sabato 30 gennaio 2010

Alcune strane amnesie dell'ex pm Di Pietro

Girovagando per il mare magnum internettiano ho trovato questo blog: lapulcedivoltaire.blogosfere.it
Vi potete immaginare quanto mi sia divertito, ma anche incuriosito, a leggere alcune storie italiche dimenticate sul ex p.m. Di Pietro, come l'ultima di questi giorni che lui stesso ha diffuso sui media. Ha dichiarato che c'è un dossier su di lui, ovviamente falso, che sta girando in tutte le redazioni giornalistiche per screditarlo, avvalendosi di vecchie foto che lo ritraggono insieme al  colonnello dei carabinieri Mori ed il questore della polizia di Stato Contrada. Insieme a loro nella foto ci sarebbero anche alcuni funzionari dei servizi segreti» spiega Di Pietro che, dal suo blog, aggiunge che «naturalmente un acquirente si è subito fatto avanti: il solito quotidiano che, pur di buttare fango sul sottoscritto, acquista qualunque cosa, anche a prezzi esorbitanti, costi che poi si sommeranno a quelli che dovrà pagare per la querela che farò, e che si aggiungerà alla denuncia che ho già provveduto a depositare alla magistratura, perchè questa volta sono venuto a conoscenza per tempo della trappola».



Clamoroso autogol dell'ex PM fatto eleggere deputato nel collegio blindato del Mugello. Uomo forse elevato agli altari della magistratura grazie a una scheggia impazzita (davvero, nel caso) dei servizi segreti "dalemiani".
Il romanzo celebrativo, un saggio scritto da un giornalista-scriba, secondo la definizione di Filippo Facci, è un autogol che dimostra che Tonino Di Pietro non è un Cincinnato né un Cicerone ma, al più un Viceré nello stile del romanzo di De Roberto splendidamente portato sullo schermo da Roberto Faenza.

Filippo Facci per "Il Giornale"

Nulla è più inedito dell'edito, e nulla è più falso di un falso ripetuto. È la morale che si trae dai primi stralci de «Il guastafeste», libro-intervista che Antonio Di Pietro ha realizzato con Gianni Barbacetto, un giornalista transigente come uno scriba col suo faraone. In questo libro ogni cosa appare già detta, già scritta e già sbugiardata: nei fatti, negli atti e nondimeno in «Antonio Di Pietro, Intervista su Tangentopoli» che è un altro libro realizzato dall'ex magistrato nel 2000 con Giovanni Valentini.Quindi nessuna novità: semmai, come direbbe lui, reiterazione del reato e ulteriore inquinamento delle prove. Con l'aggravante che per confutare un libro di Di Pietro non basterebbe neppure un altro libro, tante sono le omissioni e le semplificazioni. Ma divertiamoci un pochino lo stesso.

BERLUSCONI È COME IL FÜHRER
Prima però dobbiamo liquidare le parti di puro delirio: «Per Berlusconi i magistrati rappresentano ciò che gli ebrei rappresentavano per Hitler: razza infame da eliminare, anzi dementi da mandare nei manicomi. Non lo dico io: l'ha affermato lui stesso. Non credo che bisognerà aspettare molto. La soluzione finale è vicina». È vicino anche il sanatorio, se Di Pietro volesse sottoporsi a un comune controllo medico: neppure l'ignoranza può più assolverlo: parliamo dell'uomo che aveva appena paragonato Berlusconi a Videla, un dittatore assassino che fece fuori due generazioni di argentini buttandole dagli aerei. «Neanche sotto il regime fascista si era tentato di infinocchiare l'opinione pubblica con i soldati nelle città. Neanche Mussolini, con le sue otto milioni di baionette, aveva osato tanto». Aspettando approfondimenti, Di Pietro potrebbe cominciare con 20 gocce di Lexotan la mattina presto.

MA QUALE MERCEDES
«Dopo averla tenuta in prova per qualche giorno, mi resi conto che consumava troppo. Perciò non la comprai». Fine della spiegazione: peccato che a contraddirlo ci sia la realtà confortata da tre sentenze da lui inappellate. Leggiamo: si fa riferimento ai favori che un imprenditore inquisito per bancarotta, Giancarlo Gorrini, fece al magistrato, e si legge di «sistematico ricorso di Di Pietro ai suoi favori», dunque «Nel 1990 Gorrini aveva poi ceduto a Di Pietro (...) un'auto Mercedes 300 CE, provento di furto già indennizzato dalla compagnia assicuratrice Maa, per un importo di circa 20-25 milioni a fronte di un valore dell'auto di circa 60 milioni».

