mercoledì 16 dicembre 2009

Finalmente un pensiero chiaro su Marco Travaglio

Riporto senza alcun commento personale, perchè condivido totalmente,  quanto scrittto da Antonio Polito in Prima Pagina su il Rifomista del 15 dicembre 2009:

Perché non vado ad Annozero
di Antonio Polito



Ieri ho ricevuto il cortese invito della redazione di Annozero a partecipare alla puntata di domani dedicata ai fatti di Milano. Ho altrettanto gentilmente risposto di no. E la ragione è una sola: la presenza in quel programma di Marco Travaglio. Penso infatti sia giunta l'ora in cui anche chi di noi non ha fatto del moralismo una professione debba cominciare a sollevare qualche pregiudiziale morale. E io ne ho molte nei confronti di Travaglio.

La prima è che si tratta di un sedicente combattente per la libertà di infomazione che sta facendo una campagna di stampa il cui obiettivo dichiarato è la chiusura di un giornale, quello che dirigo (lui pensa che sia possibile, abrogando solo per noi i contributi all'editoria). Trovo la cosa moralmente ributtante.
Del resto Travaglio è lo stesso cattivo maestro che, citando un suo sodale, ha scritto l'altro giorno sul blog di Grillo un elogio dell'odio: «Chi l'ha detto che non posso odiare un uomo politico? Chi l'ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto?». Con uno così non vorrei mai trovarmi nella stessa stanza.

Tutto ciò sempre ammesso che Travaglio sia davvero e ancora un giornalista, visto che si esercita ormai apertamente nella fiction, recitando da attore testi le cui fonti le sa solo lui, ma ciò nonostante la tv pubblica lo paga sempre come giornalista. Evitare ogni contatto è dunque anche questione di deontologia professionale. In più c'è un problema di civiltà; lui non è una persona civile, vive di insulti, come quello che ha rivolto ieri ai giornalisti di Speciale Tg1: «Chiunque ha avuto lo stomaco di vedere quella merda di trasmissione...».

Io non credo, come ha detto ieri Cicchitto a Montecitorio, che Travaglio sia un «terrorista mediatico», perché paura non ne fa a nessuno. Ma un parassita mediatico certamente lo è. E, per dirla con Togliatti, sarebbe bene che nessun destriero offrisse più a questa cimice ospitalità nella sua criniera.

mercoledì 9 dicembre 2009

Povero Fini parli di meno e studi di più

Riporto integralmente quanto scritto da Giampaolo Pansa in Prima Pagina de il Riformista del 7/12/2009.



Nel marzo 2009, in occasione della nascita del Popolo della libertà, il Riformista mi chiese due ampi ritratti di Silvio Berlusconi e di Gianfranco Fini. Cominciai da Fini e il mio articolo uscì il 20 marzo. Raccontavo il percorso del leader di Alleanza nazionale e il suo tentativo di staccarsi dal passato fascista.
L’avevo seguito sin dall’inizio. Assistendo incuriosito alle svolte che, ormai, si susseguivano una dopo l’altra. La più clamorosa era emersa il 13 settembre 2008. Fini andò a un convegno dei giovani di An e spiegò che la destra doveva diventare antifascista. E assumere come propri i valori-guida dell’antifascismo: libertà, uguaglianza e solidarietà sociale.

Era un sabato e stavo a Revere, un comune del Mantovano, per presentare il mio ultimo libro sulla guerra civile. Avevo di fronte un pubblico foltissimo, dove gli elettori di An erano tanti. Quando si conobbero le parole di Fini, ci furono reazioni di stupore infuriato. Anche condite di insulti.

Nell’articolo per il Riformista ricordai quel che avevo ascoltato a Revere. E qualche giorno dopo, Fini mi telefonò. La sua chiamata mi sorprese. Non ci eravamo mai sentiti né parlati. Neppure quando avevo scritto “Il Sangue dei vinti”, un libro sui fascisti come lui uccisi dai partigiani dopo il 25 aprile.

Fini mi ringraziò per l’articolo. E allora gli dissi: «Ho seguito il suo viaggio revisionista sul fascismo. Ma non riesco a intuire la direzione nella quale sta andando». La replica di Fini mi lasciò secco: «Non lo so nemmeno io!».

Qualche giorno fa mi sono rammentato della risposta di Fini. Nel leggere sul Corriere della sera di giovedì 3 dicembre un bell’articolo di Francesco Verderami, scritto dopo il fuori onda del presidente della Camera a Pescara. Verderami ricordava il caso di Fausto Bertinotti che, quando ricopriva lo stesso incarico di Fini, era entrato in conflitto con Romano Prodi, il premier della sua coalizione.

Pur senza citare né Fini né Berlusconi, Bertinotti aveva detto al collega del Corriere: «Sono situazioni che non giovano a nessuno, ma sono per certi versi inevitabili. A un certo punto si avverte la consapevolezza che il terreno sul quale ci si è mossi si sta esaurendo. E si va alla ricerca di un nuovo equilibrio. In questi casi non necessariamente si segue una rotta. La rotta può anche non esserci». L’articolo si chiudeva così: «Infatti Fini dice: “Si naviga a vista”».

È proprio quanto mi aveva confessato Fini a marzo. Il «non so dove sto andando» equivale al navigare a vista, senza una rotta precisa. Mi sembra che sia proprio questo il problema numero uno di Fini, ma pure il suo lato debole. In tanti pensiamo che voglia costruire una destra diversa da quella di Silvio Berlusconi. Anche se il Cavaliere non si sente di destra, ma di centro. Sta nel Partito popolare europeo e lì intende rimanere.

Fini, invece, dove pensa di andare? Vuole sostituire Berlusconi? Troppo semplice e, insieme, troppo difficile. Lo vedo come un leader politico che stia procedendo nel buio. A tentoni. Con scatti improvvisi. E con una raffica di esternazioni. È un percorso che gli regala molti titoli sui giornali. Ma sconcerta i suoi elettori. Che cominciano a rifiutarlo.

È un buon metodo il navigare a vista, nel buio? Credo di no. Mi fa pensare a un tizio che inizi a scrivere un libro senza sapere dove andrà a parare, senza uno schema che lo guidi, senza conoscere il finale del racconto. Non si lavora alla cieca. Si rischia troppo. Con il risultato di apparire un autore mediocre, senza qualità.

Fini mi sembra messo così. Il pericolo che corre è evidente: diventare un’occasione mancata per la destra italiana. E risultare un politico privo delle qualità indispensabili a un leader. È questo il ritratto che ha offerto di se stesso nel fantozziano fuori onda di Pescara. Il suo staff ha cercato sminuirne l’importanza e l’ha giudicato un pretesto qualunque per attaccare Fini. Purtroppo per lui, e per chi lo assiste, la faccenda non è per niente banale.

Quel video ci rivela molti aspetti del politico Fini. E nessuno è positivo. Infatti che cosa ci suggerisce la gaffe di Pescara? Prima di tutto che Fini è imprudente, parla a ruota libera con un signore che non ha mai visto e che, per di più, è un magistrato. Poi che le sue esternazioni hanno il timbro della pochezza, sembrano i rimasugli dei fondi di Repubblica. Poi ancora che la sua vanità è al massimo: l’atteggiamento di Fini in quel video è tronfio, si compiace di se stesso e di quanto dice. Infine ci conferma che, dopo tanti anni di professione, il presidente della Camera non ha ancora imparato che anche per un politico il silenzio è d’oro.

Gli spin doctor di Fini dovrebbero consigliargli di tenere la bocca chiusa e di aprirla soltanto nelle occasioni cruciali. Altrimenti si rischia di spacciare banalità sovrane. La Repubblica del 1 dicembre, non smentita, ha stampato la seguente dichiarazione di Fini: «Vorrei che il Pdl fosse come la Dc della Prima Repubblica, della quale rimpiango l’ampio dibattito».

È una battuta sbalorditiva per un leader che vuole guardare al futuro. E che sul motto “Fare futuro” ha costruito una fondazione e un libro. Ma è anche la prova della scarsa cultura storica dell’ex leader di Alleanza nazionale. Lui non sa, o non ricorda, che proprio “l’ampio dibattito” generò nella Balena Bianca il sistema tragico del correntismo.

Insomma, caro Fini, parli di meno e studi di più. E rammenti che le occasioni mancate diventano presto occasioni perdute. Da buttare.

sabato 5 dicembre 2009

Intervista a Stefano Livadiotti de l'Espresso.

Stefano Livadiotti ha scritto un bel libro che mette in luce le pecche della magistratura italica di cui ho già scritto. Adesso, a distanza di quasi un anno dall'uscita del suo libro,  viene intervistato da un collega sempre sullo stesso tema,  la magistratura italiana, la vera supercasta degli intoccabili e impuniti.



