mercoledì 22 aprile 2009

Sempre in tema dei Diritti Civili e Umani.

Se non ci si vuole credere ecco l'ennesima prova che la "democrazia" per certi popoli e cosa ancora sconosciuta, come lo è certamente in Afganistan di cui ho già scritto nel post precedente.
Vi basta leggere questo resoconto giornalistico.

La passerella degli ipocriti: Cuba e Libia insegnano i diritti umani

• da Il Giornale del 21 aprile 2009, pag. 4

di Fausto Biloslavo

L’ambasciatrice libica che toglie la parola alla vittima delle torture o il rappresentante cubano che a suo tempo si era rifiutato di condannare Saddam quando «gasava» i curdi. Per non parlare dei sudanesi che lavorano dietro le quinte contro i tribunali delle stesse Nazioni Unite e il presidente di un’organizzazione non governativa palestinese accusato di collegamento con i terroristi. Durban II è un festival di gaffe, ipocrisie e personaggi impresentabili. Una conferenza dominata da paesi che fanno a pugni con i principi di libertà e diritti umani.

Najjat al Hajjaji è la belloccia ambasciatrice libica, con un filo di trucco e senza velo, che presiede il Comitato preparatorio del vertice sul razzismo. Venerdì scorso, mentre si rappezzava all’ultimo minuto la bozza del testo finale della conferenza, ha superato se stessa. Durante le testimonianze di violazioni dei diritti umani ha preso la parola il medico palestinese Ashraf Ahmed El-Hojouj. Il poveretto era stato torturato, condannato a morte e sbattuto in una galera libica per anni assieme a cinque infermiere libiche con l’infondata accusa di aver infettato dei bimbi con l’Aids. I malcapitati erano il capro espiatorio che copriva le mancanze della sanità locale. Dopo anni sono stati liberati in cambio dell’intervento, anche finanziario, europeo. Lo stesso figlio del colonnello Gheddafi aveva fatto capire che erano innocenti. L’ambasciatrice al Hajjaji, invece, ha subito provato a togliere la parola alla povera vittima. Il poveretto seviziato dagli sgherri libici ha cercato ogni volta di riprendere il discorso. Alla terza interruzione e con l’accusa di «uscire dal tema» (i diritti umani) l’ambasciatrice ha passato la parola nientemeno che al delegato libico censurando la denuncia.

Presidente del Consiglio per i diritti umani, uno delle costole dell’Onu, che di più si è battuta per Durban II, è invece dallo scorso anno il cubano Miguel Alfonso Martinez. Un campione dei diritti umani: fin dal 1988 era riuscito a boicottare una mozione di condanna contro Saddam Hussein che aveva appena sterminato col gas 5mila curdi a Halabja. Non a caso soprattutto i rappresentanti cubani si sono battuti per limare il più possibile i riferimenti nel testo finale all’inalienabile «libertà di espressione e opinione». La Siria ha invece spalleggiato l’Iran che voleva togliere del tutto la condanna dello sterminio degli ebrei. Il delegato di Damasco ha fatto presente che «non è chiaro quale sia l’esatto numero di ebrei uccisi nell'Olocausto».

Un ruolo discreto, ma altrettanto sporco, lo ha giocato il Sudan. Omar al Bashir, presidente del Paese, è rincorso da un mandato di cattura internazionale della Corte penale, istituita dall’Onu, per i crimini di guerra in Darfur. Nonostante l’imbarazzante situazione è un ministro sudanese, Abdalmahmood Abdalhaleem Mohamad, che presiede da gennaio il potente Gruppo 77. Si tratta di un cartello di paesi del sud del mondo, che influenza pesantemente l’assemblea dell’Onu. I sudanesi sono riusciti a far cancellare il nome della Corte penale sulla bozza della Conferenza di Ginevra. Alla fine è rimasto solo un riferimento generico ai tribunali internazionali. Non basta. Le iscrizioni alla Conferenza delle organizzazioni non governative ebraiche casi sono state in qualche caso respinte. La palestinese Al Haq, invece, non ha avuto problemi. Peccato che il suo capoccia, Shawan Jabarin, sia sulla lista nera degli israeliani come “veterano” del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, considerata da molti un’organizzazione terroristica.