L'auto era stata rivenduta dopo 2/3 mesi da Di Pietro, il quale aveva trattenuto la somma percepita per la vendita. «I fatti si erano realmente svolti ed alcuni rivestivano caratteri di dubbia correttezza, se visti secondo la prospettiva della condotta che si richiede a un magistrato». La stessa sentenza spiega che l'auto fu rivenduta all'avvocato Giuseppe Lucibello per 50 milioni; i soldi furono restituiti con assegni circolari emessi nel maggio 1994 ma incassati in novembre, poco prima delle dimissioni. Di Pietro si stava ripulendo.

IL PRESTITO, I PRESTITI
Di Pietro, nel libro, ammette di aver ricevuto un prestito da cento milioni ma precisa di non averli restituiti «con banconote avvolte in carta di giornale, li ho restituiti con assegni». Anzitutto: di quale prestito parla? Dei cento milioni senza interessi ottenuti dall'inquisito Gorrini? O degli altri cento senza interessi ottenuti dall'imprenditore inquisito Antonio D'Adamo? Senza contare le altre periodiche buste di contanti, le case, i vestiti, i lavori per il figlio e per la moglie, la Lancia Dedra per la moglie, i telefonini, una libreria, persino uno stock di calzettoni al ginocchio.
Anche questo è tutto a sentenza, e difficilmente il Csm l'avrebbe perdonato... segue
Fonte

domenica 10 gennaio 2010

Il solito copioni di pochi urlanti

Come sempre, quando c'è di mezzo il comico urlante alla luna, i soliti "numerosi" contestatori appartenenti ai gruppetti o partitelli dello 0,x per cento, tutti rigorosamente democratici e ideologicamente a sinistra, sono capitanati da colui che ormai è il loro ideologo e sostenitore più acceso, l'ex poliziotto e già p.m. Di Pietro, che non si fa mancare occasione per essere presente e vomitare accuse a destra e a manca, ergendosi a paladino di valori che chiede sia rispettati da tutti gli altri ma che per se, sconosce.
Ogni occasione per loro è più che buona, anche quando di tratta di manifestare contro un defunto! 
Ecco il resoconto dell'ANSA di quanto accaduto a Milano ieri, 9 gennaio.



A dare manforte al centinaio di cittadini che questo pomeriggio, a dispetto della pioggia, hanno manifestato a Milano contro la proposta del sindaco Letizia Moratti di intitolare una via a Bettino Craxi sono arrivati anche il leader dell'Idv Antonio Di Pietro e il comico Beppe Grillo. 

In una piazza Cordusio tappezzata di ombrelli lo striscione a caratteri cubitali 'No una via a Craxi' ha fatto da coreografia ai numerosi cittadini e esponenti politici di Verdi, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani (ma non del Pd) che si sono alternati su un piccolo palco per spiegare perché sia inopportuno che Milano tributi all'ex leader del Psi l'onore di una strada.

"Riteniamo che si stia facendo una violenza alla storia - ha riassunto per tutti Di Pietro - nel far credere che debba essere riabilitata una persona senza informare i cittadini che questa, sul piano politico, ha indebitato il Paese, su quello giudiziario ha fatto il latitante, e che ha usato le istituzioni per fregare i soldi ai cittadini". 



A rincarare la dose ci ha pensato il comico Beppe Grillo, impegnato a Milano anche per lanciare la campagna elettorale in Lombardia del suo Movimento cinque stelle. "Sono d'accordo a una vietta a Craxi - ha affermato sarcastico Grillo - purché corso Buenos Aires diventi corso Dell'Utri. E perché no un largo Mangano?". Di Pietro e Grillo si sono ritrovati a Milano a poche centinaia di metri da quella piazza Duomo dove il 13 dicembre scorso il presidente del consiglio Silvio Berlusconi è stato ferito e hanno sfruttato l'occasione per inscenare, all'uso delle telecamere, un siparietto sull'aggressione al premier. Grillo ha avvicinato Di Pietro e gli ha lanciato al volto un foglio di carta appallottolato. "Ecco - ha scherzato il comico, prima di abbracciare il leader dell'Idv - vedi che ti ho tirato anch'io qualcosa...".
 

