quotidiano La Repubblica, Eugenio Scalfari, con un racconto di Giampaolo Pansa che gli ha fatto da vicedirettore per molti anni.

Vi racconto Scalfari, l'arrogante che ama il potere
di Giampaolo Pansa

Era troppo potente il Pci degli anni Settanta. Doveva emergere per forza qualcosa o qualcuno in grado di limitarne il consenso, l’autorità, il prestigio. Però non era possibile che fosse un partito nuovo.

Il campo risultava troppo affollato. L’Elefante Rosso e la Balena Bianca si mangiavano da soli più del settanta per cento dello spazio disponibile. Ma a insidiarli poteva essere un giornale. E fu così che, nel gennaio 1976, nacque “la Repubblica” di Eugenio Scalfari.

Avrei dovuto esserci anch’io nella pattuglia dei fondatori. Alla fine del maggio 1975, Scalfari mi telefonò per dirmi che voleva vedermi. E mi convocò per il 2 giugno, festa repubblicana, in un residence di Milano, in piazza Santo Stefano, a due passi dalla turbolenta Università Statale.

Sapevo bene chi era Eugenio. Avevo letto i suoi articoli sull’“Espresso”, uscito proprio nel giorno dei miei vent’anni. Per noi ragazzi di provincia, laici e pencolanti a sinistra, quel settimanale era un Vangelo. Alla pari del “Ponte” di Piero Calamandrei e del “Mondo” di Mario Pannunzio. Ma Scalfari l’avevo visto dal vivo una sola volta. E non mi era piaciuto per niente.

Era un pomeriggio del gennaio 1970. Lui guidava a Milano un corteo contro la repressione. E io stavo sul fronte opposto, ma soltanto per motivi professionali: lavoravo per “La Stampa” di Ronchey e, come si usa dire, dovevo coprire l’evento. Mi ero piazzato alle spalle del vicequestore Vittoria, un signore di mezza età, mite, cortese. Di solito toccava a lui decidere la carica della polizia. Con un sospiro, si metteva l’elmetto, indossava la fascia tricolore e ordinava i regolamentari squilli di tromba.

Accadde così anche quel pomeriggio. Però non rammento se la carica fu violenta o blanda. Ricordo bene, invece, la figura di Scalfari, a quel tempo deputato socialista. Non aveva ancora la barba e si difendeva dal freddo con un magnifico tre quarti di montone. A non piacermi fu la sua aria supponente. E le occhiate arroganti che scagliava sul povero dottor Vittoria. Come per dirgli: io sono io e tu non sei nessuno. Ma adesso che ci penso, le occhiate di Eugenio potevano essere di apprensione e anche di paura. Del resto, Scalfari non era abituato agli scontri di piazza.

Quel 2 giugno 1975 ci scrutammo per bene. Lui aveva cinquantun anni ed era un direttore famoso, io ne avevo trentanove e lavoravo da inviato per il “Corriere” di Piero Ottone. Scalfari mi mostrò le prove grafiche della futura “Repubblica”. Ebbi l’impressione di un giornale piccolo e magro, anche se molto innovativo. E non ne rimasi entusiasta. A colpirmi fu Scalfari. Ieratico, fervido, sicuro di sé, del tutto tranquillo e certissimo di riuscire nell’impresa.

Mi spiegò che “la Repubblica” non sarebbe stata un giornale omnibus, buono per tutti i lettori. Voleva rivolgersi a una classe-guida: gli imprenditori, i quadri sindacali, i funzionari, gli insegnanti, gli studenti, i politici nazionali e locali. Aggiunse che intendeva fare un quotidiano liberal. Capace di essere una voce della sinistra, ma senza riguardi per nessuno, a cominciare dagli errori e dai difetti della sinistra italiana alla quale si sarebbe rivolto.

Poi concluse annunciando che aveva già iniziato a costruire la squadra di “Repubblica”. E snocciolò i nomi di Gianni Rocca, il suo secondo, di Giorgio Bocca, Natalia Aspesi, Massimo Fabbri, Gianni Locatelli. Volevo aggregarmi alla compagnia come inviato sulle faccende italiane? Gli dissi di no. Intendevo lasciare il “Corriere” soltanto dopo la partenza di Ottone. Lo ringraziai e ci salutammo. Quando “la Repubblica” apparve, il 14 gennaio 1976, in via Solferino le risate si sprecarono. Lietta Tornabuoni sogghignò: «Sembra il “Corriere dei piccoli”!». La nostra sicumera divenne alterigia il giorno che cominciammo a misurarci con i giovanotti di Eugenio. A parte la pattuglia di giornalisti senior, erano dilettanti allo sbaraglio. E inclini alle balle spaziali. Nel giugno 1976, quando a Genova le Br uccisero il magistrato Francesco Coco e la sua scorta, “Repubblica” sparò un titolone di prima pagina che strillava: “I carabinieri lo sapevano”.

Poi il “Corriere” di Ottone finì. Il 21 ottobre 1977 Piero se ne andò appena in tempo per non incocciare l’epoca della Loggia P2. Scalfari fu così generoso da ripresentarmi un contratto da inviato. E all’inizio di novembre misi piede in piazza Indipendenza. In compagnia di Bernardo Valli, anche lui uscito da via Solferino.



