giovedì 29 gennaio 2009
Perchè fanno politica i nostri pOLITICANTI!
Premetto che quanto leggerete adesso non l'avreste letto ai tempi della vendita del palazzo di Via Botteghe Oscure, sede storica del PCI. Vendita dovuta ai miliardi di debiti accumulati in molti anni di fallimentare gestione del partito. Poi arrivò la incostituzionale legge del rimborso elettorale, et voilà, i debiti sono stati ripianati senza vendere più nulla, anzi moltiplicando gli investimenti, seppur sotto l'odierno nome di DS, anzichè PCI.
Fondazioni DS, un patrimonio da mezzo miliardo di euro.
L’incubo di «Ughetta», moglie giudiziosa, è una catapecchia nelle campagne istriane di Babici. Dove figura essere finito, intestato a uno scaricatore di cassette al mercato di Trieste, ciò che restava dell’immenso tesoro della Dc: 508 palazzi e case e garage e negozi spariti così:
Perciò, sbuffa con gli amici il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, non riesce a capire le polemiche sulle fondazioni in cui sta mettendo al sicuro il patrimonio ereditato dal Pci e dai rampolli pidiessini e diessini. In fondo, ha spiegato a Luca Telese, quello suo con Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita, è un matrimonio politico che non sfugge alle regole di tutti i matrimoni: «Luigino e Ughetta, che sono io, vanno all’altare poveri in canna, ma se Ughetta ha un po’ di patrimonio e Luigino ha un po’ di soldi, quel che devono dire al sindaco è: facciamo la separazione dei beni».
Ovvio, no? L’ha ripetuto pochi giorni fa: «E’ il frutto di un processo avviato dalla direzione nazionale del partito nel 2005 per separare la politica dalla gestione del patrimonio, evitando così che eventuali scelte negative della prima abbiano ripercussioni sul secondo». Mica i soldi dei vecchi militanti possono essere messi in un investimento sbagliato! Metti caso che alle Europee il Pd vada al naufragio e gli ex-diessini e gli ex-margheritini si convincano che le nozze sono state un errore e decidano di separarsi... Amici come prima, certo. Ma a ciascuno il suo.
Va da sé che, proprio come succede dopo certi sposalizi celebrati con un carico di speranze evaporate in fretta, sono proprio i soldi uno dei motivi di litigio. Fin dall’inizio. Cioè dall’autunno del 2007 quando Sposetti, che nel ruolo di tesoriere del partito si sentiva in una botte di ferro («alla fine della segreteria Veltroni nel 2001 il debito era di 58o milioni di euro, adesso è di 14o») decise di mandare una lettera al «Corriere» nel tentativo di spazzar via le polemiche su una frase che gli era scappata: «Da me il Pd non avrà un euro».
«Non c’ è, né può esserci alcuna lite su soldi e immobili tra i Ds e il Partito democratico, che i Ds hanno voluto con determinazione e convinzione», scrisse. E precisò: «La riorganizzazione del patrimonio immobiliare che fin qui è stato nella disponibilità dei Ds è finalizzata all’unico obiettivo che tale patrimonio possa entrare nella piena disponibilità del Pd, con le stesse regole di autonomia gestionale e di forma giuridica adottate fin qui dai Ds. È dunque del tutto privo di fondamento che tale riorganizzazione sia estranea alla costruzione del Partito democratico o addirittura che voglia sottrarre al nuovo partito la disponibilità di strutture e beni».
Il tesoriere del Pd Mauro Agostini abbozzò, ma senza troppa convinzione: «Il problema è che nel caso in questione i membri del comitato di indirizzo, oltre a essere in numero molto ristretto, sono nominati a vita e che in caso di morte si procede per cooptazione». Insomma, resterebbe comunque tutto «in casa» degli eredi dei Democratici dì sinistra. Uomini e donne fidatissimi. Che nel caso fossero chiamati a sostituire questo o quel membro dovrebbero mettersi comunque d’accordo (mica a maggioranza semplice: sette su otto, nove su dieci...) conservando intatta la corazza blindata della fondazione.
Fatto sta che mesi e mesi di convivenza non solo non hanno portato a una nuova «luna di miele» ma hanno scavato un solco più profondo tra i «coniugi». Fino a incattivire i rapporti. Soggetti oggi a tempeste improvvise e furibonde. Come l’altra settimana quando Piero Fassino si è catapultato in Transatlantico sull’ex margheritino Pierluigi Mantini, del comitato Tesoreria del Pd, reo d’avere detto in un’intervista a «Libero»: «La Margherita ha conferito il suo intero patrimonio, soldi del finanziamento pubblico e la stessa sede che ora e in uso al Pd, al nuovo partito. Non si è tenuta niente da parte. I Ds, invece, no». «Hai detto un sacco di cazzate», gli ha sibilato in faccia l’ultimo segretario diessino, «Non basta dichiarare per andare sui giornali. lo mi sono rotto...». Ultima sassata: «Sei un cretino. Ci vediamo in tribunale. Se uno è stupido dovrebbe star zitto».
Ogni volta che lo tirano in ballo, Sposetti sospira. E spiega che, disperso in mille rivoli il «tesoro» democristiano e popolare, la «dote» vera (sia pure carica di debiti) ce l’avevano solo i Ds. I canoni che le fondazioni chiedono per le sedi del Pd? «Sono affitti politici. Servono a coprire le spese: l’Ici chi lo paga, il condominio chi lo paga, la Tarsu chi la paga? Le fondazioni.
di Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella
da Corriere della Sera del 19 gennaio 2009, pag. 11
mercoledì 28 gennaio 2009
Le smentite alla "verità" dell'ex opm Di Pietro.
Le non risposte di Tonino
Da settimane questo quotidiano incalza il deputato Antonio Di Pietro, leader-padrone dell’Italia dei valori, con una serie di domande sul suo patrimonio immobiliare, sulla gestione privatistica dei fondi pubblici destinati al suo partito, su comportamenti non precisamente commendevoli di alcuni suoi deputati, sui rapporti apparentemente non troppo limpidi tra suo figlio Cristiano e il funzionario dipietrista Mautone, sul misterioso modo («inquietante», lo definisce la Direzione investigativa antimafia) in cui è venuto a conoscenza che lo stesso Mautone era sottoposto a indagine ed ha quindi provveduto a trasferirlo e a proibirgli ogni contatto telefonico con l’inguaiato rampollo. Domande legittime, ci pare.