«Ma oggi nessuno in Italia sta messo meglio di loro» di Alessandro Da Rold

«Se dopo un anno di lavoro sono riusciti ad arrivare a questi risultati, le tesi del mio libro sono ancora più valide».
Parla Stefano Livadiotti, giornalista dell’Espresso, autore di Magistrati, l’ultracasta, dopo aver letto il dossier del Cepei.

Incominciamo dagli stipendi.
Nel dossier c’è scritto che sono in linea con quelli europei, talvolta anche più bassi.

Una sentenza della Corte dei Conti ha stabilito che in Italia tra il 2001 e il 2005 il monte degli stipendi nel pubblico impiego sia aumentato del 12,1 per cento. La spesa complessiva per la magistratura ha fatto un salto del 26,2 per cento: più del doppio.
Eppure i magistrati a inizio carriera guadagnano poco. Solo quando arrivano all’ultima valutazione conquistano uno stipendio di circa nove mila euro.
Sì certo, probabilmente a inizio carriera incasseranno meno rispetto ai colleghi europei. Ma poi, passati i 28 anni di anzianità, possono ottenere la promozione a giudice della Cassazione. Deve esserci una valutazione per questo, ma questo accade praticamente per tutti, perché circa il 99,6 per cento viene promosso. Non solo, alla categoria è consentito andare in pensione a 75 anni.
Insomma consiglieresti la carriera in magistratura…
E’ come se tra noi giornalisti, con una certa anzianità, diventassimo tutti direttori di giornale. Dopo aver letto questi dati me lo sono anche detto tra me e me: avrei dovuto fare il magistrato.
La magistratura lamenta la mancanza di benefit o premi.
Altra bugia. Basta andare sul sito del Csm e controllare quanti nel 2007 hanno chiesto il permesso per insegnare: ci sono almeno 2.350 domane. Quindi non è vero che non possono ricevere altri introiti.
E rispetto alla mole di lavoro?
Quando Brunetta propose la riforma dei tornelli per i fannulloni, mi documentai sulla situazione dei magistrati. Ebbene c’è una sentenza della sezione disciplinare del Csm del 2005, che stabilisce come da un magistrato ci si aspetti una media di sei ore al giorno di lavoro per 260 giorni. Sono in totale 1.560 ore. Perché, ricordiamolo, questa categoria ha 51 giorni di ferie.
Quindi quanto lavora una toga italiana?
Io ho diviso 1.560 per 365. Il risultato è: 4,2 ore quotidiane. Tieni presente che secondo l’Ocse la media di lavoro in Europa è di circa 1.750 ore l’anno.
E quanto ci costa?
Nel 2006 il budget italiano per i tribunali era pari a 4 miliardi 88 milioni, 109 mila 198 euro. In Francia e Spagna, paesi che possono essere paragonati all’Italia, l’investimento è di 3 miliardi 350 milioni o 2 miliardi 983 milioni. In sostanza, impieghiamo lo 0,26 per cento del Pil per la giustizia, mentre la Francia è ferma allo 0,19.
La spesa pro capite?
Ogni italiano si ritrova a sborsare 23 euro per un pm, mentre un francese è fermo a 11: meno della metà.
La cancelleria, però, è carente in Italia…
Si calcola che ogni magistrato italiano abbia in media circa quattro cancellieri a disposizione, contro i due della Francia.
L’Anm parla di un numero elevatissimo di procedimenti disciplinari. Si discute di un 10 per cento su una data imprecisa.
E’ un dato che avranno ricavato
da un’analisi su un arco di 10 anni. Secondo il Csm, nel 2007 ci sono stati 149 procedimenti, di cui 103 sono stati scartati. Circa il 93 per cento.
E poi?
Altri dati ci dicono che tra il ’99 e il 2006 ci sono stati 1.004 procedimenti disciplinari, di questi l’80,99 per cento non ha ricevuto approvazione. Dei restanti, ci sono state 126 ammonizioni e solo 2 rimozioni. Vuol dire che non solo la maggior parte dei procedimenti è subito scartata, ma quella che viene giudicata non è neppure sanzionata.

sabato 21 novembre 2009

La favola di Pierfrego e Gianfrego, delfini smemorati

C’era una volta un Re che si cresceva due delfini, Gianfrego e Pierfrego.


Crebbero allo stesso modo, con la stessa statura, emiliani entrambi, anche la loro specialità era comune: la politica, e nemmeno il governo o l’amministrazione, ma proprio la politica parlante, tutta video e partito. Non avevano mai fatto altro nella vita che quello, la politica.
Ma per il Re erano i suoi pupi e le sue pupille politiche, erano come per Cornelia i suoi Gracchi e lo affiancavano come due colonnine altoparlanti che sovrastavano lo stereo.

Trovatelli ambedue, Pierfrego aveva perduto la sua famiglia Diccì nel terremoto del ’92, denominato Mani Pulite; Gianfrego, orfano della famiglia Missì, aveva dato alle fiamme la casa paterna, ormai fatiscente. Furono adottati dal Re e portati alla reggia dove in un primo tempo concorsero ad accrescerla e in un secondo si fecero accidiosi, fino a remare contro.
Dopo aver fatto le scuole materne insieme a un privatista irrequieto di nome Umberto, Pier e Gian in età scolare furono mandati a presiedere i parlamenti. Poi Pier decise di far fortuna lasciando la Casa e Gian decise di mettersi in proprio ma senza perdere le comodità della Casa.

Fu la prima volta che si separarono, e bisticciarono pure, ma come siamesi vissero la separazione come un trauma contronatura.
Da tempo si mormora che marciano divisi ma colpiscono uniti, che hanno trescato con altri, Paolo il Mieloso, Luca il Montezuma e perfino Ciccio il Rutello, per far le scarpe al sovrano o più cautamente per succedere a lui. Sarà ma il problema è che e aspirazioni di entrambi si intralciano a vicenda. Però temono ambedue il Terzo Incomodo, dal Gran Ciambellano del Re al Gran Tesoriere di corte, ai gran governatori del Reame.

È comprensibile, più che comprensibile, il loro ammutinamento al Re che li ha cresciuti e adottati. I due ragazzi sono stanchi di fare i ragazzi, vogliono le chiavi di casa e magari sfrattare il padrone di casa; sono stanchi di dire grazie a chi li ha portati alla reggia, vogliono fare per conto loro e sentirsi Capi e non solo Capetti, sovrani e non principi azzurri o promessi sposi. E sono molto pressati e blanditi da amichetti volpini e istruttori potenti, che li portano in cielo ad ogni sberleffo che fanno nei confronti del Re e li riempiono di complimenti.

Tra i due, a dir la verità, c’è qualche differenza di metodo. In fondo Pier non è stato carino con il Sovrano ma è stato leale ad andarsene, perlomeno, mettendosi in proprio. E poi è stato leale con la sua famiglia di origine, non si è mai scordato di essere uno di loro, anzi. Gian, invece, spernacchia il Sovrano ma vive largamente a suo carico, e non è stato leale nemmeno con la sua famiglia d’origine; sarà perché viveva in una casa più povera e malandata, ma ha scontentato sia il sovrano che i suoi stessi parenti.

E ancora: Pier in fondo non ha cambiato le sue opinioni (dai, non chiamiamole idee) e la sua mentalità cristiana (su, non parliamo di valori). Gian, invece, ha cambiato radicalmente anche quelle e querela il se stesso di venti, di dieci ma anche di due anni fa. Dico le opinioni e le posizioni, mica le idee e i valori (dai non scherziamo). Ma è la politica, ragazzi, ed è inutile star lì a menarsela. È inutile invocare la gratitudine, che non è una categoria umana, figuriamoci se può essere una categoria della politica; ma se è inutile invocare la riconoscenza, superfluo è pure pretendere il riconoscimento, cioè la considerazione dei fatti e dei meriti. La politica non è abituata a questo, non si correla con la giustizia e nemmeno con la solidarietà o, per essere più ridicoli, con gli interessi supremi del paese. L’unica cosa
che si può chiedere alla politica è un po’ di intelligenza applicata all’efficacia, quel che in versione plebea è la furbizia o l’opportunismo.

Beh, in nome di quella cosa lì, vorrei dire ai due ragazzi: giocate almeno la partita doppia, ovvero fate pure i vostri conti per il dopo, attrezzatevi per il nuovo giro. Ma in questi tre anni e mezzo che ci separano dalle votazioni politiche, lasciatelo governare, il vostro Re o il vostro Ex, se preferite. E sapendo che governa con un largo consenso popolare, cercate di non soffiare sulla fronda, di non trescare con i suoi nemici; cercate di capire, nel vostro interesse, e non nel suo, che per ereditare un domani il suo consenso dovete cercare più i motivi di continuità che di frattura e ora stargli più vicini.