Ho lavorato a “Repubblica” per quasi quattordici anni: il primo da inviato, gli altri da vicedirettore a fianco di Rocca. Non mi era mai successo di restare tanto a lungo in un quotidiano. E oggi mi sembra un tempo immenso. Impossibile da rievocare in queste pagine.

Qui mi limiterò a ricordare qualcosa su Scalfari. Il fondatore, il padre-padrone, il capo assoluto, l’anima e il corpo del giornale. “Repubblica” non sarebbe mai nata senza il suo genio professionale. E senza l’aiuto della Mondadori, allora guidata da Mario Formenton: editore coraggioso e galantuomo di quelli rari, affiancato da Giorgio Mondadori, figlio di Arnoldo.

Nell’autunno del 1977, Scalfari aveva cinquantatré anni ed era alto, magro, con una gran barba grigio bianca e il portamento fra l’altero e il solenne. Carlo Caracciolo, il suo vecchio amico e socio, avrebbe poi detto: «Eugenio porta la testa come il Santissimo in processione». Era il tocco della perfezione per il ruolo che Scalfari si era scelto: il mattatore di un quotidiano tutto diverso dagli altri. E destinato a influenzare in modo profondo la stampa italiana, obbligandola a cambiare.

Ma sulle prime il futuro di “Repubblica” non sembrava per niente fatto di rose e fiori. Quando entrai in piazza Indipendenza, il giornale non navigava in acque tranquille: vendeva poche copie e la pubblicità scarseggiava. Tuttavia Scalfari aveva un’illimitata fiducia in se stesso. Ed era convinto che, prima o poi, il successo sarebbe arrivato.

Ecco la prima regola che vidi applicare da Barbapapà, come lo chiamava la parte più giovane della redazione. La regola diceva: non dubitare mai delle proprie superiori capacità ed essere sempre certi di sfondare. Era questa sicurezza granitica a renderlo forte. E a non fargli mai perdere di vista il traguardo che si era dato: conquistare il primato fra i quotidiani nazionali.

Scalfari sapeva più di chiunque che non sarebbe stato facile arrivarci. L’ambizione non bastava, bisognava applicarsi al compito con una dedizione totale. Di chi è disposto a profondere tutte le proprie energie intellettuali e fisiche pur di non fallire, ma di vincere, e di vincere come nessuno prima ha fatto.

Anche negli anni successivi mi avrebbe sempre sorpreso la forza di Eugenio. Era una pila inesauribile di vitalità. Mi sarebbe capitato di vederlo triste, angosciato, ferito, persino umiliato, però mai stanco.

Alle dieci della sera, al termine di una giornata stressante, era inevitabile sentirsi degli stracci. Ma a Scalfari non accadeva. Ritornava in piazza Indipendenza dopo una cena di lavoro con chissà chi e si disponeva a cambiare quasi tutto. Per rimediare ai nostri errori. O semplicemente per fare meglio, sempre meglio. Era anche un modo per riaffermare di continuo il ruolo di comandante indiscusso della squadra di giornalisti tutti scelti da lui, uno per uno. Un vantaggio del quale altri direttori non disponevano, ma che andava reso concreto ogni giorno.

Nell’autunno del 1977, la banda di “Repubblica” non superava i sessanta redattori. In parte erano firme strappate a quotidiani già sul mercato. Ma in maggioranza si trattava di giovani alle primissime armi. Su di loro Eugenio aveva un potere assoluto che lui sapeva esercitare con l’accortezza di far sentire importante chiunque.

Ne era una prova la riunione del mattino, dove si decideva il programma della giornata. L’incontro non era riservato soltanto ai capiservizio e al vertice del giornale, come accadeva nelle altre testate. Anche l’ultimo dei redattori poteva parteciparvi. Con diritto di parola, di proposta e di critica.

Barbapapà ascoltava tutti. O fingeva di ascoltarli. Su un foglietto prendeva nota delle obiezioni e dei consigli, anche quando sapeva che erano inutili o da non tenere in conto. Era un esempio astuto di democrazia professionale che serviva a registrare gli umori della truppa e, al tempo stesso, ribadire la propria autorità. E ogni volta, dopo aver fatto un esame impietoso del numero appena uscito, Scalfari informava la sua gente sui progressi nella vendita del giornale.

A partire dalla primavera del 1978, quando ebbe inizio il boom di “Repubblica” grazie al lungo sequestro di Moro, tutte le mattine Scalfari leggeva alla redazione il bollettino della diffusione. Da allora mantenne questa abitudine sempre, con una scansione via via più trionfale: «Abbiamo superato “Il Messaggero”, vendiamo più della “Stampa”, ci stiamo avvicinando al “Corriere”...». Rammento un suo proclama scherzoso: «Quando avremo battuto il “Corrierone”, vi sarà riconosciuto il diritto allo stupro e al saccheggio!».

Ma il tono del comandante in capo non sempre poteva essere trionfale. Spesso risultava arduo trasformare un’idea giusta o un’intuizione felice in un articolo ben fatto, croccante, scritto con eleganza vivace ed esattezza di dati. In quel caso, Barbapapà era costretto a vestire i panni dell’insegnante deluso, alle prese con una scolaresca riottosa a imparare.