A maggior ragione considerando il fatto che «l’onestà» è l’unica ragione sociale del partito dell’ex pm, la sola giustificazione della sua presenza nel panorama politico italiano. Come ha ben scritto Michele Brambilla qualche giorno fa, «non c’è altro, nel pensiero di Di Pietro. Non un’ideologia, non una strategia economica, non una visione sulla politica internazionale, sulla scuola, sulla cultura, su qualsiasi questione etica che non attenga al settimo comandamento». Nulla: solo «mani pulite» e «trasparenza» attribuite a se stesso in contrapposizione agli intrallazzi, quando non alla pratica delle tangenti che, a suo dire, caratterizzano praticamente ogni altro soggetto fuori e dentro il Parlamento. Come poi possa avere la faccia tosta di sostenere questa parte uno che ha tanti scheletri nell’armadio (Mercedes, scatole di soldi, strani giri di case e favori, ambigui rapporti con alcuni inquisiti, inspiegabile e inspiegato abbandono improvviso della toga per buttarsi in politica) e come tanti italiani possano dargli credito, è ovviamente un altro paio di maniche. Ma questa è l’immagine che Di Pietro, aiutato dai suoi cantori, proietta costantemente di sé: il puro, l’immacolato.
Capirete bene che l’Incorruttibile è ancor più soggetto degli altri politici all’analisi del sangue sulla correttezza delle sue azioni. E quando sorgono ombre, più di altri avrebbe il dovere, oltreché l’interesse, di chiarire. Di qui i nostri quesiti. Che però hanno trovato un iniziale muro di silenzio. Abbiamo insistito, ma non siamo andati oltre qualche risposta obliqua e abborracciata. Sul caso Mautone, per esempio: «Ho saputo dalle agenzie», ha buttato lì il prode Tonino. «Falso!», ha dimostrato il Giornale. «Anzi no, è stato il mio fiuto», ha cercato di rimediare l’ex poliziotto, «e comunque è una stupidaggine mostruosa sostenere che qualcuno mi abbia rivelato segreti d’ufficio». Più che una spiegazione, una provocazione. Così, tirati a cimento, siamo andati avanti. Scoprendo altre cose non proprio nitide sull’operato di Di Pietro e del suo entourage, e chiedendogliene conto. Il risultato? Promesse di querele; insulti (il senatore dell’Idv Luigi Li Gotti ha definito il nostro direttore «un paranoico pericoloso»); minacce di morte: «finirai appeso a testa in giù» hanno preconizzato a Mario Giordano i seguaci dell’Uomo tutto d’un pezzo. Il quale, giusto l’altro ieri, ha deciso di esibirsi in prima persona. Dev’essergli costato, perché come è noto con la lingua italiana non ha questa gran consuetudine, ma si è messo davanti al computer e ha scritto sul suo blog: ha definito la nostra campagna giornalistica «una ben orchestrata azione criminale». Ma non gli sembrava abbastanza e così è andato a frugare ancora nel suo repertorio: «un’associazione a delinquere vera e propria che opera nell’ottica di un unico disegno criminoso portato avanti da più persone a più livelli». Che volete farci: questo è il suo concetto di libertà di stampa.
Da qualche giorno, però, sta succedendo una cosa bizzarra. Anzi due. La prima è che non siamo più soli: anche altri giornali, da Libero all’Economist, hanno iniziato ad accorgersi che il leader dell’Idv è debitore di qualche chiarimento agli italiani. La seconda è che l’ex pm si è finalmente degnato di rispondere. No, al Giornale no. Ma a Vittorio Feltri, che gli poneva alcuni dei nostri stessi quesiti, sì. E ha risposto con grande gentilezza, quasi cerimonioso: caro direttore, grazie, lei mi ha dato l’opportunità di spiegarmi e anche un buon consiglio, ora modifico subito lo Statuto del partito; ecco qua, vede, d’ora in poi non sarò più solo io a maneggiare tutti quei milioni di finanziamento pubblico, perché l’ho fatto fino ad ora non lo so e comunque non glielo dico, però sono appena stato dal notaio e insomma: anno nuovo, vita nuova, come si dice, e se ha ulteriori consigli da darmi eccomi qua, pronto a riceverli.
Da quel gran giornalista che è Feltri, naturalmente, non si è fatto pregare e su Libero di ieri ha sottoposto a Di Pietro, «per aiutarlo a ripulirsi bene», altre sei questioni portate alla luce dal lavoro dei cronisti e dai commentatori del Giornale. Le riassumiamo. 1) Come si spiega la doppiezza fra l’associazione Idv (composta da Di Pietro, moglie Susanna Mazzoleni e fedelissima deputata Silvana Mura), che da anni incassa il finanziamento pubblico, e il partito Idv? 2) Come si spiega la gestione dei contributi elettorali del partito? 3) Come si spiega che fino a ieri fosse Di Pietro ad approvare i rendiconti Idv, senza altri controlli? 4) Come poté Tonino acquistare la casa di Bergamo all’asta dell’Inail se la legge glielo impediva? 5) Come si spiega il giallo dell’Idv che pagava l’affitto della sede di Roma alla famiglia Di Pietro? 6) Come si spiega che Di Pietro seppe in anticipo che il provveditore alle opere pubbliche Mario Mautone era sotto inchiesta a Napoli?
Ora, noi non sappiamo se l’ex pm risponderà. Ma qualche considerazione ci sembra vada fatta. Innanzi tutto, se Feltri vuole «aiutare Tonino a ripulirsi bene» significa che a suo giudizio tanto pulito non è, e quindi anche lui ritiene che la campagna condotta per settimane in solitario dal Giornale ha un suo fondamento. Ci fa piacere. Ma attenzione: rispondere alle domande non è condizione sufficiente per «sbiancare» (come diceva Pacini Battaglia riferendosi all’allora magistrato) Di Pietro. È essenziale valutare che cosa risponde. E qui la faccenda si fa un tantino più complicata e forse si comprende anche perché l’ex pm sia disposto a fornire spiegazioni a tutti tranne all’unico quotidiano che gliele sta chiedendo da settimane. Non è che Tonino ha paura? Paura che noi - che ormai abbiamo fatto della questione un punto d’onore - non ci accontentiamo di qualche brandello di trasparenza allestito in fretta e furia e condito da pacche sulle spalle. Paura che servano risposte vere e, quindi, scomode, scomodissime per il Grande Moralizzatore.
