mercoledì 16 dicembre 2009

Finalmente un pensiero chiaro su Marco Travaglio

Riporto senza alcun commento personale, perchè condivido totalmente,  quanto scrittto da Antonio Polito in Prima Pagina su il Rifomista del 15 dicembre 2009:

Perché non vado ad Annozero
di Antonio Polito



Ieri ho ricevuto il cortese invito della redazione di Annozero a partecipare alla puntata di domani dedicata ai fatti di Milano. Ho altrettanto gentilmente risposto di no. E la ragione è una sola: la presenza in quel programma di Marco Travaglio. Penso infatti sia giunta l'ora in cui anche chi di noi non ha fatto del moralismo una professione debba cominciare a sollevare qualche pregiudiziale morale. E io ne ho molte nei confronti di Travaglio.

La prima è che si tratta di un sedicente combattente per la libertà di infomazione che sta facendo una campagna di stampa il cui obiettivo dichiarato è la chiusura di un giornale, quello che dirigo (lui pensa che sia possibile, abrogando solo per noi i contributi all'editoria). Trovo la cosa moralmente ributtante.
Del resto Travaglio è lo stesso cattivo maestro che, citando un suo sodale, ha scritto l'altro giorno sul blog di Grillo un elogio dell'odio: «Chi l'ha detto che non posso odiare un uomo politico? Chi l'ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto?». Con uno così non vorrei mai trovarmi nella stessa stanza.

Tutto ciò sempre ammesso che Travaglio sia davvero e ancora un giornalista, visto che si esercita ormai apertamente nella fiction, recitando da attore testi le cui fonti le sa solo lui, ma ciò nonostante la tv pubblica lo paga sempre come giornalista. Evitare ogni contatto è dunque anche questione di deontologia professionale. In più c'è un problema di civiltà; lui non è una persona civile, vive di insulti, come quello che ha rivolto ieri ai giornalisti di Speciale Tg1: «Chiunque ha avuto lo stomaco di vedere quella merda di trasmissione...».

Io non credo, come ha detto ieri Cicchitto a Montecitorio, che Travaglio sia un «terrorista mediatico», perché paura non ne fa a nessuno. Ma un parassita mediatico certamente lo è. E, per dirla con Togliatti, sarebbe bene che nessun destriero offrisse più a questa cimice ospitalità nella sua criniera.

mercoledì 9 dicembre 2009

Povero Fini parli di meno e studi di più

Riporto integralmente quanto scritto da Giampaolo Pansa in Prima Pagina de il Riformista del 7/12/2009.



Nel marzo 2009, in occasione della nascita del Popolo della libertà, il Riformista mi chiese due ampi ritratti di Silvio Berlusconi e di Gianfranco Fini. Cominciai da Fini e il mio articolo uscì il 20 marzo. Raccontavo il percorso del leader di Alleanza nazionale e il suo tentativo di staccarsi dal passato fascista.
L’avevo seguito sin dall’inizio. Assistendo incuriosito alle svolte che, ormai, si susseguivano una dopo l’altra. La più clamorosa era emersa il 13 settembre 2008. Fini andò a un convegno dei giovani di An e spiegò che la destra doveva diventare antifascista. E assumere come propri i valori-guida dell’antifascismo: libertà, uguaglianza e solidarietà sociale.

Era un sabato e stavo a Revere, un comune del Mantovano, per presentare il mio ultimo libro sulla guerra civile. Avevo di fronte un pubblico foltissimo, dove gli elettori di An erano tanti. Quando si conobbero le parole di Fini, ci furono reazioni di stupore infuriato. Anche condite di insulti.

Nell’articolo per il Riformista ricordai quel che avevo ascoltato a Revere. E qualche giorno dopo, Fini mi telefonò. La sua chiamata mi sorprese. Non ci eravamo mai sentiti né parlati. Neppure quando avevo scritto “Il Sangue dei vinti”, un libro sui fascisti come lui uccisi dai partigiani dopo il 25 aprile.

Fini mi ringraziò per l’articolo. E allora gli dissi: «Ho seguito il suo viaggio revisionista sul fascismo. Ma non riesco a intuire la direzione nella quale sta andando». La replica di Fini mi lasciò secco: «Non lo so nemmeno io!».