Ho sott’occhio un suo ordine di servizio del 21 dicembre 1978, consegnato a tutti i redattori: “Cari colleghi, devo dirvi con molta franchezza che la qualità media del lavoro, sia di scrittura che di controllo e messa in pagina, e anche di acquisizione di notizie, è deludente. In questo periodo ci sono stati esempi macroscopici di trascuratezza, di leggerezza professionale e addirittura di irresponsabilità. Questa situazione si protrae fin dall’inizio della vita di ’Repubblica’...”.

Spesso i rilievi erano diretti a singoli giornalisti, sempre per iscritto. Anche in quel caso la lezione era dura, ma si concludeva con un consiglio per poter “fare meglio”. Ne leggo una: “Roma, 23 febbraio 1980. Caro X, il tuo pezzo di ieri è nettamente inferiore alla tua capacità e all’importanza del fatto di cronaca che ti era stato affidato... Fin dalle prime righe il servizio deve portare il lettore al centro dell’atmosfera di quanto è accaduto. Ha bisogno di una prosa adeguata. Di una descrizione dei personaggi da far rivivere sulla pagina, con i loro sentimenti, le loro angosce, i loro dolori, la loro violenza... Fare il cronista non è un mestiere facile, richiede spessore umano, intuito, rapidità, cultura”. Ma è nel rapporto con i partiti che Scalfari si rivelò imbattibile. Nel confronto-scontro con le tante parrocchie politiche, a cominciare dalle più forti, Eugenio era mosso da una convinzione ferrea: il direttore di “Repubblica” contava molto di più di qualsiasi leader di partito. Riassunta così può apparire una presunzione senza fondamento. Invece era una rivoluzione copernicana per il giornalismo italiano.

Molti direttori si sentivano piccoli rispetto a questo o a quel big. Scalfari era certissimo dell’opposto. Il Sole era lui, Barbapapà, mentre i leader politici erano soltanto dei pianeti senza importanza che gli ruotavano intorno. Un giorno spiegò alla truppa: «Quando loro non ci saranno più, il nostro giornale sarà ancora qui, sempre più influente, sempre più letto».

Nel braccio di ferro con i partiti, Scalfari aveva un’arma segreta, un metodo di guerra imprevedibile e in grado di spiazzare chiunque: la linea politica libertina di “Repubblica”. L’aggettivo “libertino” gli piaceva molto, applicato al suo giornale e quando parlava di carta stampata. Per esempio, sosteneva che fare bene un settimanale come “L’Espresso” era possibile soltanto se il giornalista scelto per dirigerlo era capace del libertinaggio più sfrenato.

Lo disse quando uno dei nostri colleghi più bravi, Paolo Pagliaro, caposervizio della politica interna, lo informò di aver ricevuto un’offerta dal settimanale di via Po e che l’aveva accettata. Scalfari tentò invano di dissuaderlo. Gli disse: «Tu sei un uomo d’ordine, tutto d’un pezzo, molto coerente e rigido anche con te stesso. Sei il contrario del libertino. Quello che invece occorre a un giornale come “L’Espresso”».

Per direttore libertino, Eugenio intendeva un giornalista spregiudicato, fantasioso, sorprendente, capace di cambiare sempre cavallo e non impacciato da troppi lacciuoli. E anche pronto a contraddirsi. Disposto a pubblicare un servizio o un’opinione che smentiva quanto aveva stampato nel numero precedente. Determinato a ospitare firme che facevano a pugni l’una con l’altra.

“La Repubblica” di Scalfari fu per anni un giornale dedito al libertinaggio intelligente. La pagina dei commenti non era monocorde come accade oggi. Anche gli articoli sfornati dalla redazione spesso si contraddicevano. L’esempio più clamoroso fu la coesistenza di due linee opposte nel raccontare e giudicare il terrorismo brigatista: quella di Bocca e la mia.

Nella primavera del i 1980, Scalfari arrivò al punto di farci scontrare in un dibattito destinato alla pubblicazione. Il risultato fu una doppia pagina della sezione Cultura, scritta da un giovane e preoccupato Lucio Caracciolo. Anche in questa scelta l’obiettivo di Eugenio era sempre lo stesso: raccontare la complessità della situazione italiana, conquistare nuovi lettori e dimostrare ai partiti che era lui, e non loro, a condurre il gioco.

Dall’avamposto di piazza Indipendenza, il Libertino andò subito all’assalto dei lettori comunisti, strappandoli uno per uno a una tetra “Unità” e a un traballante “Paese sera”. Scalfari vinse a mani basse. Tanto da far dire a Giancarlo Pajetta: «“La Repubblica” è il secondo giornale dei comunisti che però lo leggono per primo».