Poi vi farete il vostro centro senza più il bipolarismo, o la vostra destra senza più la destra, insomma farete il vostro gioco. Ma nell’interesse vostro, non giocate questa partita contro di lui perché si ritorcerebbe contro di voi. Dispiace dirvelo, cari Pierfrego e Gianfrego, ma l’interesse vostro coincide con quello dell’Italia.

di Marcello Veneziani, Il Giornale del 9/11/2009

Una vera storia dell'assedio a Berlusconi


C'è poco da ridere se Berlusconi, intervenendo per telefono a Ballarò, tirato peri capelli afferma di non essere lui l'anomalia italiana bensì la situazione che lo ha costretto a occuparsi di politica anziché degli affari suoi. Comunisti o no, i giudici hanno favorito l'ex Pci, l'unico partito risparmiato da Tangentopoli, quindi destinato a vincere le elezioni nel 1994 per mancanza (fisica) di avversari che non fossero la neonata Lega e il Msi.

Da notare che gli stessi giudici in seguito, sorpresi dall'exploit alle urne del Cavaliere, politico improvvisato, si sono accaniti su di lui con dozzine di inchieste e centinaia di sopralluoghi nell'evidente intento di spazzarlo via e spianare la strada ai compagni. Non è forse andata così? E se è andata così perché non si può dire, perché non riconoscerlo?
Da notare che i lustri passano, ma le cose non cambiano. Berlusconi vince le elezioni e, subito dopo, ricomincia la persecuzione giudiziaria col solito teorema: lui non poteva non sapere. Chissà perché invece tutti gli altri imprenditori e politici - per esempio Gianni Agnelli e Massimo D'Alema - potevano benissimo non sapere quello che succedeva alla Fiat e a Botteghe Oscure e pertanto farla franca. Basterebbe questo a dimostrare che la nostra giustizia, anziché applicare il principio secondo il quale i cittadini sono tutti uguali davanti alla legge, ricorre spesso al più odioso doppio pesismo: e addio uguaglianza.
Ma la sinistra, avvantaggiandosi assai dell'aiutino togato, se ne guarda bene dal riconoscere la palese iniquità del sistema e, lungi dal collaborare per modificarlo, si impegna nella difesa dell'orrendo status quo. Se il quadro non fosse quello descritto, lo strapotere attribuito ai magistrati sarebbe stato da tempo oggetto di una radicale riforma. Riforma che la destra invoca da anni ma invano stante la necessità, per procedere nei cambiamenti, di ritoccare la Costituzione; il che, come noto, richiede una procedura istituzionale lunga, laboriosa e inconcludente il referendum confermativo.
Semplificando. Per sistemare la giustizia e renderla simile nel funzionamento a quella di quasi tutti i Paesi europei, non è sufficiente la maggioranza di centrodestra; servirebbe almeno una quota della opposizione, la quale però non ha interesse ad apportare miglioramenti ad un settore che, per quanto scassato, le dà una mano contro Berlusconi, e di conseguenza respinge qualsiasi proposta di aggiustarlo. Ecco perché siamo allo stallo.
Il Lodo Alfano era soltanto una pezza e non una soluzione, eppure è stato bocciato non tanto perché incostituzionale (figuriamoci se è questo il motivo) quanto perché, se fosse passato, il premier sarebbe stato processato (caso Mills) al termine della legislatura. Mentre ai progressisti preme sia giudicato in fretta, magari già in primavera, e condannato in maniera che - con una sentenza penale sulle spalle - egli venga costretto ad abbandonare in anticipo Palazzo Chigi in barba alla volontà degli elettori.
D'altronde il Pd e i suoi alleati non hanno alcuna chance per ribaltare la frittata: o fanno secco il Cavaliere con armi extrapolitiche o se lo devono godere finché il Padreterno non decida diversamente. E in effetti, il verdetto sarà emesso dal Tribunale presumibilmente subito dopo le Regionali di marzo. Un verdetto scontato che scatenerà il finimondo e darà fiato ai tromboni pronti a pretendere le dimissioni del presidente. Eliminato il quale - essi sperano - il centrodestra imploderà e si dividerà in alcuni spezzoni incapaci di costituire una forza autonoma di governo.
La sinistra è debole, disorganizzata e senza idee tranne una: sa che per rinascere ha bisogno di uccidere l'avversarlo, non importa come. Ciò che conta è ucciderlo, altrimenti continuerà a dominare la scena perché gli italiani non sono stupidi e hanno capito: lui sarà quel che sarà, ma è sempre meglio - e ne ha dato prova - dei suoi detrattori. I quali dunque, rassegnati alla propria insipienza, affidano ai giudici il compito di scalzare l'uomo che considerano l'unico impedimento alla loro resurrezione. Amen.
Se non si tiene conto di questo, non si comprende la presente congiuntura. Né si comprende perché i mezzi di informazione, quasi tutti manovrati dagli amici del giaguaro, siano tanto impegnati nella enfatizzazione delle oggettive (non gravi) difficoltà della maggioranza. L'obiettivo è stressare il Pdl e la Lega, romperne la fratellanza e predisporre il centrodestra allo sfascio dopo che Berlusconi fosse condannato per la vicenda Mills.
Il presidente, consapevole dell'accerchiamento, d'ora in poi suppongo non perderà occasione per denunciare il gioco sporco alle sue spalle. E intervenuto recentemente a Porta a Porta sul Lodo (si ricorderà la battutaccia sulla Bindi) e l'altro ieri ha concesso il bis a Ballarò, un programma che fa del caos, tutt'altro che calmo, un'arma per trasformare la realtà italiana in una sorta di bolgia di cui incolpare il premier. E per montare la confusione è buono ogni pretesto: dalla crisi economica che non finisce alle sofferenze dei disoccupati, alle incomprensioni fra Tremonti e Berlusconi, alle proteste dei giudici, alle cause intentate alla Repubblica e all'Unità, alle disavventure di Marrazzo surrettiziamente collegate alla Mondadori e allo stesso Silvio, agli strepiti della Bindi con il corrivo sostegno del conduttore Floris, specialista nelle entrate a gamba tesa contro qualunque ospite non funzionale al disegno dei compagni, una mappazza tossica utile a dare ai telespettatori la sensazione che non si possa più andare avanti così, e che il Paese meriti uno scossone rivitalizzante. La parola d'ordine dei progressisti è scandalizzare. Già, perché lo sdegno morale offusca i fatti.
C'è da registrare un fenomeno allarmante: certi metodi in voga nella sinistra cominciano ad attecchire anche nel centrodestra. Se ne è avuta conferma a Porta a Porta, l'altra sera, durante la discussione su quanto capitato a Marrazzo a cui partecipavo anch'io. A un certo punto Lupi, vicepresidente della Camera (Pdl) si è un po' lasciato andare alla moda di intorbidare le acque e, desiderando criticare il giornalismo a sfondo sessuale, ha accomunato le storie dei trans ai pettegolezzi sul Cavaliere e alla faccenda Boffo come se fossero tutte uguali e fossero uguali i giornali che le hanno trattate.
Nella foga, egli ha coinvolto anche il Giornale nella sua ramanzina contro i cronisti. Errore imperdonabile. Perché noi su Boffo non abbiamo fatto pettegolezzi ma discettato di un reato da lui commesso e per il quale il direttore dell'Avvenire è stato condannato da un Tribunale della Repubblica. Da un vicepresidente della Camera ci si aspettava una distinzione fra chiacchiere e notizie ufficiali, pubbliche per definizione se provenienti da un casellario giudiziale.
Niente, per lui un reato (molestie a sfondo sessuale) e un resoconto da portineria sono la stessa cosa, ingredienti della medesima zuppa.
Caro Lupi, d'accordo che siamo nel marasma, ma almeno lei non contribuisca ad incrementarlo. E lasci stare il Giornale, che non è il suo tappetino.

di Vittorio Feltri, Il Giiornale del 29/10/2009

Baraonda politica

Altro che rivoluzione copernicana. Nella sinistra cambia tutto e non è detto cambi in meglio.
 