Qualche giorno fa mi sono rammentato della risposta di Fini. Nel leggere sul Corriere della sera di giovedì 3 dicembre un bell’articolo di Francesco Verderami, scritto dopo il fuori onda del presidente della Camera a Pescara. Verderami ricordava il caso di Fausto Bertinotti che, quando ricopriva lo stesso incarico di Fini, era entrato in conflitto con Romano Prodi, il premier della sua coalizione.

Pur senza citare né Fini né Berlusconi, Bertinotti aveva detto al collega del Corriere: «Sono situazioni che non giovano a nessuno, ma sono per certi versi inevitabili. A un certo punto si avverte la consapevolezza che il terreno sul quale ci si è mossi si sta esaurendo. E si va alla ricerca di un nuovo equilibrio. In questi casi non necessariamente si segue una rotta. La rotta può anche non esserci». L’articolo si chiudeva così: «Infatti Fini dice: “Si naviga a vista”».

È proprio quanto mi aveva confessato Fini a marzo. Il «non so dove sto andando» equivale al navigare a vista, senza una rotta precisa. Mi sembra che sia proprio questo il problema numero uno di Fini, ma pure il suo lato debole. In tanti pensiamo che voglia costruire una destra diversa da quella di Silvio Berlusconi. Anche se il Cavaliere non si sente di destra, ma di centro. Sta nel Partito popolare europeo e lì intende rimanere.

Fini, invece, dove pensa di andare? Vuole sostituire Berlusconi? Troppo semplice e, insieme, troppo difficile. Lo vedo come un leader politico che stia procedendo nel buio. A tentoni. Con scatti improvvisi. E con una raffica di esternazioni. È un percorso che gli regala molti titoli sui giornali. Ma sconcerta i suoi elettori. Che cominciano a rifiutarlo.

È un buon metodo il navigare a vista, nel buio? Credo di no. Mi fa pensare a un tizio che inizi a scrivere un libro senza sapere dove andrà a parare, senza uno schema che lo guidi, senza conoscere il finale del racconto. Non si lavora alla cieca. Si rischia troppo. Con il risultato di apparire un autore mediocre, senza qualità.

Fini mi sembra messo così. Il pericolo che corre è evidente: diventare un’occasione mancata per la destra italiana. E risultare un politico privo delle qualità indispensabili a un leader. È questo il ritratto che ha offerto di se stesso nel fantozziano fuori onda di Pescara. Il suo staff ha cercato sminuirne l’importanza e l’ha giudicato un pretesto qualunque per attaccare Fini. Purtroppo per lui, e per chi lo assiste, la faccenda non è per niente banale.

Quel video ci rivela molti aspetti del politico Fini. E nessuno è positivo. Infatti che cosa ci suggerisce la gaffe di Pescara? Prima di tutto che Fini è imprudente, parla a ruota libera con un signore che non ha mai visto e che, per di più, è un magistrato. Poi che le sue esternazioni hanno il timbro della pochezza, sembrano i rimasugli dei fondi di Repubblica. Poi ancora che la sua vanità è al massimo: l’atteggiamento di Fini in quel video è tronfio, si compiace di se stesso e di quanto dice. Infine ci conferma che, dopo tanti anni di professione, il presidente della Camera non ha ancora imparato che anche per un politico il silenzio è d’oro.

Gli spin doctor di Fini dovrebbero consigliargli di tenere la bocca chiusa e di aprirla soltanto nelle occasioni cruciali. Altrimenti si rischia di spacciare banalità sovrane. La Repubblica del 1 dicembre, non smentita, ha stampato la seguente dichiarazione di Fini: «Vorrei che il Pdl fosse come la Dc della Prima Repubblica, della quale rimpiango l’ampio dibattito».

È una battuta sbalorditiva per un leader che vuole guardare al futuro. E che sul motto “Fare futuro” ha costruito una fondazione e un libro. Ma è anche la prova della scarsa cultura storica dell’ex leader di Alleanza nazionale. Lui non sa, o non ricorda, che proprio “l’ampio dibattito” generò nella Balena Bianca il sistema tragico del correntismo.

Insomma, caro Fini, parli di meno e studi di più. E rammenti che le occasioni mancate diventano presto occasioni perdute. Da buttare.

sabato 5 dicembre 2009

Intervista a Stefano Livadiotti de l'Espresso.