I militanti del Pci vennero conquistati con la linea della fermezza nei molti giorni del sequestro Moro. Il calvario del leader democristiano fu raccontato da noi con una cura senza precedenti. E procurò al giornale un successo di vendite decisivo. La prima fotografia di Moro nel carcere delle Brigate Rosse mostrava il prigioniero che teneva in mano una copia di “Repubblica”. Uno spot orrendo, ma formidabile. Quasi una manna dal cielo, che nessuno in piazza Indipendenza si aspettava. I democristiani cominciarono a leggere “Repubblica” nello stesso periodo. Compresi quelli che erano per la trattativa su Moro. E non l’abbandonarono più. In seguito, quando Ciriaco De Mita divenne segretario della Dc e restò a Piazza del Gesù per sette anni, dal 1982 al 1989, il Libertino si prese una sbandata per l’Uomo di Nusco. Era convinto che avrebbe modernizzato l’Italia, al punto di trasformarla in una Svizzera mediterranea. Ma si ravvide presto. E soprattutto non si sentì mai inferiore al gran capo della Balena Bianca: era Scalfari a consigliarlo, e non il contrario.

Fu a corrente alternata anche il rapporto con Bettino Craxi, divenuto segretario del Psi proprio nell’anno di nascita di “Repubblica”. Ma in questo caso il libertinaggio di Scalfari fu assai contenuto. I due non si potevano soffrire, com’era fatale tra protagonisti che un tempo avevano vissuto nello stesso partito.

Erano diventati deputati nel medesimo anno, il 1968, e nella medesima circoscrizione, la Milano-Pavia. E lì avevano cominciato a non sopportarsi. Per le solite questioni legate al voto di preferenza, ma soprattutto a causa del carattere, più ancora che della posizione politica.

Bettino riteneva Eugenio un subdolo filocomunista e lo avversava con asprezza. E non poteva accettare che un direttore di giornale si sentisse superiore a chi era stato scelto dagli elettori, ossia dal popolo. Eugenio lo ripagava con gli interessi. A dividerli senza rimedio fu poi una disistima profonda.

Durante il sequestro di Moro, lo scontro divenne pesante. Craxi era per la trattativa e Scalfari per la fermezza. L’elezione di Sandro Pertini al Quirinale, sostenuta da “Repubblica” e contrastata invano da Bettino, li separò ancora di più.

I craxiani arrivarono a dire che Barbapapà era il capo del Pinf, il Partito irresponsabile dell’informazione. Eugenio li ricambiò coniando per il leader del Psi il soprannome di Ghino di Tacco, il bandito di Radicofani. Senza mettere nel conto che, per schernirlo, Craxi avrebbe cominciato a firmare in quel modo i suoi corsivi sull’“Avanti!”.

Nella primavera del 1989, Scalfari e Caracciolo vendettero a Carlo De Benedetti le loro azioni del Gruppo Espresso-Repubblica. E diventarono miliardari. L’Ingegnere gli suggerì di costituire un fondo di solidarietà per i giornalisti del quotidiano e del settimanale. Così avrebbero potuto aiutare i colleghi in difficoltà e le loro famiglie, utilizzando una quota microscopica dei tanti denari ricevuti.

Ma entrambi rifiutarono il consiglio di De Benedetti. Per tirchieria o perché non ritenevano che tra i loro compiti ci fosse anche la beneficenza. Smentendo la loro proverbiale astuzia di imprenditori, non seppero rendersi conto di quanto stava per succedergli in casa. O forse lo immaginavano, però se ne infischiarono.

Dopo la vendita, un malumore prima mai visto incrinò la redazione di “Repubblica”. E anche il carisma di Barbapapà ne fu intaccato. Lo si vide alla fine di quell’anno, quando Silvio Berlusconi scatenò la guerra di Segrate per la conquista della Mondadori e di “Repubblica”. Una parte dei giornalisti, con Bocca in testa, si schierò con il Cavaliere, suscitando l’ira stupefatta di Eugenio.

Poi emerse la mediazione di Giulio Andreotti, condotta con intelligenza da Giuseppe Ciarrapico. Il Libertino salvò il giornale, ma non il proprio mito personale. Rimase il comandante in capo di piazza Indipendenza. Però troppo carico di soldi per poter conservare l’immagine illibata che tutti i leader debbono sempre mostrare alla truppa che li segue. Cominciò qualche partenza non prevista da Eugenio. Il primo ad andarsene subito, all’inizio del 1990, fu Peppino Turani. Sembrava molto legato a Scalfari e aveva scritto con lui Razza padrona, un bestseller sul capitalismo italiano, uscito nel 1974. Era la star dell’economia di “Repubblica” e passò al “Corriere della Sera” proprio quando stava cominciando lo scontro con Berlusconi. Barbapapà si sentì pugnalato alla schiena. Ma qualche anno dopo gli perdonò lo sgarbo e lo volle di nuovo al giornale.

Io lasciai “Repubblica” nell’estate del 1991. A guerra di Segrate conclusa e dopo aver pubblicato nel 1990 dalla Sperling & Kupfer L’intrigo, un libro molto repubblicano, anzi scalfariano, sul conflitto con Berlusconi. Claudio Rinaldi mi aveva chiesto di andare con lui all’“Espresso”. Scalfari non la prese bene, come se il mio fosse un gesto di insubordinazione. O un tradimento. Quando lo seppe, mi disse a denti stretti: «La tua stanza resterà vuota. E Rocca rimarrà l’unico vicedirettore».