Finora, per esempio, l’unica medaglia che si è davvero appuntata sul petto è la sbandierata modifica dello Statuto dell’Italia dei valori. Ma è una medaglia di ottone. Chi lo dice? Non noi «criminali», ma l’insospettabile Corriere della Sera, sotto l’eloquente titolo “Cambia poco”: «Dal triumvirato familiare a un organo politico ristretto ben lontano dal blind trust... I poteri sulla cassa passano all’ufficio di presidenza: Di Pietro e quattro fedelissimi». Non è con provvedimenti all’acqua di rose (vogliamo parlare del figlio Cristiano che si dimette dal partito ma conserva gli incarichi di consigliere provinciale e comunale?) o con risposte evasive che l’Incorruttibile può sperare di cavarsela. E a proposito: noi avremmo anche altre curiosità. Come mai ha fondato l’associazione Idv proprio il 26 luglio 2004, guarda caso il giorno prima del piano di pagamento dei rimborsi delle elezioni europee? Perché non spiega come mai se non si fidava più di Mautone, come ha dichiarato ai quattro venti, lo ha trasferito in un ruolo chiave del ministero e poi l’ha presentato in almeno due occasioni come il suo braccio destro? Ha niente da dire sulle sue spericolate manovre sulle autostrade del Nordest di cui parliamo in queste pagine?
Coraggio, Tonino: il lavacro l’attende. Ma è qui, in via Negri.
Come agiva l'ex pm Di Pietro quan'era ministro.
Le manovre spericolate di Tonino in autostrada: così piazzava gli amici
Al ministro Antonio Di Pietro piaceva scorrazzare in autostrada, soprattutto su quelle del Nordest. Correva, sfrecciava, e trovava sempre qualche amico. È piccolo il mondo di Tonino. Incontrava per esempio Mario Mautone, il provveditore alle Opere pubbliche in Campania e Molise che sistemava gli amici di Di Pietro junior. E che ci faceva Mautone lontano 900 chilometri dalle sue terre? Presiedeva commissioni di controllo, nominato da Di Pietro senior. Ma il leader dell’Italia dei Valori incappava anche in Guglielmo Ascione, un suo ex collega che da magistrato archiviò due fascicoli pericolosi per Tonino. Anche lui, come l’ex pm di Montenero di Bisaccia, ha appeso la toga al chiodo: ora fa l’avvocato e, dietro compenso di quattro milioni di euro, fu incaricato dall’autostrada Serenissima di sistemare un contenzioso col ministero retto da Di Pietro.
Un anno e mezzo fa il caso Ascione fece clamore. Nel 1995 fu lui ad archiviare un esposto di Sergio Cusani che denunciava la falsificazione di alcune carte (fornite dal faccendiere Pierfrancesco Pacini Battaglia) su cui Di Pietro aveva costruito il processo Enimont. Cusani ebbe torto ma aveva ragione: un anno dopo una perizia avrebbe accertato che quei documenti erano contraffatti, ma ormai l’esposto era seppellito.
Fu sempre Ascione ad archiviare altre accuse compromettenti per Di Pietro, quelle del pentito Salvatore Maimone, il quale aveva sostenuto che un autoparco milanese gestito dalla mafia godeva delle coperture di magistrati tra cui proprio Tonino. Ed era ancora Ascione, sia pure indirettamente, a informare il collega che si stava preparando un’ispezione ministeriale su di lui: secondo una sentenza del 1997, l’ispettore Domenico De Biase riferiva ad Ascione, il quale ne accennava al giornalista Maurizio Losa, il quale si confidava con Di Pietro.
Due anni fa il giudice diventato avvocato era stato incaricato dalla società che gestisce l’autostrada Brescia-Padova di dirimere una faccenda molto delicata, che richiedeva doti speciali di mediazione con il ministero delle Infrastrutture. Il legale doveva fare in modo che la Serenissima ottenesse la proroga della concessione autostradale. La decisione spettava all’Unione europea e al ministero. La consulenza fu assegnata il 30 giugno 2006, quando Tonino si era insediato da poche settimane.
La vicenda fece scalpore per l’ammontare della parcella (quattro milioni di euro), ma soprattutto per la scelta di Ascione. Gli interrogativi sono tutti riassunti in un’interpellanza presentata dalla senatrice Cinzia Bonfrisco (Forza Italia): l’ex giudice era stato individuato «dopo una preselezione/gara, o per indicazione fiduciaria, o per conoscenza personale, o per presunti rapporti passati/presenti dello stesso legale con il ministro che ha imposto la nuova convenzione e che poi doveva mettere l’ultima parola?».
Mario Mautone, invece, fu paracadutato nel Nordest da Di Pietro in persona. Il ministro aveva deciso una procedura tutta sua per controllare gli appalti delle opere pubbliche bandite da società concessionarie: nominare una commissione speciale che verificasse le procedure di gara e indicasse quale fosse l’offerta più vantaggiosa, senza però prendersi la responsabilità di decidere. Una forma di pressione nemmeno troppo occulta che comportava ritardi, perché le nomine non erano tempestive, faceva aumentare i costi, perché i commissari erano autorizzati a chiedere parcelle che potevano raggiungere il 2 per cento dell’importo complessivo dei lavori. Al confronto, l’onorario di Ascione appare perfino modesto.
Nel 2007 le Autovie Venete (autostrada Venezia-Trieste) dovevano progettare il nuovo ponte sul Piave e altri lavori per la realizzazione della terza corsia. Alla testa della commissione speciale Di Pietro pose Mautone: era il periodo più «caldo» dei dialoghi intercettati tra l’ex provveditore e Cristiano Di Pietro, nei quali il figlio del ministro raccomandava gli amici. Nella commissione friulana, Mautone non era l’unico fedelissimo piazzato da Tonino: vi faceva parte anche l’ingegner Ugo Luterotti, dipendente in pensione dell’Ater di Gorizia, ma soprattutto segretario locale dell’Italia dei Valori. Il terzo componente era Ugo Dibennardo, capo del compartimento Anas del Triveneto. A Mautone andarono 30mila euro più altri 2.398,56 come rimborso spese; in totale la commissione costò 105mila euro.
Che c’azzeccava Mautone con la viabilità friulana? Era l’esperto numero uno di appalti autostradali? Lo Speedy Gonzales delle concessioni? Il Renzo Piano dei viadotti a tre corsie? Insomma, perché fu catapultato da Napoli a Trieste? È lo stesso Di Pietro a svelare l’arcano. Lo fece nella risposta a un’interrogazione presentata dal senatore friulano Ferruccio Saro (ex Dc, ora Pdl), il quale chiedeva quali fossero i criteri adottati per la scelta di Mautone, oltre il fatto di operare «nella terra d’origine del ministro».
Risposta: «Mautone risulta essere, tra i dirigenti del ministero, quello con il minor numero di incarichi» e quindi era stato designato in ossequio al «criterio della rotazione» concordato con i sindacati. Insomma, non era il più esperto ma il più disoccupato. Quanto a Luterotti, l’attivista Idv assicurava «l’apporto di specifiche competenze, esperienze e professionalità nell’esame della congruità dei prezzi e delle tariffe connesse all’attività libero-professionale, settore nel quale si è distinto quale vice presidente dell’ordine degli ingegneri di Gorizia e responsabile della commissione revisione parcelle». La risposta all’interrogazione parlamentare è del 2 agosto 2007: il 29 luglio si erano improvvisamente interrotti i colloqui telefonici tra Mautone e il giovane Di Pietro.