Diritti Umani: cosa sono?

La comunità internazionale si sta prodigando con uomini e mezzi, con l'aggravio della perdita di vite umane per attentati e sabotaggi, per tentare di portare la "democrazia" in Afganistan.
Da quanto apprendiamo dai media ritengo sia uno sforzo inutile....basta leggere, fra i tanti, il seguente articolo de Il Riformista!

I talebani e il corpo delle donne

• da Il Riformista del 21 aprile 2009, pag. 1

di Ritanna Armeni

Le donne afghane sono scese in piazza qualche giorno fa per protestare contro una legge firmata di recente dal presidente Karzai che ammetteva lo stupro domestico, cioè la violenza perpetrata dai mariti sulle mogli. Non credono, evidentemente, alla notizia che lo stesso Karzai, pressato dalle proteste dei alleati, ci avrebbe ripensato. Probabilmente hanno ragione. La legge era stata fatta per ottenere alle prossime elezioni presidenziali il voto degli sciiti ed era stata ben accolta anche dai talebani. Se vuol essere rieletto il presidente afghano non può non cedere alle loro richieste e accettare le loro violenze e le loro prevaricazioni. La cronaca è ormai piena di donne uccise perché hanno tentato di ribellarsi al dominio maschile e familiare o perché volevano andare a scuola. Ed è solo di ieri la notizia che i talebani hanno ammazzato in Pakistan, al confine con l`Afghanistan, un uomo e una donna colpevoli di avere una relazione fuori dal matrimonio. E poi hanno mandato il video a una televisione. Ma non sono i singoli, seppur frequenti, episodi a destare la maggiore preoccupazione. Questi potrebbero essere i colpi di coda di forze che si stanno arrendendo alla democrazia o la reazione di piccoli gruppi che non vogliono accettare le nuove regole. Quello che davvero preoccupa è la evidente ripresa delle forze fondamentaliste e le conseguenti decisioni dei capi di Stato. Quella di Karzai, appunto, ma anche quella, recente, del presidente del Pakistan. AzifAli Zardari, marito di Benazir Bhutto (prima donna premier di un Paese islamico) e successore di quel Musharaf accusato di aver mostrato un atteggiamento ambiguo nei confronti dei talebani pur mostrandosi amico degli Usa, ha promulgato un regolamento che reintroduce la sharia nella parte nord ovest del Pakistan. Asianews, uno dei pochi siti che informano in dettaglio sull`avvenimento, raccontava già un mese fa che la legge islamica era stata ripristinata nelle regioni che confinano con l`Afghanistan e che le corti islamiche avevano preso in mano l`amministrazione della giustizia nella Swat Valley. «Con l`entrata in vigore della sharia nel distretto di Malakand - scriveva Asianews le donne non possono più muoversi da sole, parlare in pubblico e il velo diventa obbligatorio. Le scuole femminili, per lo più legate ai missionari, ma frequentate al 95 per cento da ragazze musulmane, rischiano la chiusura definitiva dopo gli attentati esplosivi negli ultimi mesi che, pur non causando vittime, hanno reso impossibile a circa mille studentesse di frequentare le lezioni». Il governo pakistano, insomma, ha preso atto e ha approvato una situazione che era già in mano ai fondamentalisti promulgando un regolamento che accetta lo stato di fatto. In cambio questi hanno promesso di deporre