All'happening contro una via a Craxi, organizzato a Milano dall'associazione Qui Milano Libera di Piero Ricca, il blogger che diede del buffone a Berlusconi, hanno preso parte anche il regista Moni Ovadia, l'attore Giulio Cavalli, il giornalista Gianni Barbacetto. "Intitolare una via a Craxi non è come portare una corona di fiori al cimitero - ha osservato Basilio Rizzo, consigliere a Milano per la Lista Fo - ma significa riabilitare un modo di fare politica che i milanesi non accetteranno". Contro l'iniziativa milanese per dire no a una via a Craxi si é subito schierato, da Hammamet, il figlio Bobo. "Di Pietro e Grillo sono un po' patetici - ha detto in una nota il leader dei Socialisti Uniti - fanno una manifestazione contro un uomo politico che non c'é più, un caso unico al mondo: c'é di che riflettere". Il portavoce del Pdl Daniele Capezzone ha invece preferito sottolineare la scarsa partecipazione alla manifestazione, giudicandola un "flop". "E' l'ennesima conferma - ha osservato - della differente statura tra un gigante politico come Craxi e due gnomi come Grillo e Di Pietro".

giovedì 7 gennaio 2010

Dall'oro di Dongo ad oggi

Quando alla fine della II guerra mondiale le squadre dei combattenti comunisti catturarono e poi l'assassinarono, non restituirono agli italiani il "tesoro" che Mussolini stava portando con se, oltre agli innumerevoli carteggi riservati.
Mussolini in fuga
In questi primi giorni del nuovo anno, un grande giornalista di sinistra, Pansa, rievocando il tempo di "Manui pulite", ribadisce ancora una volta che i magistrati di quell'epoca si fermarono davanti la porta del PCI, poi PDS, Ulivo, DS ecc., lasciando l'amaro in bocca a moltissimi italiani, oltre ad un'inchiesta/rivoluzione monca, che se condotta a termine avrebbe scritto diversamente gli ultimi due-tre lustri di storia patria.

Possibile mai che uno dei pochi arrestati dell'epoca "Mani pulite" che abbia dimostrato d'avere i classici attributi sia stato il Signor G, il duro e puro comunista Primo Greganti che Pansa ci ricorda nel suo articolo?

Bettino dannato per sempre?
di Giampaolo Pansa


Craxi dannato. Ma allora il più pulito aveva la rogna
 Nelle prime settimane del 2010 si parlerà a lungo di Bettino Craxi, per il decennale della scomparsa. Si è già cominciato a farlo e in due modi opposti. Il primo considera il leader del Psi soltanto un ladro e un latitante. Il secondo sostiene che il giudizio su di lui deve essere più ampio, non limitato alla sola vicenda di Tangentopoli. Anche perché, insieme al Psi, altri partiti vissero sul sistema delle mazzette o del finanziamento illecito. A cominciare dall’avversario più tenace di Craxi: il Pci, poi diventato Pds.
È innegabile che lo tsunami di Mani Pulite iniziò in casa socialista, il 17 febbraio 1992. Il primo politico arrestato fu Mario Chiesa, 47 anni, ingegnere, presidente del Pio Albergo Trivulzio, l’ospizio per vecchi a Milano. Al momento di essere pizzicato in ufficio, Chiesa teneva nel cassetto una mazzetta appena incassata: 7 milioni di lire in contanti. Una seconda tangente più robusta, 37 milioni, riuscì a gettarla nel water presidenziale.

Per il grande pubblico, Chiesa era uno sconosciuto. Pochi sapevano che era uno dei padroni del Psi ambrosiano. Controllava intere sezioni del Garofano e possedeva un pacchettone di tessere. Craxi commise l’errore di definirlo soltanto “un mariuolo”. Poi fece subito un altro passo falso. Parlando a Milano il 27 febbraio, disse: «Di fronte a episodi di corruzione come questo, mi viene un gran sconforto. Il fatto è grave, ma non può deturpare l’immagine socialista. A volte i partiti si trovano in difficoltà proprio come certe famiglie quando scoprono che c’è un ragazzo poco di buono».

Ma il pool dei magistrati non si fermò. A Milano cadde il Muro di Bettino, come lo chiamai sull’Espresso. La Sacra Famiglia Craxiana andò a gambe all’aria. E l’inchiesta si allargò ad altri partiti. Alla metà del giugno 1992 i politici indagati o arrestati nell’inchiesta milanese erano già trentanove, così suddivisi: 16 socialisti, 14 democristiani, 7 del Pds, 2 repubblicani. Di questi trentanove, i parlamentari in qualche modo coinvolti risultavano nove: 4 democristiani, 3 socialisti, uno del Pds e uno del Pri.
Il team giudiziario di Mani Pulite seguitò a marciare come un rullo compressore. Alla fine dell’agosto 1992, i politici arrestati o indagati erano diventati sessantuno. Ripartiti così: 26 democristiani, 23 socialisti, 8 del Pds, 2 del Pri e 2 del Psdi. Anche il numero dei parlamentari inguaiati crebbe a quattordici: 7 della Dc, 5 socialisti, uno del Pds e uno del Pri.