È l`effetto Bersani che, a differenza di Franceschini (esecutore testamentario di Walter Veltroni), non appena giunto alla segreteria del Pd tramite la farsa delle primarie, annuncia:
rimetto in piedi il vecchio Ulivo prodiano, con o senza Prodi si vedrà, e richiamo immediatamente in servizio gli amati comunisti italiani, i rifondaroli e i verdi. Immagino la felicità dei lettori alla fausta notizia della rianimazione di Pecoraro Scanio; so che avevano nostalgia di lui.
In pratica il neocapoccia dell`ex Pci, nella speranza illusoria di battere il centrodestra,
anziché fare un passo avanti rispetto ai suoi due predecessori, ne compie cento indietro e torna al rosso antico, quando le Botteghe erano ancora Oscure. I progressisti progrediscono a ritroso per ritrovare l`unità e tentare di avere i numeri almeno allo scopo di far paura al Cavaliere.
L`idea dello spezzatino in salsa rubra a dire il vero non è un`esclusiva di Bersani; era venuta per primo a Massimo D`Alema il quale aveva fatto il conto della serva. Il Pd infatti, secondo calcoli basati sulle recenti votazioni politiche, attualmente possiéde un 26-28 per cento.
Con quel mattacchione supergassato di Di Pietro, la percentuale sale ottimisticamente a 35.
Ma se ci aggiungi i prepensionati, e cioè comunisti italiani e rifondaroli, il dato può superare il 40 per cento.
Buttiamoci sopra una spruzzatina di verdi ambientalisti, ed eccoci al 43-44. Oddio, tra il dire e il fare c`è di mezzo un mare in cui l`annegamento è una probabilità concreta, comunque sognare non è vietato neanche alla sinistra spelacchiata. E’ un piano rétro, quello di Bersani-D`Alema, però è un piano. Quanto alla sua realizzazione, bisognerà vedere cosa ne pensano gli italiani. La mia personalissima impressione è che, già strinati dal minestrone di Prodi, non abbiano alcun desiderio di riscaldarlo per scottarsi un` altra volta. Ma saranno le urne a confermare o smentire questa opinione. Il fatto è che il Pd non crede più in se stesso e nella possibilità di svilupparsi autonomamente, per cui gioca l`unica carta rimasta: quella di recuperare i riservisti della falce e martello.
Però fa tristezza costatare che nell`Italia bipolare del Terzo Millennio il polo d`opposizione, per apparecchiarsi contro i berlusconiani, è obbligato a ripescare i comunisti residuali, gente più adatta al museo delle cere che
al Parlamento. Non tutti nel Pd hanno apprezzato il nuovo corso e qualcuno minaccia di levare le tende.
Francesco Rutelli le ha tolte subito e, in men che non si dica, è diventato democristiano, avendone a vocazione da vari mesi. Ha fatto la valigia e ha chiesto, ottenendolo, asilo politico a Pier Ferdinando Casini ben lieto di offrirgli una branda e un avvenire senza sole ma pur sempre ricco di poltroncine, garanzia fondamentale per continuare a non lavorare. Rutelli nell`abbandonare il tetto di Bersani ha rilasciato una dichiarazione sibillina: non vado via solo. Il che significa che i transfughi saranno almeno due. A Casini auguriamo siano anche di più.
Nel terremoto di giornata si segnala un altro scossone. Marrazzo si è dato malato come risulta da certificato medico prontamente esibito. E siccome i malati non si licenziano neppure dalla Regione Lazio - potenza del welfare esteso alle cariche elettive - il signor presidente consolida la sua posizione di sospeso per aria. Risultato, zero dimissioni e niente elezioni anticipate fino al termine della mutua; durata trenta dì, festivi inclusi.
A volte la salute viene meno provvidenzialmente. In questo caso consente al Pd di guadagnare tempo e di far dimenticare agli elettori del Lazio la triste vicenda dei trans penalizzante sotto il profilo dei consensi.
Intanto si apprende un particolare agghiacciante per chi sia spilorcio o povero: Marrazzo spendeva cinquemila curo onde soddisfare ciascuno dei propri capricci eterodossi. Ammazza che botta. D`altronde la vita è cara e richiede sacrifici. All`ultima voce del menu romano, c`è l`aspirante vicepremier, Tremonti, a cui Berlusconi ha tarpato le ali con una bocciatura, per altro ampiamente prevista dal Giornale. Il ministro dell`Economia resta però al suo posto, e questo gli fa onore. In certi momenti il Cavaliere è portato a dire sì anche se vorrebbe dire no; in altri dice no anche se vorrebbe dire sì. Nella presente circostanza il no è stato netto e così motivato: l`Economia sono io, ha detto Silvio. Vietata ogni replica. Tremonti non ha replicato e, pare, nemmeno commentato. E un uomo che capisce al volo e sa stare al mondo.

di Vittorio Feltri, il Giornale del 27 ottobre 2009

martedì 3 novembre 2009

Polito vs. D'Avanzo

Per costringere un Direttore di un quotidiano serio e affidabile a scendere sul personale, vuol dire che qualche giornalista l'ha combinata veramente grossa.
Ma poi leggendo il nome del giornalista che l'ha combinata, tutto si ridimensiona.
Ecco il fatto.


Io e D'Avanzo
di Antonio Polito






Questa non me l'aveva ancora mai detta nessuno. Sarei alla dipendenze di Signorini: sì, proprio quello di Chi, l'esperto di gossip. Lo scrive D'Avanzo, su Repubblica: «Signorini consiglia, indica, sollecita. Combina non soltanto le scelte dei direttori dei media berlusconiani, sovraordinato a Vittorio Feltri, capataz del giornale di famiglia, ma anche delle testate del gruppo Angelucci (Libero, Riformista)».
Conosco Giuseppe D'Avanzo dagli anni '70, da quand'era un giovane cronista di Paese Sera a Napoli. E mi domando che gli è successo. Insomma, una volta trovava notizie, e di prima qualità. Ora passa il tempo a fabbricare teoremi. Mentre Fiorenza Sarzanini del Corriere scovava la D'Addario e lo scandalo delle escort, lui era lì a menarsela con le dieci domande a Berlusconi (è vero che sei malato? è vero che ti tira troppo? la minorenne la toccavi o no?). Mentre della «sezione affari riservati» di Chi, il Riformista aveva scritto già sei giorni fa in prima pagina, firma di Fabrizio d'Esposito, titolo inequivocabile: «Il sistema Signorini-Berlusca», D'Avanzo se ne è accorto ieri su Repubblica.

Di suo D'Avanzo ci ha aggiunto la solita prosa truculenta e qualche offesa gratuita. Ma le notizie, come al solito, latitano.

L'ultimo teorema di D'Avanzo è sostanzialmente questo: Berlusconi ha mandato due carabinieri a incastrare Marrazzo e poi, non riuscendo proprio a far pubblicare il video da nessuna parte, lo ha offerto a Marrazzo medesimo; di conseguenza, deve essere condannato a otto anni di reclusione per ricettazione di materiale proveniente da un reato. Complimenti. Chissà se ci scriverà sopra dieci nuove domande. Chissà se chiederà al Pd di farne un'interpellanza parlamentare. Se c'era ancora Franceschini, magari gliela faceva.

Ma l'impazzimento di D'Avanzo sono affari suoi. Gli affari miei sono che io non ho mai preso ordini da nessuno, tranne che dai miei direttori; e se proprio un giorno decidessi di prenderne da qualcuno, l'ultimo che mi verrebbe in mente sarebbe Signorini (per quel poco che li conosco, mi fa ridere anche pensare che Feltri e Belpietro si facciano dire che fare da Signorini). A D'Avanzo vorrei dire questo: va bene che tu non prendi ordini nemmeno dal tuo direttore, ma come ti può venire in mente di giudicare della libertà degli altri? Che cosa ti dà il diritto di presumere che il giornalismo o si fa come lo fai tu o è un giornalismo venduto? Quale superiorità morale ti dà il fatto di raccogliere regolarmente notizie da poliziotti e 007?

Perché se tu decidi di «bucare» la notizia del video di Marrazzo, di cui ti avevano avvertito, sei un giornalista onesto; e se lo fa Minzolini con le storielle di sesso del Berlusca è un fazioso? Non è che tu proteggi i tuoi come il giornalismo di destra protegge l'Amato Loro? E poi ci fai anche la morale?

A tutti voi lettori, invece, vorrei chiedere questo: non concordate con me che è proprio questo stile, questa doppia verità, questa mancanza di equilibrio, questa arroganza della sinistra davanzata a spiegare perché gli italiani continuano a tenersi Berlusconi? Molti altri buoni motivi, d'altra parte, non ce ne sono.


Fonte: Il Riformista del 2/XI/2009

lunedì 26 ottobre 2009

I magistrati sbagliano ma non pagano pegno MAI

Dopo le recenti paginate mediatiche sul giudice di Milano con i calzini sgargianti che oltre alla promozione sono serviti a dargli anche la scorta a nostre spese, oppure dell'ordinanza del divieto di dimora in Campania per la moglie di Mastella che nella sua qualità di presidente del consiglio regionale dovrà comunque andare a Napoli, ma da molto più lontano rispetto a Ceppaloni e a nostre spese,  per rinfrescarci la memoria pubblico uno studio sulla SuperCasta dei magisttrati, come l'ha definita Livadiotti nel suo omonimo libro, realizzato da una docente universitaria e riportato per sommi capi dall'Opinione.