Nell’aprile 1996 anche Scalfari se ne andò, lasciando la direzione del giornale al più giovane Ezio Mauro. Da pochi giorni aveva compiuto settantadue anni. Rimase nel gruppo, come editorialista principe di “Repubblica” e dell’“Espresso”. Via via diventò la statua di se stesso. Con la barba di un biancore marmoreo. E lo sguardo non più rivolto alla ciurma redazionale, bensì a un orizzonte lontano che pochi riuscivano a intravedere.

Il trascorrere degli anni ha cancellato i rapporti tra noi. Per colpa mia o per colpa sua? Forse per colpa di entrambi. Quando morì Rocca, ci ritrovammo a dare l’ultimo saluto a un amico che, con Barbapapà, aveva costruito più di chiunque il successo di “Repubblica”. Nella cerimonia al cimitero del Verano, andai a stringere la mano a Eugenio. Ma lui se ne restò seduto e sembrò non riconoscermi.

Non ne rimasi stupito. Era il febbraio 2006 e avevo già cominciato a pubblicare i miei lavori revisionisti. Sapevo che a Scalfari non erano piaciuti. L’aveva fatto capire nel rispondere a una lettrice del “Venerdì”, il supplemento settimanale di “Repubblica”. Quella signora gli aveva chiesto se avrebbe letto un mio libro uscito in quei giorni. Eugenio rispose di no. E si disse certo che non potevo aver raccontato nulla di nuovo.

Scalfari aveva un rapporto curioso con il fascismo. Da giovane era stato un mussoliniano entusiasta e aveva scritto su “Roma fascista”, il giornale del Gruppo universitario della capitale. Poi era stato espulso dal Guf per aver sostenuto in un articolo che il partito era inquinato nella sua tempra morale da profittatori attenti solo ai propri interessi.

Dopo l’armistizio non aveva fatto nessuna scelta. Troppo astuto per aderire alla Repubblica sociale e poco coraggioso per andare con i partigiani. Quando aveva vent’anni riparò con i genitori in Calabria, a Vibo Valentia, in una proprietà degli Scalfari. Dove se ne rimase tranquillo sino al 1946.

Nei tanti anni trascorsi insieme a “Repubblica” non abbiamo mai discusso della guerra civile. Eravamo antifascisti entrambi. Ma di quella guerra, e delle polemiche storiografiche e politiche su una stagione di sangue, a Eugenio non importava niente. Forse le considerava faccende senza rilevanza, vecchie e noiose. Faccende da reduci. E lui non era reduce da nulla.

Quando gli capitava di occuparsi della Resistenza, Scalfari di solito si sdraiava sul luogo comune, sulla linea più banale. Ma incappando in giudizi non sempre coerenti. All’inizio degli anni Novanta, scrisse in un editoriale su “Repubblica”: «La guerra partigiana e la Resistenza non furono un fatto di una piccola minoranza combattente, ma di tutto un popolo». Niente di strano, lo aveva già detto il comunista Longo, in un libro del 1947. E lo ripetevano tutti i retori della lotta di Liberazione. Poi Giordano Bruno Guerri, sul “Giornale” del 6 giugno 1994, lo pizzicò rinfacciandogli una contraddizione. In uno dei suoi libri, L’autunno della Repubblica, pubblicato nel 1969 da Etas Kompass, aveva sostenuto l’esatto contrario: «La Resistenza fu un fatto di minoranza, limitato sia geograficamente (interessò soltanto l’Italia a nord dell’Arno) sia socialmente».

Quisquilie, cose da nulla. Rispetto alle bordate che il Pci di Berlinguer sparò contro “Repubblica”. Quando si rese conto che Scalfari era davvero un libertino. E non voleva saperne di fare i comodi delle Botteghe Oscure.
da Il Giornale del 15 maggio 2009, pag. 1

Due cose su Scalfari di Repubblica

Pubblico la prima interessante parte di due, che ci fa conoscere meglio il barbapapà del giornalismo italico: Eugenio Scalfari.

Ho sott’occhio un suo ordine di servizio del 21 dicembre 1978, consegnato a tutti i redattori: “Cari colleghi, devo dirvi con molta franchezza che la qualità media del lavoro, sia di scrittura che di controllo e messa in pagina, e anche di acquisizione di notizie, è deludente. In questo periodo ci sono stati esempi macroscopici di trascuratezza, di leggerezza professionale e addirittura di irresponsabilità. Questa situazione si protrae fin dall’inizio della vita di ’Repubblica’...”.

Spesso i rilievi erano diretti a singoli giornalisti, sempre per iscritto. Anche in quel caso la lezione era dura, ma si concludeva con un consiglio per poter “fare meglio”. Ne leggo una: “Roma, 23 febbraio 1980. Caro X, il tuo pezzo di ieri è nettamente inferiore alla tua capacità e all’importanza
del fatto di cronaca che ti era stato affidato... Fin dalle prime righe il servizio deve portare il lettore al centro dell’atmosfera di quanto è accaduto. Ha bisogno di una prosa adeguata. Di una
descrizione dei personaggi da far rivivere sulla pagina, con i loro sentimenti, le loro angosce, i loro dolori, la loro violenza... Fare il cronista non è un mestiere facile, richiede spessore umano, intuito, rapidità, cultura”. Ma è nel rapporto con i partiti che Scalfari si rivelò imbattibile. Nel confronto-scontro con le tante parrocchie politiche, a cominciare dalle più forti, Eugenio era
mosso da una convinzione ferrea: il direttore di “Repubblica” contava molto di più di qualsiasi leader di partito. Riassunta così può apparire una presunzione senza fondamento. Invece era
una rivoluzione copernicana per il giornalismo italiano.

sabato 2 maggio 2009

Ma chi è veramente l'ex pm De Magistris?