Già questi numeri ci ricordano quanto stava emergendo nella sola Milano, in un anno terribile segnato dagli omicidi di Lima, di Falcone e di Borsellino. Tangentopoli era il luogo della corruzione interpartitica. Alla fine, gli unici partiti estranei al sistema del finanziamento illecito risultarono il Msi e i radicali. Non certo il Partitone Rosso, ovvero il Pci-Pds, allora guidato da Achille Occhetto.
In seguito, per anni e anni, i dirigenti di quel partito, e i giornali che li sostenevano, si affannarono a convincerci che le Botteghe Oscure e le loro strutture periferiche erano più bianche del bianco. Ma non era vero. Il Pci aveva sempre vissuto anche di fondi neri. Non alludo soltanto ai continui finanziamenti dall’Unione Sovietica. Parlo di vere e proprie mazzette, spesso molto consistenti.
È un fatto storico che Enrico Mattei, il presidente dell’Eni, finanziasse anche il Pci. Lo stesso fece il suo successore, Eugenio Cefis. Per concludere con l’Urss una trattativa sulla fornitura all’Eni di gas siberiano, nel dicembre 1969 Cefis si accordò su una tangente per il Pci di 12 milioni di dollari. Dopo un versamento al Bottegone di un milione e 200 mila dollari, il resto fu pagato dall’Eni in rate annuali. Su un conto cifrato in Svizzera.

Come vedremo, la faccenda dei conti elvetici del Bottegone emergerà di nuovo con Mani Pulite. Ma prima vennero a galla le tangenti incassate dal Pds per la Metropolitana milanese, mazzette da centinaia di milioni. Poi quelle pagate dalla Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi per ottenere un appalto che riguardava l’Enel. Un miliardo e 250 milioni alla Dc e idem per il Psi. A quel punto anche il Pds pretese lo stesso bottino. E ricevette una prima rata di 621 milioni. Versata in Svizzera su un conto cifrato, con un nome in codice dal sapore domestico: “Gabbietta”.
Antonio Di Pietro chiese al capo della Calcestruzzi chi gli avesse indicato la banca e il conto cifrato. Lui rispose: Primo Greganti, già segretario amministrativo della federazione torinese del Pci e poi funzionario dell’amministrazione centrale del partito. Greganti, “il signor G”, venne arrestato, ma negò sempre: il conto Gabbietta era suo, non del Pds.

In seguito si scoprirono altri conti elvetici cifrati, maneggiati da dirigenti del Pci-Pds: il conto “Idea” e il conto “Sorgente”. Ma il Partitone Rosso fece orecchie da mercante. Nel febbraio 1993 Occhettò gridò: «Smentisco nel modo più categorico. Non abbiamo mai avuto conti in Svizzera!». Lo stesso sostenne Max D’Alema il 28 febbraio: «Niente conti in Svizzera. E non ci risulta in nessun modo che noi abbiamo chiesto o fatto chiedere tangenti ad alcuno o che ne abbiamo intascate». Poi D’Alema, per una volta fantasioso, parlò di provocazione e tirò in ballo i sempiterni servizi segreti nostrani.

Potrei continuare, ma il Bestiario ha uno spazio obbligato. Spero che le pochissime cose qui raccontate ci rammentino un vecchio detto: il più pulito ha la rogna. E ci aiutino a dare di Bettino Craxi un giudizio sereno. Non possiamo ritenerlo dannato per sempre.
lunedì, 4 gennaio 2010

Intervista a Forattini, il genio delle vignette



Il quotidiano il Riformista ha intervistato, negli ultimi giorni dell'anno scorso, Giorgio Forattini, il genio della satira vignettistica.

Riporto l'intervista per intero perchè chiarisce molte cose sugli editori e giornalisti italiani e,  specialmente,  sui politici di casa nostra.