Stefano Livadiotti ha scritto un bel libro che mette in luce le pecche della magistratura italica di cui ho già scritto. Adesso, a distanza di quasi un anno dall'uscita del suo libro,  viene intervistato da un collega sempre sullo stesso tema,  la magistratura italiana, la vera supercasta degli intoccabili e impuniti.



«Ma oggi nessuno in Italia sta messo meglio di loro» di Alessandro Da Rold

«Se dopo un anno di lavoro sono riusciti ad arrivare a questi risultati, le tesi del mio libro sono ancora più valide».
Parla Stefano Livadiotti, giornalista dell’Espresso, autore di Magistrati, l’ultracasta, dopo aver letto il dossier del Cepei.

Incominciamo dagli stipendi.
Nel dossier c’è scritto che sono in linea con quelli europei, talvolta anche più bassi.

Una sentenza della Corte dei Conti ha stabilito che in Italia tra il 2001 e il 2005 il monte degli stipendi nel pubblico impiego sia aumentato del 12,1 per cento. La spesa complessiva per la magistratura ha fatto un salto del 26,2 per cento: più del doppio.
Eppure i magistrati a inizio carriera guadagnano poco. Solo quando arrivano all’ultima valutazione conquistano uno stipendio di circa nove mila euro.
Sì certo, probabilmente a inizio carriera incasseranno meno rispetto ai colleghi europei. Ma poi, passati i 28 anni di anzianità, possono ottenere la promozione a giudice della Cassazione. Deve esserci una valutazione per questo, ma questo accade praticamente per tutti, perché circa il 99,6 per cento viene promosso. Non solo, alla categoria è consentito andare in pensione a 75 anni.
Insomma consiglieresti la carriera in magistratura…
E’ come se tra noi giornalisti, con una certa anzianità, diventassimo tutti direttori di giornale. Dopo aver letto questi dati me lo sono anche detto tra me e me: avrei dovuto fare il magistrato.
La magistratura lamenta la mancanza di benefit o premi.
Altra bugia. Basta andare sul sito del Csm e controllare quanti nel 2007 hanno chiesto il permesso per insegnare: ci sono almeno 2.350 domane. Quindi non è vero che non possono ricevere altri introiti.
E rispetto alla mole di lavoro?
Quando Brunetta propose la riforma dei tornelli per i fannulloni, mi documentai sulla situazione dei magistrati. Ebbene c’è una sentenza della sezione disciplinare del Csm del 2005, che stabilisce come da un magistrato ci si aspetti una media di sei ore al giorno di lavoro per 260 giorni. Sono in totale 1.560 ore. Perché, ricordiamolo, questa categoria ha 51 giorni di ferie.
Quindi quanto lavora una toga italiana?
Io ho diviso 1.560 per 365. Il risultato è: 4,2 ore quotidiane. Tieni presente che secondo l’Ocse la media di lavoro in Europa è di circa 1.750 ore l’anno.
E quanto ci costa?
Nel 2006 il budget italiano per i tribunali era pari a 4 miliardi 88 milioni, 109 mila 198 euro. In Francia e Spagna, paesi che possono essere paragonati all’Italia, l’investimento è di 3 miliardi 350 milioni o 2 miliardi 983 milioni. In sostanza, impieghiamo lo 0,26 per cento del Pil per la giustizia, mentre la Francia è ferma allo 0,19.
La spesa pro capite?
Ogni italiano si ritrova a sborsare 23 euro per un pm, mentre un francese è fermo a 11: meno della metà.
La cancelleria, però, è carente in Italia…
Si calcola che ogni magistrato italiano abbia in media circa quattro cancellieri a disposizione, contro i due della Francia.
L’Anm parla di un numero elevatissimo di procedimenti disciplinari. Si discute di un 10 per cento su una data imprecisa.
E’ un dato che avranno ricavato
da un’analisi su un arco di 10 anni. Secondo il Csm, nel 2007 ci sono stati 149 procedimenti, di cui 103 sono stati scartati. Circa il 93 per cento.
E poi?
Altri dati ci dicono che tra il ’99 e il 2006 ci sono stati 1.004 procedimenti disciplinari, di questi l’80,99 per cento non ha ricevuto approvazione. Dei restanti, ci sono state 126 ammonizioni e solo 2 rimozioni. Vuol dire che non solo la maggior parte dei procedimenti è subito scartata, ma quella che viene giudicata non è neppure sanzionata.