I magistrati sbagliano ma non pagano pegno
di Dimitri Buffa 






Che criteri adotta la sezione disciplinare del Csm nel giudicare ed eventualmente sanzionare i ritardi dei magistrati nel deposito delle sentenze o altri provvedimenti o nello svolgimento delle attività di ufficio? Lo studio più completo finora svolto in proposito riguarda un periodo compreso tra il 1995 e il 2002 ed è stato fatto da una ricercatrice dell’Università di Bologna, la docente Daniela Cavallini. Se la si vuole mettere sui dati crudi e brutali il risultato è questo: su 251 incolpati, quelli non condannati sono risultati essere 196 e quelli invece sanzionati 55. Ma è sulle sanzioni che si gioca la differenza tra una giurisprudenza di tipo “domestico” come tutti sanno essere quella del Csm e una di tipo effettivo: ebbene di quello scarso numero di magistrati “condannati” nessuno è stato destituito o rimosso dall’ufficio, solo 7 hanno perso l’anzianità, uno solo è stato dispensato dall’ufficio precedentemente ricoperto, mentre gli altri 47 sono stati semplicemente “ammoniti” (34) o “censurati” (13). Sanzioni, che, a prescindere dalla gravità dei fatti contestati, di fatto non turbano i sonni di chi si vede costretto a subirle. Né cambiano di molto la rispettiva carriera in magistratura. Un’altra cosa che pochi sanno, anzi forse quasi nessuno, è che le sentenze della disciplinare sono impugnabili dai magistrati secondo le norme ormai non più in vigore del codice Rocco davanti alle sezioni civili, e non penali, della Cassazione. Cosa che porta altri vantaggi di casta alla categoria. Una norma transitoria della riforma del codice di procedura penale del 1989 ha infatti lasciato in vigore il codice Rocco solo per i giudici.

A proposito della confusione di ruoli, nello studio della Cavallini si legge fra l’altro che “...l’accertamento, nel comportamento del magistrato, dei connotati oggettivi e soggettivi di rilevanza disciplinare costituisce un apprezzamento di merito rientrante nell’insindacabile valutazione della sezione disciplinare del Csm.” Neanche le sezioni unite civili della Corte di cassazione, in sede di impugnazione, possono sindacare nel merito la valutazione già compiuta, dovendosi limitare ad un riesame di sola legittimità. Questo in teoria, perché, sempre per i magistrati, la Suprema Corte accetta di entrare anche nel merito in caso di motivazioni “illogiche o contraddittorie”. Cosa che fino a pochi anni fa valeva anche per i comuni mortali, mentre ora non più. Di fatto comunque le già basse percentuali di condanna possono venire vanificate alla fine di un iter burocratico giudiziario non previsto per nessun altro cittadino italiano. Nel merito della giurisprudenza che si è andata così formano, secondo l’orientamento della sezione disciplinare del Csm, scrive la Cavallini, “il semplice ritardo nell’adozione di provvedimenti giudiziari non costituisce di per sé illecito disciplinare”. E questo è dovuto anche al fatto che mentre il codice di procedura penale e quello di procedura civile sanzionano le inadempienze degli avvocati con un regime di “perentorietà” (cioè di decadenza dai diritti), per quel che riguarda i ritardi e le inadempienze dei magistrati il regime diventa “ordinatorio”, con una serie di escamotage che di fatto permettono di sanare quasi tutte le cause di nullità.

La richiesta di abolire questa disparità è stata per anni un cavallo di battaglia dei Radicali di Pannella che hanno anche proposto un referendum, non capito dalla gente nella sua essenzialità. Infine i criteri di decisione nelle motivazioni della disciplinare utilizzano questo metro: “Il fatto illecito sorge soltanto laddove il ritardo dipenda da negligenza o neghittosità, cioè sia sintomo di inerzia, scarsa operosità, indolenza del magistrato e non trovi giustificazione in situazioni di forza maggiore o altri impedimenti a lui non imputabili”. Non basta, per arrivare a una qualche forma di blanda condanna deve essere anche accertato “...se il ritardo caratterizza quasi la metà (o più della metà) del lavoro svolto dall’incolpato, se non è un episodio isolato ma costituisce la normalità, se è sistematico e crescente nel tempo, se è superiore ad un anno (due anni o tre anni), se riguarda un lasso di tempo considerevole dell’attività del giudice, se attiene a settori ”delicati“ come quello del lavoro o della previdenza...”. Solo quando tutti questi criteri saranno soddisfatti, i giudici della disciplinare accetteranno il fatto che un siffatto comportamento “...denota indubbiamente una certa incuria del magistrato”.
Bontà loro.

Da: l'Opinione del 19/09/2008. pg.4

Ancora Province? E sì, tanto paga Pantalone!

Vi riporto un interessante articolo dei "soliti" Rizzo e Stella, i giornalisti che hanno scritto La Casta, il libtro capostipite del filone letterario del malcostumne italico, che pur provocando uno scandalo enorme, per la virtù italiana che il tempo fa dimenticare tutto, i nostri politicanti passata la festa (le promesse sotto elezioni), gabbano il Santo (noi popole bue).
Bene fanno Rizzo e Stella a non farci diventare degli smemorati cronici.


E i camuni gridarono: una provincia anche a noi
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

E i Camuni? Niente ai Camuni? Deciso a vendicare l’ingrata storia, il deputato leghista Davide Caparini ha deciso di tirare dritto: vuole a tutti i costi la nuova Provincia della Valcamonica. Capoluogo: Breno, metropoli di 5.014 anime. Direte: ancora un’altra provincia? Ma non avevano promesso quasi tutti di abolirle? Certo: prima delle elezioni, però. Promessa elettorale, vale quel che vale. Tanto è vero che il disegno di legge per sopprimerle, presentato alla Camera dalla strana coppia Casini & Di Pietro, è già morto. Se dovesse passare l’iniziativa camunica del parlamentare del Carroccio, quella con capitale Breno (inno ufficiale: «E su e giù e per la Valcamonica / la si sente la si sente...») sarebbe la provincia numero 110. Quando nacquero nel 1861, al momento dell’Unità d’Italia, erano quasi la metà: 59. Distribuite sul territorio con un criterio semplice: dovevi attraversare ciascuna in una giornata di cavallo. Nel 1947 erano già 91. E col passaggio dagli equini alle autoblu, hanno continuato ad aumentare, aumentare, aumentare a dispetto del proposito dei padri costituenti, che avevano previsto la loro abolizione con l’arrivo delle Regioni, fino a diventare 95 e poi 102 e su su fino a 109 grazie a new entry e soprattutto al raddoppio (da 4 ad 8) di quelle della Sardegna. La quale con l’Ogliastra (57.960 abitanti, due terzi di Sesto San Giovanni) mise a segno il capolavoro, la provincia a due teste: Tortolì (10.661 anime) e Lanusei, che di anime ne ha ancora meno: 5.699. Un record mondiale. Che con l’arrivo di Breno verrebbe stracciato in attesa di nuove province e nuove capitali tipo Quinto Stampi, Pedesina, Zungri, Maccastorna, Carcoforo... Direte: ma dai, Carcoforo! Perché no, scusate? Se la provincia è indispensabile per essere vicina ai cittadini, cosa han fatto di male i carcoforesi per non avere anche loro una provincia? Quanto costino lo ha calcolato l’anno scorso il Sole 24 Ore: 17 miliardi di euro. Con un aumento del 70% rispetto al 2000. Da dove arrivano i denari? Un po’ dai trasferimenti. Parte dal prelievo del 12,5% sull’assicurazione delle auto e delle moto: 2 miliardi nel 2007, il 54% in più rispetto al 2000. Più aumenta l’assicurazione, più intasca la Provincia. Altri quattrini arrivano dall’imposta provinciale di trascrizione: le annotazioni al Pubblico registro automobilistico che doveva essere abolito. Ci sono poi un’addizionale sulla bolletta elettrica e il tributo provinciale per l’ambiente.

Come mai i cittadini non si arrabbiano? Occhio non vede, cuore non duole: sono tutte tasse dentro altre tasse. Non si notano. Va da sé che a quel punto, ignaro delle spese, il cittadino vede titillato il suo campanilismo. Come nel caso della provincia di Fermo nata dalla divisione di quella di Ascoli Piceno. Una specie di scissione dell’atomo: da una piccola provincia ne sono nate due minuscole. In compenso, al posto di un solo consiglio da 30 membri, ne sono nati due da 24: totale 48 poltrone. Per non dire della provincia a tre piazze di Barletta-Andria-Trani, chiamata così per non far torto ai permalosi cittadini dell’una o l’altra capitale. Quanti sono i comuni di quella nuova Provincia? Dieci in tutto, sono. Il che, diciamolo, aumenta la pena per i sette tagliati fuori dal nome: Bisceglie, Trinitapoli, Minervino Murge. E la targa automobilistica? «BT». Rivolta: «E Andria? Non si può fare “Bat”?». «No, quella è di Batman».