L'ex pm Di Pietro ha candidato nelle sue liste al Palamento europeo il suo ex collega già pm De Magistris. Ma chi è veramente questo ex pubblico ministero che fece cadere il governo Prodi?
Ce lo spiega questo articolo, molto interessante.
Speriamo che sia eletto così smetterà di fare il pubblico ministero e sperperare i soldi dei contribuenti.

Squilibrato numero 2

• da Il Giornale del 29 aprile 2009, pag. 1

di Filippo Facci

Luigi De Magistris è candidato alle elezioni europee ma anche alla poltrona di peggior magistrato italiano della storia recente. Sin dal 1996, appena insediato alla Procura di Catanzaro, si occupò di reati contro la pubblica amministrazione, però nessuno dei suoi indagati è stato mai condannato per reati, appunto, contro la pubblica amministrazione. Neanche uno. Mai. Luigi De Magistris ha perso tutti i processi da lui istruiti tra i pochissimi che non si sono arenati prima ancora di giungere in dibattimento: cancellati, polverizzati, distrutti da gip, organi del riesame, Corti d’Appello, di Cassazione, Tribunali, chiunque abbia avuto modo di verificare l’incredibile imperizia di questo magistrato che con le sue inchieste totalmente fallimentari, ma ben orchestrate sui giornali prima di scoppiare poi come bolle, ha distrutto vite, persone, famiglie, imprese, posti di lavoro e reputazioni. Il tutto facendo anche spendere milioni di euro per consulenze allucinanti (vedi caso Genchi) e così pure per rifondere tutti gli innocenti ingiustamente incarcerati in anni di disinvoltura scandalosamente impunita, o meglio: premiata, ora, con una candidatura che rappresenta la fuga finale da una corporazione che lo stava progressivamente espellendo.

Luigi De Magistris è stato candidato da Antonio Di Pietro nonostante persino Massimo Di Noia, avvocato storico proprio di Di Pietro, come vedremo, ebbe a invocare dei provvedimenti disciplinari contro De Magistris solo due anni fa.
A dimostrare tutto questo non è soltanto l’inchiesta con cui il Giornale ripercorrerà la storia del neo candidato dell’Italia dei Valori: è stata la stessa Magistratura nelle sedi opportune, come si dice. Basti leggere, per esempio, il parere con cui il Consiglio Giudiziario si espresse sulla nomina di De Magistris a magistrato di Corte d’Appello: doveva essere un passaggio scontato, solo un timbro per consacrare una progressione in carriera che i Consigli Giudiziari tendono quasi sempre a rilasciare in positivo: i magistrati giudicati negativamente, di norma, non superano l’uno per mille del totale.

Ma nel caso di DeMagistris, il 18 giugno 2008, il relatore Bruno Arcuri fece suonare una musica che raramente si era sentita in una sede come quella: «Prendendo possesso del mio ufficio di Procuratore generale, iniziavo la mia esperienza in Calabria con vivo interesse per il dr. De Magistris dopo aver letto di lui sulla stampa e averlo visto in televisione.
Fui subito colpito dalle notizie che andavo apprendendo presso i colleghi tutti: i procedimenti da lui istruiti, di grande impatto sociale perché istruiti contro i cosiddetti colletti bianchi,eranoquasi tutti abortiti con provvedimenti di archiviazione, consentenze di non doversi procedere e con sentenze ampiamente assolutorie.

Voci che mi stupirono perché in contrasto con la rappresentazione che ne davano i media». Seguiva un’analisi che denotava «una serie numerosissima di insuccessi », la «anomalia dei provvedimenti adottati »,«procedimentiinfausti », «omessa indicazione dei reati e delle fonti di prova», questo mentre De Magistris, ogni volta, «perseverava nell’adozione di provvedimenti immotivati malgrado i continui insuccessi».

Poi l’affondo del Procuratore generale: «Di fronte a una tale patologia, forse unica nel panorama delle iniziative di un pm, a meno di configurare una magistratura disattenta se non collusa con centri di potere criminale (come ha configurato De Magistris con esternazioni mediatiche) non si sfugge a un’alternativa secca: o le persone indagate sono tutte esenti da responsabilità penali, o i giudici di Catanzaro sono tutti non professionalmente idonei se non corrotti». «Il dato certo è che il dr. DeMagistris è del tutto inadeguato, sul piano professionale e sul piano dell’equilibrio e sul piano dei diritti delle persone solo sospettate di reato, a svolgere quantomeno le funzioni di pm».
E questa, mai pubblicata come tutto il seguito, è solo la relazione introduttiva.
Il parere finale, reperibile nel fascicolo personale di De Magistris, è a tal punto esplicito da meritare un’altra citazione testuale: «Le tesi accusatorie sono cadute spesso per errori evitabili edevidenziati dall’organo giudicante », «Sono emersi rilievi negativi per l’anomalia di molti provvedimenti adottati.