Ora il caso è tornato all’attenzione delle Camere. I deputati Isidoro Gottardo e Manlio Contento (Pdl) hanno chiesto al ministro Altero Matteoli di eliminare le commissioni speciali di controllo, che tolgono autonomia alle società e impongono spese aggiuntive, e soprattutto di conoscere tutti gli incarichi assegnati da Di Pietro nei due anni da ministro. L’interrogazione, del 19 giugno, è ancora senza risposta: sarà un conteggio lungo e complicato.
Così Di Pietro ha creato la sua Italia del mattone
di Massimo Malpica, Gian Marco Chiocci
Dall’inchiesta di Napoli - di cui aveva «avvisaglie» quando solo i pm dovevano sapere - ai rimborsi elettorali gestiti «in famiglia», dai rapporti con Mautone negati ma apparentemente amichevoli al tempo in cui il provveditore era già stato «rimosso» dopo le chiacchiere con Cristiano, sono tante le domande a cui Antonio Di Pietro non risponde. Tra queste, anche quelle sul suo «portafoglio immobiliare».
Un tesoretto in mattoni tra l’estero e mezza Italia. Deve avere risparmiato molto Di Pietro per comprarsi tutte queste case. La questione è sbarcata pure alla procura di Roma, che poi lo ha assolto, insieme alla vicenda della gestione dei rimborsi elettorali sollevata dal cofondatore dell’Idv, Mario Di Domenico. Di Pietro avrebbe acquistato immobili con i soldi del finanziamento al partito, e avrebbe riaffittato alcuni di questi proprio all’Italia dei Valori. Un comportamento che i pm stigmatizzarono, ma che non ebbe seguito penale. Sulla vicenda, e su quelle compravendite, Di Domenico ha rilanciato con esposti, e gli atti su gestione finanziaria e immobiliare sono ora in fascicoli aperti in quattro procure italiane, tra cui quella di Brescia.
Il tour del «Di Pietro real estate» non può che cominciare da un acquisto pieno di anomalie. Un appartamento di 178 metri quadrati nel centro di Bergamo, comprato grazie alle cartolarizzazioni dell’Inail, il cosiddetto «Scip 2». Sul caso, è appena arrivato in procura a Napoli un esposto-denuncia che chiede di far luce da un lato sui rapporti tra l’ex provveditore Mautone e lo stesso Antonio Di Pietro, e dall’altro quelli tra Mautone e Romeo, che gestiva con la sua società proprio le cartolarizzazioni dell’Inail (Scip1 e Scip2) tramite le quali l’ex pm si comprò la casa bergamasca.
Va detto che Di Pietro all’inizio criticò la scelta di dismettere il patrimonio delle case dell’Inail, arrivando a firmare una proposta di legge perché il valore di quegli immobili fosse messo a frutto degli invalidi sul lavoro, salvo poi procedere lui stesso a comprarne uno con modalità ancora da chiarire. Era l’estate del 2004, l’ex «collega di partito» Di Domenico aveva diffidato Tonino e la tesoriera dell’Idv Silvana Mura dal proseguire nell’uso «non associativo» dei soldi del partito.
Eppure proprio quell’anno alla società di cartolarizzazione Scip arriva una proposta di acquisto per l’appartamento di via Locatelli a Bergamo. Per legge Di Pietro, che era parlamentare europeo, e che prima del perfezionamento dell’acquisto sarebbe sbarcato in Parlamento (aprile 2006) non poteva comprare, in quanto amministratore pubblico. Infatti a presentare l’offerta per la cartolarizzazione è Claudio Belotti, compagno della Mura, e con lei componente del cda Antocri, la società immobiliare «di famiglia» amministrata da Tonino, che prende il nome dai tre figli dell’ex pm Anna, Toto e Cristiano. E la Mura, insieme a Tonino e alla moglie di questi Susanna Mazzoleni, gestisce anche l’associazione Italia dei Valori, quella che incassa i rimborsi elettorali al posto del «movimento-partito» Idv.
Il 1° ottobre 2004 viene pubblicato il bando per l’acquisto della casa. Il 10 novembre arriva l’offerta di Belotti: 204.085 euro, 20mila depositati subito come cauzione. Il Tar boccia la proposta di acquisto per «irregolarità formali» e assegna l’appartamento alla Bergamo House Unipersonale srl, seconda aggiudicataria. Belotti ricorre al Consiglio di Stato, e curiosamente all’udienza dell’11 gennaio 2005 non si presentano né l’Inail né la società di cartolarizzazione né l’aggiudicatario subentrato né l’avvocatura dello Stato. Se a firmare la proposta fosse stato Di Pietro, o se fosse stato noto che il compagno della Mura era un prestanome, il giudice amministrativo avrebbe dovuto comunque respingere il reclamo, ai sensi dell’articolo 1471 del codice civile: «Non possono essere compratori, nemmeno all’asta pubblica, né direttamente né per interposta persona, gli amministratori dei beni dello Stato».
Ma a figurare è solo Belotti, e il ricorso viene accolto. Eppure gli assegni, cinque, con cui la casa viene pagata al momento della stipula portano la firma di Antonio Di Pietro (che appunto non avrebbe potuto comprare), ma il notaio nemmeno eccepisce che nel verbale di aggiudicazione il nome dell’acquirente era quello di Belotti (a nome suo, mica per conto dell’Antocri), né è quest’ultimo che compra e poi rivende al leader Idv. L’atto notarile è uno soltanto, ed è intestato a Di Pietro. Ultima sorpresa, il numero telefonico della linea installata in quella casa è lo stesso a cui un tempo rispondeva la tesoreria dell’Italia dei Valori.
Ma la casa di Bergamo non è certo la sola riconducibile a Di Pietro, ai suoi familiari e alla An.to.cri, società attivissima nonostante il capitale sociale iniziale di appena 50mila euro. C’è Curno, dove Tonino ancora pm comprò una villa, espandendosi nel 1994 con l’acquisto di un’altra casa adiacente di otto vani. Passando al 1995, il futuro leader Idv aggiunge alle sue proprietà un’immobile di 300 metri quadri a Busto Arsizio comprandolo con un mutuo all’80 per cento del valore, che poi girerà al partito.