Giorgio, il precario di successo
di Andrea Di Consoli

Dice di essere senza contratto, «mi hanno fatto fuori da tutti i giornali», intanto “Satiromantico” è il suo 50esimo libro. L'esordio da tipografo a “Paese Sera”, ora disegna per Feltri, «sarà feroce ma vende». Re incontrastato delle querele, D'Alema gli chiese 3 miliardi, «però mi ha condannato solo Caselli». Principe a “Panorama”, cofondatore di “Repubblica” con Scalfari, «un grande, tagliava Bocca e Pansa». Mauro? «Non mi difese e me ne andai». Di Pietro? «Voleva le vignette in anteprima».
In occasione dell’uscita del suo nuovo, feroce e bellissimo libro Satiromantico (Mondadori), incontro Giorgio Forattini nella sua bella casa romana nel quartiere Prati (vive a rotazione quindici giorni a Parigi, dieci a Milano e cinque a Roma). È una casa-museo piena di oli, acquerelli, incisioni di volti anonimi antecedenti all’invenzione della fotografia. Parliamo dei suoi grandi amori: Bosch, Bruegel, Tolouse-Lautrec, Seurat. «Sai una cosa?» mi confessa, «l’arte moderna non mi piace. Ma è possibile che un artista non sappia fare un disegno? Ti sembra normale?».
Ci sediamo nel suo studio caldo di colori. Sul tavolo c’è una vignetta – l’ennesima – contro Di Pietro gerarca.

E’ molto deluso, Forattini, perché dopo quasi quarant’anni Panorama è stata costretta, per via della crisi, a sospendere il suo contratto. «Sono un disoccupato. Ah, non ci credi? Guarda che dico sul serio. Sì, faccio qualche vignetta per Il Giornale, ma sono senza contratto. Sono un precario come te, anzi, a te almeno ti telefonano, a me invece non mi chiamano neanche». Non c’è verso di fargli capire che la sua precarietà è una precarietà di lusso, che lui è uno che con i suoi libri (l’ultimo appena pubblicato, Satiromantico, è il suo cinquantesimo libro) ha venduto milioni di copie (milioni veri, non finti). Niente. Forattini, il re senza rivali dei vignettisti italiani, vorrebbe quasi quasi farmi credere che sto meglio di lui. «Mi hanno fatto fuori da tutti i giornali. Ho anche accettato di fare le vignette per il Quotidiano nazionale. Però una volta dicevano che erano troppo dure, un’altra volta non le pubblicavano, e certe volte le mettevano piccole piccole, tre centimetri per sei. No amico mio! Il vecchio Forattini vuole spazio, le mie vignette le devi mettere in alto, a tre colonne! Ma scherziamo?».

Forattini è un raffinato viscerale, un burlone che, nel mentre sbraita contro il potere vile, spalanca gli occhi e sembra sperduto, perso. Solo chi ha la fortuna di trascorrere una mezza giornata con lui scopre che il satirico che ha fatto arrabbiare i potenti d’Italia ha un pianto in gola che non riesce a dissimulare fino in fondo. «Mi hanno querelato sempre. Ma solo a sinistra! Solo i comunisti mi hanno querelato!». Gli faccio notare che la sua attività satirica è iniziata nel 1970 a Paese sera, giornale comunista; e, provocatoriamente, gli chiedo se quarant’anni fa era comunista. «Io comunista? Io non sono mai stato comunista in vita mia! Sono sempre stato un liberale. E a Paese sera lo sapevano. Ah, quel giornale era pieno di sessantottini. Che sciagura, il 68! E poi tieni conto che a Paese sera io lavoravo in tipografia, e che la prima vignetta la feci per Panorama. Poi, quando i compagni scoprirono che il Forattini di Panorama ero io, solo a quel punto mi chiesero di fare le vignette».

È un fiume in piena, Forattini: «I comunisti di Paese sera non li sopportavo perché nonostante guadagnassi due lire mi chiedevano sempre di sganciare soldi per il Nicaragua o per Sendero luminoso. Ma ti rendi conto?». A quel punto gli faccio notare che è tra i fondatori di Repubblica, e che il giornale di Scalfari non è mai stato un giornale di destra. «Guarda, ti dico una cosa. Nel 1975 accettai di lavorare con Eugenio Scalfari alla fondazione di Repubblica perché Scalfari è uno che i giornali li sa fare per davvero. Pensa che è stato lui a inventare gli articoli brevi. Sai che diceva a Pansa e a Bocca? Gli diceva che se sforavano, i tipografi avevano il diritto di tagliare i loro articoli. Mo’ invece è impazzito, scrive articoloni su Dio, ma è stato un grande direttore. E comunque Scalfari mi ha sempre difeso. Quando facevo qualche vignetta particolarmente dura contro De Mita o contro Craxi, Scalfari mi chiamava in tipografia con l’interfono e mi diceva: “Giorgio, ma perché devi attaccare gli unici amici che ho?” E io gli rispondevo: “A diretto', ma che gente frequenti?”.