I procedimenti di rilevante impatto sociale hanno trovato clamorose smentite», «Il rapporto statistico indagini/giudizio lascia emergere un’anomalia, poiché numerosi procedimenti non hanno condotto a nessuna fondatezza. Non solo: nei provvedimenti si configurano violazioni manifeste di legge (addirittura diritti costituzionali), ovvero si radicano prassi senza alcun fondamento normativo, come in materia di intercettazioni». La conclusione del Consiglio fu clamorosa:
«Giudizio finale negativo. Le voci capacità e preparazione presentano profili di evidente deficit», «gravi vizio lacune; tecniche di indagine discutibili; procedimenti fondati su ipotesi accusatorie che non hanno trovato conferma, attività carente dal punto di vista dell’approfondimento e della preparazione».
Il Consiglio giudiziario, oltretutto, aveva preso in esame solo il periodo 2002-2008 e aveva quindi tralasciato i devastanti buchi nell’acqua fatti da De Magistris a partire dal 1996, quando gli addetti ai lavori, a Catanzaro, cominciarono a soprannominarlo «Giginedduflop».

Il magistrato il 12 luglio rispose alla bocciatura nel solito modo: denunciando.

Preparando, cioè, carte bollate contro chi si era permesso di criticarlo o contraddirlo. «Ho tempestivamente informato la Procura di Salerno dei numerosi profili di illiceità anche penali contenuti negli atti sopra citati».
Cioè: denunciò il Consiglio giudiziario, il cui parere, pure, sarà condiviso anche dal Csm.
Poi negò la pura evidenza: «Non si tiene conto dei provvedimenti che hanno confermato le ipotesi dell’accusa». Ma di questi provvedimenti non ne citò neanche uno. In compenso scrisse questo: «La mia condotta è stata irreprensibile e le indagini svolte con correttezza e professionalità»,
«chi mi conosce sa quanto sia rispettoso di tutte le persone. Del resto, una persona non diviene per caso un punto di riferimento per tanti».
Tanti elettori, se possibile. Denunciare i colleghi che avevano respinto i suoi provvedimenti, per De Magistris, era una regola sistematica già da anni: ha denunciato gip, giudici del Riesame, magistrati d’Appello e di Cassazione.
Il tutto per decisioni sgradite, ma contro le quali, spesso, non ha mai neppure proposto impugnazione. Invece di fare ricorso, cioè, denunciava direttamente i giudici.
De Magistris ha denunciato un avvocato generale dello Stato che aveva revocato un suo procedimento, revoca poi confermata dalla Cassazione.
Ha denunciato un ispettore che aveva rilevato gravi irregolarità nella gestione della sua inchiesta Toghe lucane.
Ha denunciato un pubblico ministero di Matera che lo aveva messo sotto indagine.
Ha denunciato il presidente del Tribunale del Riesame di Catanzaro che aveva annullato diverse sue richieste d’arresto: annullamenti poi confermati dalla Cassazione.
De Magistris ha inquisito la madre di una sua collega di tribunale, Mariateresa Carè, prima che ovviamente fosse prosciolta; poi ha indagato anche il marito della collega prima che fosse assolto pure lui.
Ha indagato il marito del giudice Abigaille Mellace senza neppure iscriverlo nel registro degli indagati, e chiedendone pure l’arresto: richiesta respinta dal gip, dal Tribunale della Libertà e dalla Corte di Cassazione; la casa della collega fututtavia perquisita.
De Magistris, ai magistrati di Salerno (dove la cognata del giornalista Santoro, quello di AnnoZero, assolverà De Magistris), racconterà di quest’ultima sua indagine omettendo che il marito della collega era stato completamente assolto. I magistrati di Salerno, sul punto, non gli fecero domande.
Forse già sapevano, e sennò lo ripetiamo, che nelle indagini sulla pubblica amministrazione fatte da Luigi De Magistris a Catanzaro nessuno è mai stato condannato. Nessuno. Mai.

Quanto guadagna un deputato europeo?

Fra non molto ci sarà un'altra tornata elettorale per eleggere la quota italiana dei parlamentari che ci rappresentaranno al Parlamento europeo.
Ma quanto guadagna un nostro parlamentare?
La risposta me l'ha data questo articolo. Basta leggerlo per rendersi conto delle differenze e del perchè molti vogliono essere eletti ( mi ricordo l'ex pm Di Pietro in primis), anche se l'essere parlamentari EU non serve assolutamente a nulla in quanto non legiferano.