C’è da sorridere? Mica tanto. Sull’abolizione delle province, infatti, fu giocato un pezzo dell’ultima campagna elettorale. «Aboliremo le Province, è nel nostro programma», disse Berlusconi a Porta a porta il 10 aprile 2008. «Ma la Lega sarà d’accordo?», eccepì Bruno Vespa. E lui: «La Lega è composta da persone leali». «Presidente, che cosa ha previsto per abbassare i costi folli della politica?», gli chiese la signora Ines nella chat-line al Corriere. E lui: «La prima cosa da fare è dimezzare il numero dei parlamentari, dei consiglieri regionali, dei consiglieri comunali». E le Province? «Non parlo delle Province, perché bisogna eliminarle». Mostrava di crederci al punto, il Cavaliere, che cercava sponde: «Se Veltroni ci darà una mano...». La linea veltroniana, del resto, era già stata dettata: «Cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi comuni metropolitani». Posizione confermata a Matrix: «All’abolizione delle province penso ci si possa arrivare. Ma non sono un demagogo. È facile dirlo in campagna elettorale...». Il socio fondatore del Pdl Gianfranco Fini era d’accordo: «I carrozzoni non sono intoccabili e si possono abolire per esempio le Province». Una tesi già benedetta da altri. Come l’ex ministro degli Interni azzurro Giuseppe Pisanu: «Le Province ormai non hanno più senso».

Qualche settimana dopo le elezioni il capo del Governo sventolava il primo trionfo, riassunto dai tg amici con titoli così: «Abolite nove Province». In realtà nove province cambiavano soltanto nome. D’ora in avanti si sarebbero chiamate aree metropolitane. Un ritocco semantico. Ma naufragato lo stesso. Poi cominciarono i distinguo. «C’è un solo punto nel programma in cui ho difficoltà serie con gli alleati, l’abolizione delle Province. La Lega ha una posizione molto ferma», confessò Berlusconi nel dicembre 2008. «Sono enti inutili, ma non riusciremo a cancellarli in questa legislatura», confermava Renato Brunetta. Di più: nel disegno di legge sulle autonomie locali definito dal ministro Roberto Calderoli non solo sopravvivevano. Venivano addirittura rafforzate, con la possibilità di riscuotere tasse proprie.

Vero è che Bossi aveva eretto un muro insormontabile: «Le Province non si toccano». Ma che la marcia indietro collettiva sia stata dovuta solo all’altolà del Carroccio non si può dire. Basti rileggere quanto affermò il deputato del Pd Gianclaudio Bressa nell’ottobre scorso: «Non siamo d’accordo con l’abolizione delle Province, né abbiamo mai detto di esserlo in passato. È ora di finirla con questa mistificazione». E quello che diceva Veltroni? Coro democratico: Veltroni chi? Ma è niente in confronto alle contraddizioni della maggioranza. Dove Sandro Bondi, da coordinatore forzista, era a pié fermo al fianco del Capo: «Aboliamo le Province. Sono un diaframma inutile fra i Comuni e le Regioni». Era il 14 luglio 2007: qualche mese dopo, con marmorea coerenza, si candidava alla presidenza della Provincia di Massa Carrara.

E meno male anche per lui (oggi ministro) che non ce l’ha fatta. Sennò sarebbe andato a ingrossare la folta schiera dei fedeli di sant’Alfonso Maria de’ Liguori al quale Dio concesse il dono della bilocazione. Cioè quei politici che sono insieme assisi su due poltrone: quella di parlamentare e quella di presidente provinciale. La legge dice che il presidente di una Provincia o il sindaco di una città con oltre 20 mila abitanti non può essere eletto parlamentare? Sì, ma non dice il contrario. Così i casi di doppio o triplo incarico si sono moltiplicati. Adesso sono nove, di cui sei pidiellini: c’è il presidente foggiano Antonio Pepe, quella astigiana Maria Teresa Armosino, quello avellinese Cosimo Sibilia, quello salernitano Edmondo Cirielli, quello napoletano Luigi Cesaro, quello ciociaro Antonio Iannarilli... Poi ci sono gli «ubiqui» della Lega: il presidente biellese Roberto Simonetti, quello bergamasco Ettore Pirovano e quello bresciano Daniele Molgora, che è anche sottosegretario all’Economia: un esempio di trilocazione mai tentato neppure dal santo fachiro Sai Baba capace al massimo di apparire insieme nell’Andra Pradesh e a Toronto. Chiederete: ma come fa uno a stare in tre posti diversi? La risposta la può forse suggerire lo stesso Pirovano. Il quale il 27 luglio scorso, mentre teneva la giunta a Bergamo, votava alla Camera a Roma materializzandosi grazie al tesserino usato al posto suo dal collega Nunziante Consiglio. Il quale, pizzicato da Fini, disse: «Era un gesto innocente, pensavo stesse per arrivare...». Ma se di lunedì ha la giunta! «Oh signur, credevo fosse martedì...».
da: Corriere della Sera del 14 ottobre 2009, pag. 1

giovedì 22 ottobre 2009

La domanda a cui Repubblica non risponde

Il quotidiano Repubblica di De Benedetti ha, ossessivamente e per molto tempo, posto dieci domande al premier.
Adesso che una sola domanda viene posta a questo giornale che si erge a paladino della pubblica moralità e correttezza, tace.
Ecco i fatti.


La domanda a cui Repubblica non risponde

di Vittorio Feltri

Tutto previsto. La reazione di la Repubblica al nostro articolo su Corrado Augias, descritto come collaboratore dei servizi segreti cecoslovacchi ai tempi della Cortina di ferro, è arrivata puntuale e nei toni attesi. Una mezza paginata dello stesso Augias che reclamala propria innocenza e un commento di D’Avanzo, editorialista descamisado da alcuni mesi dedito alla narrazione delle attività notturne, vere o presunte, di Silvio Berlusconi. Il primo cerca di buttarla sul ridere, minimizza la portata dei fatti e naturalmente accusa il Giornale di aver costruito sulla sua candida personcina un castello di balle. Evidentemente non aveva molto altro da dire, benché nel pezzo si sia dilungato in vari particolari privi del minimo interesse. Il secondo riprende il filo di un discorso che va facendo e ripetendo da quando sono tornato al Giornale: il Cavaliere comanda e io, Brighella, eseguo, anzi sparo. Lasciamoglielo credere, così è contento. Infatti il problema non sono le ossessioni di D’Avanzo né le imbarazzate argomentazioni difensive di Corrado Augias. Ciò che rimane sospeso per aria è il contenuto di quanto abbiamo pubblicato. I due colleghi citati non entrano nel merito della questione; non spiegano, non giustificano, non precisano. Si limitano a scrollare le spalle e girano là frittata secondo lo stile ormai invalso nel loro quotidiano di lotta debenedettiana contro il capo del governo e tutto ciò che in qualche modo si riconduca a lui. Augias lascia intendere di essere molto offeso perché, valutato il materiale in nostro possesso, non gli abbiamo telefonato per informarlo. Praticamente ci accusa di aver colpito lui per colpire la Repubblica, e glissa sul resto come se la storia dello spionaggio che lo riguarda fosse un’invenzione denigratoria. È proprio qui che si sbaglia di grosso. C’è o ci fa? Si dà il caso, caro Corrado, che non sia stato il Giornale ad attribuirti una intensa collaborazione con gli apparati spionistici della Cecoslovacchia, Paese nemico all’epoca della guerra fredda, bensì gli apparati stessi che di tale collaborazione hanno conservato documenti dai quali abbiamo attinto le notizie su di te. Abbiamo svolto un lavoro da cronisti: ci siamo procuratile carte - recentemente messe a disposizione -, le abbiamo lette e riassunte. Non è con noi che te la devi prendere ma con gli 007 cui hai reso per parecchio tempo, consapevolmente o no, i tuoi servigi. Lo hai fatto per affinità ideologica o per altro? Il punto è che lo hai fatto, almeno secondo le fonti, cioè gli archivi di Praga. Se poi tu abitualmente incontravi l’agente segreto da Rosati in piazza del Popolo a Roma o in altro luogo, poco importa. Gli agenti segreti e i loro informatori (con tanto di codice). per definizione non sono identificabili quindi frequentano qualsiasi ambiente senza temere di essere riconosciuti per quello che in realtà sono: spie. Può darsi benissimo che tu non avessi nulla da confidare a chi ti aveva «contattato». Se così fosse tuttavia bisognerebbe capire per quale ragione tu lo frequentassi e per quale quell’agente frequentasse uno, te, che non aveva alcunché da dirgli. Questi dettagli, converrai, meritano di essere chiariti. Tocca a te chiarirli. Noi abbiamo appreso dei dati da documenti controllati e li abbiamo divulgati perché storicamente rilevanti. Peccato che tu li abbia scambiati per nostre illazioni. Non è così. La scrollatina di spalle non basta a fugare dubbi e perplessità sul tuo conto.

di Vittorio Feltri, da Il Giornale del 20 ottobre 2009

sabato 10 ottobre 2009

La Calabria spiegata a Venditti a partire dal triangolo rettangolo di Tommaso Labate






Perché Dio l'ha creata? 
Un conterraneo di Tommaso Campanella risponde al cantautore romano.