Quando poi sbarca a Bruxelles, ecco una casa - due locali - anche nella capitale belga. La carriera non si ferma, le proprietà immobiliari procedono di pari passo. Di Pietro è ministro delle Infrastrutture, e nel 2002 mentre il mercato del mattone a Roma è alle stelle si assicura otto vani e 180 metri quadrati nel centro della capitale, al quarto piano di uno stabile di via Merulana. Prezzo 650mila euro, 400mila dei quali finanziati da un mutuo Bnl. Finita? Macché. C’è l’attico di Montenero di Bisaccia: 173 metri quadri poi portati a 186 grazie al condono edilizio del 2003, che Tonino cede a Cristiano. E poi, stesso anno, i 190 metri quadrati comprati a Bergamo, via dei Partigiani, quarto piano. Intestati agli altri figli, Anna e Toto. Quel giorno anche la moglie di Tonino acquista nello stesso palazzo un appartamento di 48 metri quadrati, sempre al quarto piano, oltre a due cantine e a un garage. Del 2004 è la compravendita - siglata Antocri - di una casa di 190 metri quadri (620mila euro) in via Felice Casati a Milano. E sempre Antocri compra (1.05 milioni di euro) dieci vani in via Principe Eugenio a Roma. Che diventa la sede dell’Idv, affittuaria del suo leader. Ancora nel 2005 la moglie di Di Pietro compra un appartamento e un ufficio in via del Pradello a Bergamo. Nel 2007 Tonino ristruttura la masseria di famiglia a Montenero (16 ettari tra eredità e acquisti). E poi c’è quel 50 per cento di quota che Di Pietro possiede nella Suko, società bulgara.
Il business del mattone frutta: in 7 anni Tonino ha investito 4 milioni di euro, e al netto dei mutui da estinguere ne ha incassato uno dalle vendite. Il fiuto per gli affari è chiaro, l’origine dei soldi investiti meno: di Pietro infatti dichiara al fisco meno di 200mila euro l’anno. E giura di non aver mai usato un euro del denaro dell’Idv.
Ecco come spiega l'ex pm Di Pietro il suo essere miliardario in lire!
Intervista a Veltri: "Io, Travaglio e gli impresentabili Idv"
«Non so di cosa stia parlando, sono all’estero».
Insomma, non sa nulla della questione morale Idv? Tutte le cose che lei, ex numero due di Di Pietro, aveva denunciato l’estate scorsa sono di dominio pubblico. Davvero non sa nulla?
«No».
Allora la aggiorno. Mmmh, vediamo... Barbato ha preso le distanze dall’Idv, l’ex pm è stato...
«Barbato? Barbato sapeva tutto benissimo, e poteva pensarci prima quando abbiamo fatto la battaglia per la Lista civica. Un giorno siamo andati a cena dopo una grande manifestazione a Napoli. Marco Travaglio gli ha fatto un elenco lunghissimo di persone che non dovevano stare con l’Idv. Lui ci disse che non gli interessava candidarsi, perché viveva già bene con la sua professione. Poi improvvisamente, lui e Pancho Pardi, hanno accettato la candidatura. E noi ci siamo ritirati in buon ordine».
Ah, ecco. Vabbè, concludo. Dicevo, l’ex pm è stato sentito dai magistrati di Napoli per 4 ore per il caso Mautone, suo figlio Cristiano e altri esponenti Idv sono indagati... Ah, Di Pietro ha annunciato che cambierà lo statuto Idv...
«Vuol dire che l’associazione a tre scompare e rimane come unico soggetto il partito? Sarebbe una bella vittoria. E Di Pietro dovrebbe darmene atto. Anzi, mi dovrebbe ringraziare per aver sollevato la questione».
E se non è così?
«Se non è così ci hanno presi in giro. Se le cariche di Di Pietro e della tesoriera Idv Silvana Mura restano a vita, con un marchingegno giuridico all’italiana, resta tutto come prima».
Cioè come aveva sempre detto lei?
«L’associazione “familiare” che oggi controlla il finanziamento pubblico è cosa diversa dal movimento e dal partito. Se uno ci vuole entrare deve avere il placet di Di Pietro, davanti al notaio».
Associazione di cui, quando è andato via, non sapeva nulla. Giusto?
«Non si capisce perché Di Pietro, che ha fatto della legalità la sua battaglia politica primaria, ha avuto bisogno di fare un’associazione a latere, di cui nemmeno io sapevo nulla. E al tempo io ero vicepresidente Idv con delega notarile - neanche richiesta - sulla presentazione del simbolo. Non si capisce perché è stata fatta se l’ex pm aveva intenzione di muoversi in maniera corretta. Quell’associazione negava all’origine la nascita di Idv. Nessun partito ha alle spalle un’associazione così».
Ma se l’associazione non è titolata a gestire i soldi pubblici, perché finora l’ha fatto?
«Il finanziamento non andava dato all’associazione ma al partito. L’associazione non aveva i requisiti. Alla prima udienza per discutere del ricorso che abbiamo presentato il giudice di Roma ha scritto che il partito era “contumace”».
Sì, però Di Pietro dice che la Corte dei conti...
«E certo! Ogni volta che si parla del finanziamento all’Idv Di Pietro cita la Corte dei conti, ma non cita mai il parere dei revisori dei conti della Camera che per il biennio 2005-2006 hanno detto: “I bilanci Idv non sono coerenti con la legge”. E peraltro non è l’unico partito nelle stesse condizioni».
E la Camera non ha fatto nulla?
«Messa sull’avviso l’ufficio di presidenza della Camera - allora presieduta da Fausto Bertinotti - se n’è fregata. Anzi. L’ultima volta il giudice ha autorizzato il decreto ingiuntivo sul finanziamento Idv, e Bertinotti si è opposto, dando mandato all’avvocatura di Stato. È grave che la Camera dei deputati si sia comportata così, a fronte di più iniziative giuridiche».
«Avrebbe dovuto bloccare i soldi. Mi auguro che il nuovo presidente della Camera metta un po’ d’ordine. Quantomeno sui criteri di attribuzione dei soldi».
Cosa non funziona?
«La somma che i partiti incassano, tutti, è eccessiva rispetto agli altri paesi Ue. Ma la questione più scottante è che quel finanziamento non è soggetto né a regole né a sanzioni. Non c’è controllo. Basterebbe introdurre la responsabilità giuridica dei partiti. Quei soldi sono talmente tanti che i partiti possono andare avanti senza prendere tangenti».
Anche l’Italia dei valori?
«Se parliamo di etica e di politica come fa Di Pietro non parliamo di penale, perché a quello ci pensano i giudici. Questo è un modo per delegare tutto alla magistratura. E non va bene. I problemi deve risolverli la politica».
Fuori dal Psi nell’81, fuori dall’Idv nel 2001. Ce l’ha per vizio?
«Non capisco perché dovevo essere intrasigente con Craxi, che qualche merito politico ce l’aveva, e non con Di Pietro».
felice.manti@ilgiornale.it
Come si stravolge la verità!
Sempre su tema Travaglio & C.