le armi. Probabilmente non sarà vero. La legge islamica invece - ha informato Asianews - c`è già. E - ricordiamolo - la legge islamica, secondo i fondamentalisti, significa che le donne saranno costrette al matrimonio anche se ancora bambine, alla pena di morte o al carcere se vengono stuprate, alla lapidazione se hanno rapporti fuori dal matrimonio. Per due volte in pochi giorni le donne sono state oggetto di uno scambio politico. Per due volte due uomini, capi di Stato, hanno barattato voti e accordi in cambio di controllo e violenza da parte degli uomini sul corpo femminile. E questo porta a tre (amare) considerazioni. La prima. Il corpo delle donne è la vera posta in gioco nella lotta contro i talebani, gli sciiti e il fondamentalismo. Adriano Sofri, già alcuni anni fa, aveva notato come questo, e non il petrolio, fosse il centro dello scontro fra l`islam e l`occidente. Gli islamici, gli islamici poveri e senza potere, aveva scritto, quelli che non avevano da perdere che le loro catene, potevano però - se avesse vinto l`occidente infedele - perdere le loro donne, la loro proprietà, l`unica di cui potevano disporre. E questo li rendeva particolarmente efferati e subalterni al terrorismo. Oggi proprio per rassicurarli e per combattere il terrorismo - questo l`orribile paradosso al quale stiamo assistendo con indifferenza - non si ha alcun dubbio a consegnare loro il dominio sulle donne. E a confermare che su di loro gli uomini mantengono il diritto di vita e di morte. La seconda. I talebani, e con loro le forze tribali di quell`area del mondo che ha un rapporto conflittuale con l`occidente, hanno guadagnato terreno. Anzi stanno vincendo. La guerra in Afghanistan è stata persa sul piano militare e, prima ancora, sul piano della democrazia e dei diritti. Non se ne vuole prendere atto, ma che cosa significano le due leggi promulgate dal presidente pakistano e da quello afgano se non la presa d`atto che la guerra, la guerra delle armi è stata persa? È per questo che si accetta esattamente ciò per cui quella guerra era stata combattuta e a cui la lotta per la democrazia dovrebbe tenacemente opporsi: la schiavitù della popolazione femminile. La terza. Di fronte all`evidente orribile scambio che avviene in quei Paesi alleati i Paesi occidentali protestano, ma in modo assai poco convinto. Naturalmente condannano la decisione di Zardari, criticano Karzai ma in fin dei conti non ritengono di poter fare molto. Sembrano pensarla al fondo come Spencer P. Boyer, capo dello staff del presidente Clinton e oggi direttore della sezione diplomazia del Center for American progress, il pensatoio democratico americano che, in una intervista al Riformista sulla reintroduzione della sharia in Afghanistan ha risposto: «Nessun Paese è perfetto». La condizione di totale subordinazione e schiavitù delle donne di quei Paesi è considerata da un esponente della democrazia occidentale solo “un’imperfezione”, qualcosa di non perfettamente giusto, ma non di talmente insopportabile da mettere in discussione le scelte politiche e militari finora compiute. E questo certamente non aiuta le donne di quei Paesi e manda un inquietante messaggio anche alle donne dell`occidente che dice di essere democratico.