Però la verità è che quando i politici lo chiamavano per protestare contro le mie vignette, lui diceva che lo spazio di Forattini era un porto franco. Scalfari è stato un grande direttore, mica come lo gnomo di Cuneo».
Lo gnomo di Cuneo? E chi è adesso questo gnomo di Cuneo? «Come chi è lo gnomo di Cuneo! È Ezio Mauro! I problemi di quel giornale sono nati con Debenedetti. Diceva Agnelli, riferendosi a Scalfari, che non si poteva dirigere un giornale che si era venduto. Quando nel 1999 D’Alema mi ha querelato chiedendo 3 miliardi di risarcimento per la famosa vignetta sul caso Mitrokhin, tieni conto che D’Alema ha querelato solo me, non Repubblica. Ezio Mauro faceva comunella con D’Alema, presentava i suoi libri. Siccome Ezio Mauro non mi ha difeso, ho deciso di andarmene, di licenziarmi senza chiedere niente. E guarda che ero redattore, potevo anche non andarmene. Quando ho comunicato a Mauro che me ne sarei andato, lui era tutto felice. Sì, perché ogni volta che gli mandavo una vignetta via fax lui si incazzava moltissimo. Ho tolto il disturbo, praticamente». E com’è andata a finire la querela di D’Alema? «L’ha ritirata non appena me ne sono andato da Repubblica».

Nella sua vita satirica Forattini è stato querelato molte volte. Gli chiedo se è mai stato condannato per diffamazione in via definitiva. Forattini si aggiusta i capelli pettinati alla francese, tanto da somigliare a uno dei tanti esponenti della borghesia settecentesca raffigurati nei quadri appesi alle pareti, e chiude gli occhi per ricordare meglio. «Mi hanno querelato in tanti. Mi hanno querelato Leoluca Orlando, Bettino Craxi, Ciriaco De Mita. E mi hanno creato problemi Paolo VI e Romano Prodi. Ma sai chi è l’unico che è riuscito a farmi condannare? Vediamo se lo indovini. No lo sai? Allora te lo dico io: è il giudice Caselli. Ah, la magistratura italiana! Ma è meglio che non mi fai parlare!». Forattini continua il racconto della sua vita. Mi parla bene dell’avvocato Agnelli, che lo volle a La Stampa con un contratto superlativo. E mi parla bene di Vittorio Feltri («sarà pure feroce, ma ha aumentato le vendite del Giornale di 50.000 copie. Speriamo mi faccia un bel contratto»).

E il centro-destra? Mai avuto problemi con Fini, Berlusconi, Schifani, Tremonti? E con Di Pietro? «Mai. Berlusconi è un signore. È un uomo libero. Ho fatto vignette sulla Carfagna e su Papi, ma lui non mi ha mai detto niente. Sarà anche un fijo de ‘na mignotta, ma è un uomo libero. Le querele arrivano solo da sinistra. Solo i comunisti querelano. Diverso invece è il caso di Di Pietro. Ora ti confesso una cosa. Quando c’era Mani Pulite io appoggiavo le inchieste di Di Pietro, e Di Pietro era felice del mio appoggio, tanto che a notte fonda mandava la polizia a casa mia per avere in anteprima le vignette. Adesso non mi può dire niente. Però no, non mi ha mai querelato».

Le fredde strade di Roma sono avvolte dal buio. Il pomeriggio è passato in fretta. «In questo paese se non sei comunista ti dicono che sei fascista. Mi ricordo che fui io a sdoganare Fini per la prima volta in un’intervista a Maria Latella. Fui costretto ad andarmene da Roma. Mi arrivavano le telefonate di notte, mi dicevano che ero un fascista, un fijo de ‘na mignotta. È un brutto paese, il nostro. La libertà è merce rara. Solo da noi la satira è considerata criminale. Ma la satira è un porto franco, nessuno la deve toccare. Mo’ però lasciami lavorare perché devo fare una vignetta per Feltri, anzi, aiutami a trovare un lavoro, perché sono disoccupato. E salutami Polito, perché quando me ne andai da Repubblica fu l’unico a telefonarmi insieme alla Palombelli. Queste sono cose non si dimenticano».
da il Riformista del 23/12/2009