Non sempre i fatti sono la realtà!
Notizia passata quasi inosservata.
Di questo si parla, infatti, cari lettori - che siate o meno ammiratori di Travaglio; che siate entusiasti, incazzatissimi contro ogni rilievo che gli si può opporre o soltanto curiosi di capire.
Che cos'è un "fatto", dunque? Un "fatto" ci indica sempre una verità? O l'apparente evidenza di un "fatto" ci deve rendere guardinghi, più prudenti perché può indurci in errore? Non è questo l'esercizio indispensabile del giornalismo che, "piantato nel mezzo delle libere istituzioni", le può corrompere o, al contrario, proteggere? Ancora oggi Travaglio ("Io racconto solo fatti") si confonde e confonde i suoi lettori. Sostenere: "Ancora a metà degli anni 90, Schifani fu ingaggiato dal Comune di Villabate, retto da uomini legato al boss Mandalà di lì a poco sciolto due volte per mafia" indica una traccia di lavoro e non una conclusione.
Mandalà (come Travaglio sa) sarà accusato di mafia soltanto nel 1998 (dopo "la metà degli Anni Novanta", dunque) e soltanto "di lì a poco" (appunto) il comune di Villabate sarà sciolto. Se ne può ricavare un giudizio? Temo di no. Certo, nasce un interrogativo che dovrebbe convincere Travaglio ad abbandonare, per qualche tempo, le piazze del Vaffanculo, il salotto di Annozero, i teatri plaudenti e andarsene in Sicilia ad approfondire il solco già aperto pazientemente dalle inchieste di Repubblica (Bellavia, Palazzolo) e l'Espresso (Giustolisi, Lillo) e che, al di là di quel che è stato raccontato, non hanno offerto nel tempo ulteriori novità.
E' l'impegno che Travaglio trascura. Il nostro amico sceglie un comodo, stortissimo espediente. Si disinteressa del "vero" e del "falso". Afferra un "fatto" controverso (ne è consapevole, perché non è fesso). Con la complicità della potenza della tv - e dell'impotenza della Rai, di un inerme Fazio - lo getta in faccia agli spettatori lasciandosi dietro una secrezione velenosa che lascia credere: "Anche la seconda carica dello Stato è un mafioso...". Basta leggere i blog per rendersene conto. Anche se Travaglio non l'ha mai detta, quella frase, è l'opinione che voleva creare. Se non fosse un tartufo, lo ammetterebbe.
Discutiamo di questo metodo, cari lettori. Del "metodo Travaglio" e delle "agenzie del risentimento". Di una pratica giornalistica che, con "fatti" ambigui e dubbi, manipola cinicamente il lettore/spettatore. Ne alimenta la collera. Ne distorce la giustificatissima rabbia per la malapolitica. E' un paradigma professionale che, sulla spinta di motivazioni esclusivamente commerciali (non civiche, non professionali, non politiche), può distruggere chiunque abbia la sventura di essere scelto come target (gli obiettivi vengono scelti con cura tra i più esposti, a destra come a sinistra). Farò un esempio che renderà, forse, più chiaro quanto può essere letale questo metodo.
8 agosto del 2002. Marco telefona a Pippo. Gli chiede di occuparsi dei "cuscini". Marco e Pippo sono in vacanza insieme, concludono per approssimazione gli investigatori di Palermo. Che, durante le indagini, trovano un'ambigua conferma di quella villeggiatura comune. Prova maligna perché intenzionale e non indipendente. Fonte, l'avvocato di Michele Aiello. Il legale dice di aver saputo dal suo assistito che, su richiesta di Pippo, Aiello ha pagato l'albergo a Marco. Forse, dicono gli investigatori, un residence nei dintorni di Trabia.
Michele Aiello, ingegnere, fortunato impresario della sanità siciliana, protetto dal governatore Totò Cuffaro (che, per averlo aiutato, beccherà 5 anni in primo grado), è stato condannato a 14 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Pippo è Giuseppe Ciuro, sottufficiale di polizia giudiziaria, condannato a 4 anni e 6 mesi per aver favorito Michele Aiello e aver rivelato segreti d'ufficio utili a favorire la latitanza di Bernardo Provenzano. Marco è Marco Travaglio.
Ditemi ora chi può essere tanto grossolano o vile da attribuire all'integrità di Marco Travaglio un'ombra, una colpa, addirittura un accordo fraudolento con il mafioso e il suo complice? Davvero qualcuno, tra i suoi fiduciosi lettori o tra i suoi antipatizzanti, può credere che Travaglio debba delle spiegazioni soltanto perché ha avuto la malasorte di farsi piacere un tipo (Giuseppe Ciuro) che soltanto dopo si scoprirà essere un infedele manutengolo?
Nessuno, che sia in buona fede, può farlo. Eppure un'"agenzia del risentimento" potrebbe metter su un pirotecnico spettacolino con poca spesa ricordando, per dire, che "la mafia ha la memoria lunghissima e spesso usa le amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso" . Basta dare per scontato il "fatto", che ci fosse davvero una consapevole amicizia mafiosa: proprio quel che deve essere dimostrato ragionevolmente da un attento lavoro di cronaca.
Cari lettori, anche Travaglio può essere travolto dal "metodo Travaglio". Travaglio - temo - non ha alcun interesse a raccontarvelo (ecco la sua insincerità) e io penso (ripeto) che la sana, necessaria critica alla classe politico-istituzionale meriti onesto giornalismo e fiducia nel destino comune. Non un qualunquismo antipolitico alimentato, per interesse particolare, da un linciaggio continuo e irrefrenabile che può contaminare la credibilità di ogni istituzione e la rispettabilità di chiunque.
da Repubblica del 14/25/2008
Perche fanno politica i nostri pOLITICANTI?
Ecco una delle risposte più concrete: si sono comprati anche fabbriche, bar palestre e cinema.
Moltiplicare un investimento per 28,8 volte in ottanta minuti sarebbe stata un’impresa forse impossibile anche per lo spericolato finanziere Gordon Gekko, protagonista di «Wall Street» di Oliver Stone. Ma non per il consigliere regionale veneto diessino Giampietro Marchese, amministratore unico della Immobiliare Rinascita.
Alle 9.30 del mattino di sabato 22 dicembre 2007 ha rilevato un esercizio commerciale per 2.000 euro. E alle 10.50, sempre davanti allo stesso notaio, l’ha affittato al prezzo di 1.200 euro al mese, incassando in una unica soluzione i primi quattro anni d’affitto:. 57.600 euro più Iva. Un miracolo. Dovuto al fatto che il passaggio di proprietà dell’esercizio commerciale era un atto puramente formale per mettere ordine nel patrimonio del partito. L’ex padrone, infatti, risultava procuratore della stessa società che comprava. E adesso anche quel bar di Mira, vicino a Venezia, è finito sotto il confortevole ombrello di una delle decine di Fondazioni che i Ds hanno costituito in tutta Italia per blindare l’enorme patrimonio immobiliare.