martedì 21 aprile 2009

Nessuno vuole mangiare con Di Pietro.

Ieri 20 aprile, sul Giornale, quello fondato da Montanelli, ho trovato questo interessante articolo in prima pagina. Buona lettura anche a voi,  perchè è molto istruttivo sul personaggio descritto: l'ex poliziotto ed ex pm Di Pietro, adesso "politico" di professione ma con i nostri soldi.

Nessuno vuole Tonino a tavola, ecco perchè.
di Filippo Facci




Guardate che non c’è mica tanto da ridere: Di Pietro che dice «Alla Camera nessuno vuol pranzare con me» è una nota drammatica, non comica. Certo, è il suo modo di ribaltare ogni realtà a suo favore, e difatti la frase completa che ha pronunciato all’apertura della campagna elettorale è stata questa: «Alle Europee avremo successo, si vede dalla rabbia che abbiamo contro. A pranzo in Parlamento non trovo nessuno che si sieda a tavola con me». Ma voi non sapete che dramma c’è dietro questa frase: e non solo per un particolare di cui sono a conoscenza i cronisti parlamentari, e cioè che neanche i suoi compagni di Partito spesso vogliono pranzare con lui. Il problema è più antico e va oltre la storica incapacità di amicizia dell’ex contadino «imparato» a diffidare di tutto e di tutti, e va addirittura oltre il fatto notorio e politico che la lealtà, Di Pietro, non sappia neppure che cosa sia. Ma non è una questione di conoscere la biografia del personaggio, non è necessario conoscere il solito elenco di quelli che presto o tardi l’hanno abbandonato: da Pietro Mennea all’ex fidatissimo Elio Veltri, dal deputato Valerio Carrara ai vari Rino Piscitello, Federico Orlando, Milly Moratti, Sergio De Gregorio, persino Paolo Flores d’Arcais: «Gente che ha capito il personaggio e ha preso le distanze» ebbe a commentare Veltri. E non abbiamo neppure menzionato Walter Veltroni e perché no, Massimo D’Alema, colpevole della malsana idea di candidarlo nel 1997 al Mugello. Con uno così al limite ci potresti pranzare lo stesso: anzi, certe simpatiche carogne sono dei commensali molto meno noiosi di certe anime belle e narcotiche. Il problema è che a 59 anni suonati, i suoi, una certa sua aura, una certa sua brezza inferiore, ormai ti soffia in faccia direttamente. La si sente. È l’aura fatalmente negativa di chi ha fondato una carriera sulla galera altrui e stringi stringi la alimenta con la promessa di dispensarne ancora. La sua storia è quella che è, l’avventura di una spugna che assorbe e non restituisce, quella del cane che morde la mano che l’ha nutrito, mors tua e valori suoi. Le psicoanalisi da due soldi valgono giusto due soldi, troppi per buttarli in retrospettive inutili. Di Pietro viene da una famiglia dove la capacità di autocontrollo della madre come pure del padre, che interiorizzavano ogni dolore se non altro per necessità, potrebbero sembrare essere buoni indizi del suo carattere decisamente anaffettivo: la madre, in particolare, di fronte alle durezze della vita sapeva essere glaciale ed è stato proprio suo figlio, in una biografia, ad attribuirle quel «prega i morti, frega i vivi» che è un motto da lui ereditato solo nella parte meno religiosa, pare: ma queste sono sciocchezze. Ciascuno è responsabile di sé, punto: dunque di una condotta dove non esista gratitudine, lealtà, coerenza, amicizia che non sia complicità di contingenza. Comportamenti, questi, utili in politica, ma squallidi nel privato. Forse un pizzico sgradevoli anche solo per un pranzo alla Camera. La storia di Di Pietro, umanamente, si sente, non c’è bisogno di conoscerla tutta. Definitiva pareva la vicenda della sua amicizia con Pasqualino Cianci, già raccontata su queste pagine poco tempo fa. Di Pietro, in vita sua, ebbe un solo amico del cuore con cui divise la giovinezza e anche i fasti di Mani pulite: e quando l’amico fu accusato d’aver ucciso la moglie, nel 2002, Di Pietro gli si presentò come suo avvocato e lo valorizzò pubblicamente come suo amico d’infanzia. Poi l’amico venne arrestato e Di Pietro passò ad accusarlo con gli stessi materiali raccolti per difenderlo, valorizzando come amica d’infanzia la moglie trucidata. Pasqualino Cianci è stato condannato a 21 anni in primo grado, e Di Pietro, si ricorderà, è stato sospeso per tre mesi dall’Ordine degli avvocati. Se non basta questa storia, vediamone un’altra. Più che una storia, un’immagine: è una cena natalizia che il 19 dicembre 1991 si tenne a Milano a casa di Antonio D’Adamo, altro ex grande amico di Antonio Di Pietro. C’è l'ex cassiere socialista Sergio Radaelli che beve champagne; c’è il sostituto procuratore Antonio Di Pietro, quella sera più estroverso del solito, con in mano un inutile librone regalatogli dall’architetto socialista Claudio Dini; c’è il sindaco di Milano Paolo Pillitteri che è in ritardo, ma quando arriva ecco Di Pietro alzarsi per primo e accoglierlo ancora col tovagliolo in mano. Più tardi Di Pietro è al telefono con l’ex questore Umberto Improta, suo amico e mentore. Più tardi ancora, infine, c’è Di Pietro che alza il calice per primo e inneggia «al migliore dei sindaci possibili». Ora: chiedete a Radaelli se immaginava che Di Pietro entro pochi mesi l’avrebbe messo in galera. Chiedete a Claudio Dini se immaginava che Di Pietro entro pochi mesi l’avrebbe messo in galera. Chiedete a Pillitteri se immaginava che pochi mesi dopo Di Pietro avrebbe chiesto anche il suo arresto. E se qualcuno obiettasse che Di Pietro fece soltanto il proprio dovere, senza distinguere tra amici o meno, noi non obietteremo nulla: però, ecco, questo qualcuno a pranzo con Di Pietro ci vada lui.