Ai deputati europei 30mila euro al mese

• da Libero del 29 aprile 2009, pag. 1

di Mauro Suttora

In Francia il presidente Nicolas Sarkozy ha abolito la settimana lavorativa di 35 ore. Il Parlamento europeo, invece, quest`anno ha introdotto una novità mondiale: l'anno lavorativo di 33 giorni. Ai 785 eurodeputati, pagati 30mila euro mensili, basta volare a Bruxelles o a Strasburgo una volta al mese, starci due-tre giorni, ed è fatta. Certo, ci sono anche le mezze giornate. Lunedì 4 maggio, per esempio, la seduta comincia alle 17 e va avanti fino a mezzanotte. Ma in realtà è una giornata libera: basta che l`eurodeputato prenda un aereo dal suo Paese verso le nove di sera, atterri a Strasburgo alle undici e vada subito a firmare il registro presenze. Così non perde la diaria di 300 euro al giorno. Idem per le mezze giornate al mattino: non è tanto importante l`orario di chiusura, le 13, quanto quello di inizio seduta: le nove. Anche lì, una capatina in sala, firmetta, e poi via verso l`aeroporto. Il 2009 è un anno particolare, è vero: il 7 giugno si vota, quindi saltala sessione di quel mese. Risultato: ferie extralunghe, dall' 8 maggio al 14 settembre. Ai nuovi eletti basterà andare tre giorni a Bruxelles a metà luglio per acclimatarsi. L`eurodeputato radicale Marco Cappato ha chiesto che il Parlamento renda noti i dati di presenza dei suoi membri, in vista delle elezioni: unica occasione in cui possiamo giudicare i nostri rappresentanti. Niente da fare, il presidente ha opposto questioni di privacy. Allora i radicali hanno fatto da soli, e hanno compilato la classifica dei più assidui e degli assenteisti (pubblichiamo gli italiani migliori e peggiori). Attenzione, però: hanno calcolato non solo le riunioni plenarie, dove come abbiamo visto il giochetto è facile, ma anche altri indici di «produttività»: la partecipazione alle commissioni, il numero di rapporti scritti, di interrogazioni, di interventi in aula. I risultati sono imbarazzanti. «Il problema degli eletti italiani è che non sanno le lingue», ci dice una dirigente dell' Europarlamento, ai piani alti della Torre di Strasburgo. Anonima, altrimenti addio carriera. La maggioranza assoluta dei nostri eurodeputati non parla bene l`inglese, o almeno il francese. «E questo è grave non tanto per le riunioni d'aula, dove è assicurata la traduzione simultanea, quanto per tutti i contatti di corridoio con i colleghi delle altre nazioni, che rappresentano il vero lavoro utile da svolgere a Bruxelles». Infatti, da un punto di vista concreto l`Europarlamento serve a poco. È un organo consultivo, non decide quasi niente da solo. Non nomina governi, non toglie la fiducia, tutte le leggi (direttive) devono essere «codecise» assieme ai burocrati della Commissione. Alla fine chi comanda veramente non sono né il Parlamento né la Commissione, ma il Consiglio,. composto dai ministri dei 27 stati membri. «E neanche loro hanno l'ultima parola, perché poi ciascuno stato è libero di mettere il veto, odi non applicare una norma». Insomma, quello che voteremo fra un mese è un enorme, simpatico e costosissimo ente inutile che serve soprattutto per far socializzare centinaia di giovani portaborse multietnici (dalla Lettonia a Malta, dall'Irlanda a Cipro): sono loro a effettuare il vero lavoro, per l`eurodeputato di cui sono «assistenti». Il quale è libero di decidere quanto pagarli. Dispone di 17.500 euro al mese: può darli tutti a uno solo (magari parente o amante), oppure assumerne 17 a mille euro ciascuno. Può tenerli al Parlamento oppure nel proprio collegio elettorale. Nella Babele di Strasburgo si parlano 22 lingue. Quindi, in teoria, il numero di interpreti è di 22 al quadrato, perché ciascuna lingua dovrebbe essere tradotta in ogni altra. Impresa impossibile. assorbirebbe tutto il bilancio dell'Unione. «Ci sono quindi le lingue-ponte», spiegala dirigente, «per esempio un interprete dall`estone all'inglese, e subito dopo un altro dall`inglese all`italiano». Il risultato è comico. Se qualcuno fa una battuta, un terzo della sala ride subito, un terzo dopo dieci secondi, e gli altri dopo venti. Sempre che capiscano qualcosa, perché si calcola che ad ogni traduzione si perda in media il 30 per cento del significato. «Gli irlandesi hanno preteso che il gaelico diventasse lingua ufficiale, anche se neppure loro lo parlano. E così i maltesi». Ora si aspettano il croato, il serbo, l'albanese, il norvegese, l'islandese, l'ucraino e il turco. Si spera invano che i moldavi accettino il rumeno. L`altro grande spreco dell`Europarlamento sono le tre sedi: Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo. Grandi traslochi di migliaia di persone e casse ogni mese. Costano 120 milioni di euro all`anno in più, calcolano i radicali. Di più, secondo i verdi. 200 milioni. Dieci anni fa sia il Belgio sia la Francia, per paura di perderlo, hanno costruito un nuovo palazzo. Tutto è doppio. Fino al 1999 Strasburgo usava le sale del Consiglio d'Europa: un altro ente diventato inutile dieci anni prima, col crollo del Muro di Berlino e l'entrata dei Paesi dell'Est nell'Unione. Ora i due palazzi troneggiano uno accanto all'altro, desolatamente vuoti per quaranta settimane all'anno. Questa è la vita dell`eurodeputato. Pagatissima, undici mesi di ferie annui. Ma frustrante.