Questa è stata battezzata Fondazione Rinascita 2007. E nella sua pancia è finita l’Immobiliare Rinascita, oltre a una quindicina di sedi, cinque negozi, due autorimesse, un circolo ricreativo con bar, cinque appartamenti, un paio di fabbricati e quindici uffici di cui uno solo, a Mestre, con 19 stanze. Roba seria. E il termine «blindare» non è usato a sproposito.
La Fondazione veneziana ha un consiglio di indirizzo, presieduto da Marchese, composto da cinque membri nominati a vita dal partito. Se uno muore, i sopravvissuti scelgono il sostituto a maggioranza qualificata.
Una regola generale. Funziona così anche la Fondazione Nuova società di Padova, nel cui consiglio d’indirizzo c’è anche l’ex deputato diessino Sergio Manzato, che ha in portafoglio una società, la Left, proprietaria anche di un paio di fabbrichette. Ma non soltanto. Tra i vari immobili che i diessini padovani hanno affidato alla loro fondazione c’è perfino un impianto sportivo. E poco importa se per qualche locale è stato anche necessario ricorrere al tanto vituperato condono edilizio, com’è successo anche a Venezia. Il risultato, alla fine, è stato raggiunto.
Perché insieme al patrimonio immobiliare, i diessini hanno messo al sicuro nelle fondazioni una formidabile macchina da soldi. Indispensabile per tappare fino in fondo quel buco di bilancio che li costrinse all’umiliante vendita di Botteghe Oscure. Chi pensa che qui siano in ballo solo le sedi di un glorioso partito e le bandiere e i documenti e i cimeli, è fuori strada. La «ciccia» vera è costituita infatti dalle centinaia di immobili commerciali affittati a prezzi di mercato.
Certo, i risultati contabili delle varie società appaiono spesso in perdita, ma è perché in bilancio (per quanto uffici e negozi continueranno a rendere denaro anche quando saranno completamente ammortizzati) figurano appunto gli ammortamenti dei beni e le rate dei mutui, con la gradevole conseguenza di un abbattimento dell’imponibile fiscale. Quel che conta è il cash flow che producono.
Prendiamo ad esempio l’Immobiliare Capitolina di Trieste. Nel 2007, con un patrimonio valutato a libro circa 700 milioni, ha incassato 58.479 euro di affitti. Di chi sono questi soldi? Naturalmente dell’azionista, ovvero la Fondazione per il Riformismo nel Friuli Venezia Giulia, guidata da tre consiglieri fra cui l’ex presidente regionale Renzo Travanut.
Ma questo è niente rispetto alle cifre che possono finire nelle casse di altre Fondazioni. Come la «Gritti Minetti», che ha accolto tutto il patrimonio del partito bergamasco. O la milanese intitolata a Elio Quercioli, proprietaria di una immobiliare che nel 2007 ha intascato grazie alle pigioni 332 mila euro.
Per non parlare dell’Emilia. A Parma la Fondazione Arta Ds ha il record delle poltrone a vita: nel consiglio di indirizzo ce ne sono addirittura 28, fra cui una per il presidente della Provincia Vincenzo Bernazzoli e un’altra per la parlamentare Carmen Motta. Il lavoro, certo, non manca. La Mobiliare e immobiliare agricola commerciale produce 6o mila euro l’anno, e nel 2007 la vendita di un bar a Felino e due appartamenti ha garantito una plusvalenza di 211 mila euro. Poi c’è un’altra trentina di immobili, più un cinema, a Neviano degli Arduini. L’Immobiliare modenese, della Fondazione Modena 2007 affidata alle cure dell’ex presidente della Legacoop Onelio Prandini, ha invece incassato 306 mila euro. Ha 7o immobili e anche un’azienda specializzata nell’allestimento delle fiere, la Tenso Modena. Gli affitti dei beni della Reggiana Immobiliare, di proprietà della Fondazione Reggio Tricolore, hanno reso invece 377 mila euro.
Quanto alla Romagna, 277 mila euro sono stati i ricavi della Immobiliare Romagnola, appartenente alla Fondazione Ariella Farneti, nata a Forlì a novembre del 2007. E di 196 mila euro è stato il rendimento dei mattoni di proprietà di Imola Nostra, controllata dalla Fondazione Politica per Imola, che insieme alla società immobiliàre ha avuto in dote anche l’agenzia pubblicitaria Inmedia srl e l’azienda Allestimenti e pubblicità.
Numeri che impallidiscono davanti alla forza economica che può dispiegare la Fondazione Duemila di Bologna, proprietaria dell’immobiliare Porta castello e dell’Immobiliare Imolese: oltre un centinaio di immobili e un introito di un milione 528 mila euro, più 763 mila euro di plusvalenze. Tirate le somme, le Fondazioni emiliane sono in grado di generare un cash flow annuale di dimensioni pari all’intero utile registrato dai Ds nel 2007 (circa 4 milioni di euro), tenendo conto che poco ancora si sa del contributo che potranno dare il patrimonio della Fondazione ferrarese L’Approdo e i 14o beni della Fondazione Bella Ciao di Ravenna, probabile destinazione della Società culturale ricreativa Nuova Rinascita, immobiliare che incassa circa 400 mila euro l’anno di affitti.
Se poi è vero che i 16 enti morali già nati o ancora in gestazione nella rossa Toscana avrebbero inglobato più di 400 immobili, per un valore difettosamente stimato in 200 milioni di euro, la forza d’urto delle Fondazioni diventa imponente. Nel suo piccolo, la Fondazione diesse democratici sestesi, di Sesto Fiorentino, può contare su 38 mila euro al mese della Immobiliare popolare. Metà del denaro contante che sarà in grado di assicurare alla fondazione pisana l’Immobiliare Primavera coni suoi 4o immobili.
E non è finita qui. Ci sono ancora le regioni del Nord operaio nelle quali il Pci era radicalissimo, come la Liguria e il Piemonte. Senza considerare altre regioni «rosse» come le Mar- che e l’Umbria. A Temi è stata costituita, tanto per fare un caso, una fondazione intitolata a Pietro Conti, primo presidente della Regione Umbria e parlamentare comunista per un decennio. Lì dentro sono custoditi 112 immobili.