La scoperta dell'acqua calda!

Riporto l'articolo del direttore de il Giornale del 20 aprile senza alcun commento...


Guarda un po' la Rai è lottizzata
di Mario Giordano

Una mattina mi sono svegliato e ho trovato il lottizzator. Al grido di «giù le mani dalla Rai», la sinistra scopre all’improvviso che le nomine della Tv di Stato non avvengono per sorteggio e nemmeno col televoto come a Sanremo, ma c’è di mezzo la politica. Pensate un po’, chi l'avrebbe mai immaginato? O Bella Ciao. Come tante belle addormentate nel bosco del sottogoverno, le menti più illuminate dell’intellighentia chic si svegliano dal lungo sonno e fingono di essere colte da immacolati e infiniti stupori. In una riunione a casa di Berlusconi si è parlato perfino del Tg1: poffarbacco, che scandalo. Avanti di questo passo e chissà magari fra qualche anno scopriranno perfino che i bambini non li portano le cicogne. E che «avere una banca» non significa giocare al Monopoli.
Dal sermone domenicale di Scalfari all’intervista indignata di Sergio Zavoli (quello che ci ha messo cinque giorni per vedere la trasmissione di Santoro), dalla prima pagina del Corriere con la vignetta di Giannelli alla prima pagina dell’Unità (uguale alla vignetta di Giannelli: sarà un caso?), tutti a levare il solito grido di dolore, persino un po’ stagionato, contro le scelte dei direttori dei tg che si fanno nel salotto di Berlusconi. Perché è chiaro, come dice la Jena, sono finiti i bei tempi di una volta, quando quelle scelte si facevano solo nel salotto di Veltroni.
Siamo sempre stati in prima linea nel combattere le voracità della politica e la voglia di ogni sottopanza di intromettersi in scelte che dovrebbero seguire criteri rigorosamente professionali. E continueremo a farlo. Ma non possiamo fare a meno di provare un po’ di orticaria di fronte a tanta ipocrisia dei sepolcri malamente imbiancati: da una parte vogliono passare come i difensori della purezza della razza giornalistica, dall’altra trattano tutto, dal presidente Paolo Garimberti (non a caso indicato da Franceschini) fino all’ultima poltroncina al Gr Parlamento. Ma li sentite? Hanno appena finito di tuonare: fuori la politica dalla Rai, e chiedono di avere, per via politica, la direzione di Raitre. Fingono di scandalizzarsi perché Mimun o Minzolini (ottimi professionisti) hanno il gradimento di Berlusconi, poi aggiungono: però al Tg3 ci deve andare la Berlinguer perché piace a D’Alema... Se la coerenza fosse un vestito, sarebbero nudi. Se fosse cibo, sarebbero già morti di anoressia.
Del resto che la Rai sia stata occupata da sempre, in tutti i suoi anfratti più nascosti, dalla sinistra è cosa piuttosto risaputa. E evidente. Se se ne volesse un’ulteriore dimostrazione, basta guardare i volti noti: da Lamberto Sposini, già pippobaudo dell’Ulivo e ora re del pomeriggio di Raiuno, a David Sassoli, da anni anchorman di punta del Tg1 e così organico al Pd da esserne candidato simbolo per le prossime europee. E poi Santoro, Lilli Gruber, Marrazzo, Badaloni. Il bello è che molti di loro, appena finito l’incarico politico, tornano in onda, come se niente fosse. E ci danno pure lezioni di correttezza giornalistica. E poi si scandalizzano perché si parla di Rai in una riunione col premier. Ma per favore. Se volete, scendete dal pero e proviamo a parlare seriamente. Prima, però, spogliatevi da quella spocchia, toglietevi di dosso quell’aria di superiorità morale, liberatevi dalla presunzione di essere i migliori che vi accompagna da sempre e che vi ha inesorabilmente portato a essere i peggiori. Perché di tromboni è pieno il mondo. Ma nessuno è così facile da suonare come voi.