Se il Creatore (o creatore, fate voi) avesse potuto ascoltarne la preghiera con qualche migliaio di anni d’anticipo e non l’avesse creata, la Calabria, a quest’ora il pianista di piano bar e tutti gli altri trentatré reduci della Terza E del Giulio Cesare sarebbero rimasti lì a ricordare quando la Regina d’Inghilterra era Pelè. Di fronte a un triangolo rettangolo, però, l’Antonello e i suoi compagni avrebbero fatto scena muta, osservandolo, il triangolo rettangolo, con la stessa sorpresa del don Abbondio di fronte a una citazione su Carneade da Cirene: «Chi era costui?». L’avrebbero prima visto e poi guardato, ammirato e rimirato, senza sapere da che lato prenderlo, il triangolo rettangolo.

Che nel triangolo in questione la somma dei quadrati costruiti sui cateti equivale al quadrato costruito sull’ipotenusa è cosa nota, in fondo, grazie all’esistenza stessa della Calabria. Fu proprio in Calabria, Magna Grecia, dove Pitagora da Samo si trasferì per fondare la sua scuola, che l’omonimo teorema venne definitivamente messo a punto, diventando poi colonna portante della geometria mondiale, studiata financo nella Terza E del Giulio Cesare dell’anno scolastico 1965/66. Quella dell’Antonello che oggi si chiede e chiede al Creatore (o creatore, fate voi) perché esiste, la Calabria.

Per quanto possa sembrare paradossale, senza la Calabria le fondamenta del Diritto non sarebbero quelle che conosciamo. Zaleuco, uno dei primi legislatori del Creato (o creato) era di Locri. Terra di santi di prima fascia, come san Francesco da Paola, e di filosofi di prim’ordine, come Tommaso Campanella e Bernardino Telesio.

Anche in epoca contemporanea la Calabria vanta il rito del caffè servito con bicchiere d’acqua senza neanche chiederlo, mangiate da padreterno a quindici euro, una coscienza civica e un senso d’appartenenza alla Terra sviluppate ben oltre la media nazionale, le melanzane ripiene, il chilometro più bello d’Italia (così il pescarese D’Annunzio definì il lungomare di Reggio), il bergamotto, la peggior razza di juventini presente sul suolo nazionale (fondamentali per un trattato di antropologia sulla specie così come per le più belle litigate sul calcio), le processioni delle Madonne sul mare, i bar che ancora servono sia la China Martini che lo Stravecchio, l’Amaro del Capo, un aeroporto sull’acqua che per atterrarci serve un brevetto speciale (ancora Reggio Calabria), gli arancini del traghetto per la Sicilia, la montagna, il mare e la collina, tutti e tre insieme, come se lui, Creatore o creatore, avesse deciso di mettere in crisi i capitoli del vecchio sussidiario dedicati alla geografia.

Se non ci fosse stata la Calabria non ci sarebbe l’“Italia”, che si chiama così - anche se Venditti non lo sa - per via degli Itali, ch’erano gli antichi abitanti della regione. Hanno origini calabresi il capo della Cia, l’ex moglie del tennista Borg e l’attuale di Flavio Briatore, quelli che quest’estate hanno picchiato Fabrizio Corona (ricevendo in cambio l’olé nazionale), le attempate tette di Sabina Stilo e le giovani gambe di Miss Italia 2009. E in Calabria, come scrisse Rino Geatano trent’anni fa, si può camminare con quel contadino che forse fa la stessa tua strada, parlare dell’uva e parlare del vino, «che ancora è un lusso per lui che lo fa». E sempre in Calabria, prima dell’alba, è possibile assistere alle straordinarie urla dei banditori d’asta nelle cooperative di pescatori, roba che altrove ci farebbero dieci film e quaranta libri, mentre la Calabria li custodisce gelosamente per sé.

L’incauto Venditti, che ha rivolto la sua pessima domanda al Creatore/creatore ed è stato stanato dal democratico Youtube, s’è giustificato come il più fesso dei bambini colto dalla più ingenua delle mamme con tutte e due le proverbiali mani nell’altrettanto proverbiale marmellata. Dice che la sua era «una denuncia». Perché lui, insiste, ama «quella terra». Se fosse in cerca di materiali per denunce, il pianista di piano bar, sappia che la Calabria è tra i primi produttori del mondo. Una criminalità organizzata che ha soppiantato mafia e camorra, che soffoca l’economia locale, azzanna la politica onesta, attenta alle coscienze. E poi una crudeltà senza confini: come quella dei calabresi che vent’anni fa tennero un ragazzo di nome Carlo Celadon con una catena al collo per ventisette lunghissimi mesi; o di coloro che rinchiusero un bambino piemontese di nome Marco Fiora in un cunicolo di mezzo metro quadrato, costringendolo anche dopo la liberazione a lunghissimi anni di immobilità, fisica e psicologica. Oggi anche le vecchie Anonime hanno un nome o più nomi. Anche sulle ombre, in attesa di legge, ordine e giustizia, c’è un fascio di luce. Chi ama una terra ne denuncia impietosamente i mali, senza mai metterne in discussione l’esistenza. Come un buon genitore che, di fronte alla disgrazia del figlio malato, non si permetterebbe mai di chiedergli il perché della sua stessa nascita.di Tommaso Labate

Se il Creatore (o creatore, fate voi) avesse potuto ascoltarne la preghiera con qualche migliaio di anni d’anticipo e non l’avesse creata, la Calabria, a quest’ora il pianista di piano bar e tutti gli altri trentatré reduci della Terza E del Giulio Cesare sarebbero rimasti lì a ricordare quando la Regina d’Inghilterra era Pelè. Di fronte a un triangolo rettangolo, però, l’Antonello e i suoi compagni avrebbero fatto scena muta, osservandolo, il triangolo rettangolo, con la stessa sorpresa del don Abbondio di fronte a una citazione su Carneade da Cirene: «Chi era costui?». L’avrebbero prima visto e poi guardato, ammirato e rimirato, senza sapere da che lato prenderlo, il triangolo rettangolo.

Che nel triangolo in questione la somma dei quadrati costruiti sui cateti equivale al quadrato costruito sull’ipotenusa è cosa nota, in fondo, grazie all’esistenza stessa della Calabria. Fu proprio in Calabria, Magna Grecia, dove Pitagora da Samo si trasferì per fondare la sua scuola, che l’omonimo teorema venne definitivamente messo a punto, diventando poi colonna portante della geometria mondiale, studiata financo nella Terza E del Giulio Cesare dell’anno scolastico 1965/66. Quella dell’Antonello che oggi si chiede e chiede al Creatore (o creatore, fate voi) perché esiste, la Calabria.

Per quanto possa sembrare paradossale, senza la Calabria le fondamenta del Diritto non sarebbero quelle che conosciamo. Zaleuco, uno dei primi legislatori del Creato (o creato) era di Locri. Terra di santi di prima fascia, come san Francesco da Paola, e di filosofi di prim’ordine, come Tommaso Campanella e Bernardino Telesio.

Anche in epoca contemporanea la Calabria vanta il rito del caffè servito con bicchiere d’acqua senza neanche chiederlo, mangiate da padreterno a quindici euro, una coscienza civica e un senso d’appartenenza alla Terra sviluppate ben oltre la media nazionale, le melanzane ripiene, il chilometro più bello d’Italia (così il pescarese D’Annunzio definì il lungomare di Reggio), il bergamotto, la peggior razza di juventini presente sul suolo nazionale (fondamentali per un trattato di antropologia sulla specie così come per le più belle litigate sul calcio), le processioni delle Madonne sul mare, i bar che ancora servono sia la China Martini che lo Stravecchio, l’Amaro del Capo, un aeroporto sull’acqua che per atterrarci serve un brevetto speciale (ancora Reggio Calabria), gli arancini del traghetto per la Sicilia, la montagna, il mare e la collina, tutti e tre insieme, come se lui, Creatore o creatore, avesse deciso di mettere in crisi i capitoli del vecchio sussidiario dedicati alla geografia.

Se non ci fosse stata la Calabria non ci sarebbe l’“Italia”, che si chiama così - anche se Venditti non lo sa - per via degli Itali, ch’erano gli antichi abitanti della regione. Hanno origini calabresi il capo della Cia, l’ex moglie del tennista Borg e l’attuale di Flavio Briatore, quelli che quest’estate hanno picchiato Fabrizio Corona (ricevendo in cambio l’olé nazionale), le attempate tette di Sabina Stilo e le giovani gambe di Miss Italia 2009. E in Calabria, come scrisse Rino Geatano trent’anni fa, si può camminare con quel contadino che forse fa la stessa tua strada, parlare dell’uva e parlare del vino, «che ancora è un lusso per lui che lo fa». E sempre in Calabria, prima dell’alba, è possibile assistere alle straordinarie urla dei banditori d’asta nelle cooperative di pescatori, roba che altrove ci farebbero dieci film e quaranta libri, mentre la Calabria li custodisce gelosamente per sé.