E dopo aver tanto faticato per mettere il patrimonio diessino al riparo dei rischi, poteva forse il tesoriere diessino Ugo Sposetti, ex sindaco di Viterbo, artefice del risanamento del bilancio della Quercia, rinunciare a salvare gli immobili del Viterbese? Certamente no. Così il 3 agosto del 2007 anche lì è nata una fondazione-chiavistello. Affidata alle cure di un fedelissimo di Sposetti, il tesoriere locale dei ds Ermanno Barbieri, è stata intitolata a Gualtiero Sarti, l’ex vicepresidente comunista del consiglio regionale del Lazio scomparso in un incidente stradale mentre tornava a casa da una riunione di partito.
Paese che vai, patrono che trovi. Ed ecco che la fondazione destinata a blindare il patrimonio immobiliare della Sardegna si chiama «Enrico Berlinguer». Chissà se il segretario della «diversità comunista» l’avrebbe mai immaginato...
• dal Corriere della Sera del 19 gennaio 2009, pag. 11
di s.riz., g.a.s.
domenica 4 gennaio 2009
!!! Finanziamento pubblico, ecco dov'è il trucco !!!
Dagli archivi del Partito Radicale ho scovato questa chicca: una lettera della fu On. Nilde Jotti, nella sua qualità di Presidente della Camera dei Deputati italiani, che risponde a due parlamentari radicali.(Testo n. 4801)
Di Iotti Nilde - 8 ottobre 1982
Finanziamento pubblico - Modello di bilancio
Roma, 8 ottobre 1982
On. Emma Bonino
Presidente del Gruppo
Parlamentare Radicale
S E D E
Onorevole collega,
in relazione alla lettera in data 3 settembre 1982, - firmata anche dal Tesoriere del Partito Radicale, Onorevole Crivellini, - con la quale vengono sollevati alcuni rilievi in ordine al modello per la redazione dei bilanci finanziari consuntivi dei partiti politici, approvato con decreto del Presidente della Camera dei Deputati, di intesa con il Presidente del Senato della Repubblica, e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 212 del 4 agosto
Il modello di bilancio è stato elaborato sulla base di quanto disposto dalla legge 18 novembre 1981, numero 659 recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 2 maggio 1974, n. 195, sul contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici”, che, all’articolo 4, settimo comma, stabilisce che “i segretari politici dei partiti che hanno usufruito del contributo statale sono tenuti a pubblicare, entro il 31 gennaio di ogni anno, sul giornale ufficiale del partito e su un quotidiano a diffusione nazionale, il bilancio finanziario consuntivo del partito, approvato dall’organo di partito competente e redatto secondo modello approvato dal Presidente della Camera dei Deputati di intesa con il Presidente del Senato della Repubblica”.
Nella redazione del predetto modello di bilancio, pertanto, non è stata prevista la compilazione della situazione patrimoniale (che pure era stata contemplata nel “modello” allegato al progetto di legge approvato in prima lettura dal Senato), in quanto non espressamente prescritta dalla legge, la quale parla unicamente di bilancio finanziario consuntivo, riferendosi evidentemente al solo rendiconto finanziario e non anche al rendiconto patrimoniale.
La stessa legge prevede, peraltro, l’obbligo di allegare al bilancio una relazione, nella quale debbono essere illustrate, analiticamente, “le proprietà immobiliari, le partecipazioni del partito a società commerciali, la titolarità di imprese e i redditi comunque derivanti da attività economiche…”. L’ampio e articolato contenuto della relazione rappresenta un significativo miglioramento rispetto all’articolo 8 della legge 2 maggio 1974, n. 195, che menzionava genericamente la relazione allegata al bilancio, senza, tuttavia disciplinarne il contenuto, sicché i partiti, in concreto, predisponevano relazioni contenenti considerazioni generali di carattere politico.
La legge, inoltre, - innovando rispetto alla precedente normativa - stabilisce (articolo 4, terz’ultimo comma) che il controllo che il Presidente della Camera è chiamato ad esercitare, di intesa con il Presidente del Senato della Repubblica, sulla regolarità della redazione del bilancio si estende anche alle relazioni e che il Comitato tecnico dei revisori ufficiali dei conti chiamato a collaborare con il Presidente della Camera, è dalla legge autorizzato a chiedere ai responsabili amministrativi dei partiti “chiarimenti, nonché la esibizione dei libri, delle scritture e dei documenti…”
Desidero ancora aggiungere alcune considerazioni che, al di là della lettera della legge, hanno suggerito di non aggiungere al rendiconto finanziario anche la situazione patrimoniale.
Dato l’obbligo di compilazione di una relazione illustrativa, da allegare al bilancio, nella quale devono essere fornite notizie analitiche e dettagliate sui beni di proprietà dei partiti (proprietà immobiliari, partecipazioni a società commerciali, ecc.) queste notizie possono surrogare quelle risultanti da una esposizione patrimoniale.
Poiché la legge n. 659 del 1981 non prevede la compilazione di un rendiconto economico, ma solo di un rendiconto di entrate e spese finanziarie, il collegamento del rendiconto finanziario con la situazione patrimoniale diviene particolarmente disagevole e la pubblicazione congiunta dei due documenti potrebbe disorientare i lettori dei bilanci dei partiti.
Per la compilazione della situazione patrimoniale inoltre è indispensabile stabilire quali debbano essere i criteri con cui valutare le attività e le passività patrimoniali, criteri che la legge n. 659 del 1981 non precisa, ed anzi ignora completamente. Né possono ritenersi applicabili per analogia, i criteri valevoli per i bilanci delle società per azioni, che sono informati a scopi ed esigenze diverse. D’altronde, se si ammettesse che ciascun partito potesse adottare i criteri, di valutazione ritenuti più opportuni, si verificherebbe una situazione di grave confusione che renderebbe praticamente nullo il valore informativo del rendiconto patrimoniale e precluderebbe la possibilità di effettuare utili comparazioni fra i bilanci dei vari partiti.
Poco significativi, anzi fuorvianti, per la opinione pubblica, sono i valori delle attività e passività e la cifra del netto patrimoniale, che i lettori dei bilanci più sprovveduti tenderebbero a identificare con la “potenzialità economica” dei partiti. In qualche caso, poi, si avrebbe un deficit patrimoniale anziché un patrimonio netto (per il prevalere delle passività sulle attività), che potrebbe mettere in imbarazzo alcuni partiti nei confronti dell’opinione pubblica.
Mi auguro di aver chiarito, con le considerazioni che precedono, le ragioni che hanno ispirato l’adozione, di intesa con il Presidente del Senato della Repubblica, del modello per la redazione dei bilanci dei partiti politici, quale risulta pubblicato nella richiamata Gazzetta Ufficiale n. 212.
Resta comunque inteso che tale modello potrà essere in futuro eventualmente modificato ed integrato attraverso tutti quei miglioramenti che l’esperienza dimostrasse necessari.
Ricambio distinti saluti
Nilde Iotti