L’incauto Venditti, che ha rivolto la sua pessima domanda al Creatore/creatore ed è stato stanato dal democratico Youtube, s’è giustificato come il più fesso dei bambini colto dalla più ingenua delle mamme con tutte e due le proverbiali mani nell’altrettanto proverbiale marmellata. Dice che la sua era «una denuncia». Perché lui, insiste, ama «quella terra». Se fosse in cerca di materiali per denunce, il pianista di piano bar, sappia che la Calabria è tra i primi produttori del mondo. Una criminalità organizzata che ha soppiantato mafia e camorra, che soffoca l’economia locale, azzanna la politica onesta, attenta alle coscienze. E poi una crudeltà senza confini: come quella dei calabresi che vent’anni fa tennero un ragazzo di nome Carlo Celadon con una catena al collo per ventisette lunghissimi mesi; o di coloro che rinchiusero un bambino piemontese di nome Marco Fiora in un cunicolo di mezzo metro quadrato, costringendolo anche dopo la liberazione a lunghissimi anni di immobilità, fisica e psicologica. Oggi anche le vecchie Anonime hanno un nome o più nomi. Anche sulle ombre, in attesa di legge, ordine e giustizia, c’è un fascio di luce. Chi ama una terra ne denuncia impietosamente i mali, senza mai metterne in discussione l’esistenza. Come un buon genitore che, di fronte alla disgrazia del figlio malato, non si permetterebbe mai di chiedergli il perché della sua stessa nascita.

Fonte: Il Riformista del 9/10/2009

Che disastro la politica degli avvocaticchi

Negli ultimi tempi, per poter leggere qualcosa di sensato, di realmente concreto e "quasi" neutro alla maniera anglosassone, è leggere Il Riformista.
Eccone un'ulteriore prova sul tema che in Italia non esiste un "regime" come vanno gridando, in ogni occasione che le telecamere sono a tiro, i soliti Di Pietro, De Magistris, Santoro, Franceschini, Travaglio, Grillo e tutti gli altri loro sodali.


 Che disastro la politica degli avvocaticchi
di Antonio Polito


Cominciamo con lo sgombrare il campo dalle balle. Ma quale regime? La Corte costituzionale ha bocciato ieri la legge cui più teneva Berlusconi, il presunto padrone dell'Italia. Fino all'ultimo i suoi uomini e Umberto Bossi hanno minacciato di conseguenze politiche gravi il collegio giudicante. Subito dopo la sentenza Berlusconi, in un evidente stato di alterazione, ha dichiarato che è una sentenza politica, che la Consulta non è più un organo di garanzia, che è di sinistra come Napolitano.

Eppure, in questo regime, la suprema magistratura di garanzia ha fatto ciò che riteneva giusto fare. I check and balances funzionano anche nel nostro sistema democratico. Non perfettamente, ma funzionano. C'è sempre un giudice a Berlino, o meglio, su quella piazza del Quirinale che ospita, uno di fronte all'altro, il palazzo presidenziale e quello della Consulta. I mestatori in giro con la coppola alla Di Pietro che invitano il popolo alla rivolta perché nessuno più protegge la Costituzione, dovrebbero vergognarsi dopo la sentenza di ieri per tutte le bugie che hanno raccontato agli italiani, invece di festeggiare. Dovrebbe vergognarsi anche Berlusconi delle dichiarazioni che ha fatto. Perché anche lui, finché fa il premier, è la Repubblica italiana, e deve difenderne la dignità e gli altri organi costituzionali.

Dunque la Consulta ha deciso. Avevamo scritto prima di conoscerla che, come fece Gore negli Usa quando la Corte suprema diede ragione a Bush, non si può fare altro che rispettare la sentenza. Avevamo anche scritto che, quando si prevede un'immunità giudiziaria, bisogna agire per via costituzionale, e cioè cambiare la Costituzione con le procedure previste all'articolo 138.

Facile previsione, la nostra. Cinque anni fa, interrogata sul Lodo Schifani, la Consulta non si espresse su questo. Non ne ebbe il coraggio. Prese il Lodo Schifani dalla coda, invece che dalla testa. E gli trovò un paio di difetti correggibili. Il centrodestra li corresse, e ripresentò il Lodo con la firma di Alfano. Stavolta, invece, il collegio ha preso il toro dalle corna. E si è espresso sul punto cruciale.

La Consulta ha cioè stabilito che quella prevista nel Lodo Alfano era una vera e propria immunità, non una «sospensione funzionale», come hanno argomentato gli avvocati del premier, che dunque viola l'articolo 3 della Costituzione sull'uguaglianza dei cittadini. Cosa che si può fare, ma si può fare solo scrivendolo in Costituzione. Il centrodestra ha avuto anni per agire in modo più saggio, per introdurre una norma che non c'è in tutto il mondo democratico, ma da qualche parte c'è eccome. Però ha sempre risposto alle emergenze giudiziarie con la logica delle leggine ad hoc e ad personam, in corsa con il tempo e con le procure.

Forse sarebbe l'ora di ammettere che l'intera strategia del berlusconismo sulla giustizia è stata sbagliata, è stata una strategia da avvocaticchi, non da riformatori, perché di riforme vere non ne ha fatte nemmeno una, ma di pezze a colore ne ha messe tante, purtuttavia senza riuscire ad evitare l'epilogo: Berlusconi che torna da imputato davanti agli odiati giudici di Milano, per un processo la cui sentenza è già scritta, avendo lo stesso tribunale condannato l'avvocato Mills come corrotto e non avendo finora potuto condannare Berlusconi come corruttore solo grazie al Lodo Alfano. Non ci vorrà molto, dicono gli esperti, perché ora quella condanna arrivi. E potrebbe essere pesante, e potrebbe prevedere la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici. Potrebbe segnare cioè il più grave colpo mai assestato dai giudici alla carriera politica di Silvio Berlusconi.

Che cosa vuol dire? Che è finito Berlusconi e con lui il berlusconismo? Sono giustificati i boati che hanno accolto la sentenza in molti luoghi di Roma e che solo il timing ha evitato risuonasse anche nella sede dove Montezemolo e Fini si incontravano per scrivere insieme l'Italia futura? È giustificato il paragone tra Palazzo Grazioli e il Raphael, che a molti è venuto in mente ieri vedendo la sede romana di Berlusconi circondata da centinaia di poliziotti pronti a scacciare un eventuale nemico di piazza? Secondo noi no. Ogni conclusione politica è prematura. Berlusconi è ferito, ma nient'affatto morto. È forse finita la sua sesta vita, ma può averne una settima.

Mai sottovalutare la forza del consenso popolare di cui gode ancora il premier, che in democrazia non è un optional. Le ere politiche finiscono solo quando quel consenso si esaurisce. Non che questa maledetta estate di Berlusconi, dalle escort, al Lodo Mondadori, a quello Alfano, non lasci segni sul suo rapporto con il pubblico. Ma i segnali di uno smottamento non si vedono affatto. E questo per una ragione molto semplice: l'elettorato giudica i risultati, non le inchieste. Però, se e quando Berlusconi sarà condannato a Milano per corruzione in atti giudiziari, la sua posizione interna e internazionale sarà gravemente compromessa. Forse non più tenibile. Per questo il suo mondo si divide oggi tra quelli che dicono: andiamo subito al popolo, scioglimento e nuove elezioni, perché così ti cuociono a fuoco lento. E l'altro fronte che dice: no, stai al tuo posto, continua a governare, concentrati sul programma, e magari fai finalmente quella riforma della giustizia che finora hai sempre barattato per un po' di tregua dalle toghe.

La giornata di ieri è stata una perfetta dimostrazione di questo dibattito interno. È partita con Bossi che annunciava il ricorso alla piazza (e con Bersani che minacciava di contro-mobilitare il suo popolo). Ed è finita con più miti consigli. Per quanto Berlusconi abbia gridato ieri a Piazza Venezia, sembra avere escluso per ora la via dell'ordalia popolare, di chiamare al voto contro i giudici, in uno scenario sudamericano. La via che sembra aver scelto, quella di rimanere dov'è e di farsi i suoi processi da imputato, è di gran lunga la più corretta dal punto di vista istituzionale (se la terrà). Quella cui l'ha richiamato in questi giorni il Quirinale, il quale non concederebbe crisi extra-parlamentari e soluzioni extra-costituzionali (ecco perché ieri Berlusconi ce l'aveva tanto con lui).

E per quanto i demagoghi alla Di Pietro possano strillare chiedendo dimissioni ed elezioni, in realtà per il paese è molto meglio se le cose vanno così. Lo stesso Pd non deve cadere nel tranello della scorciatoia: se crolla oggi il berlusconismo, il primo partito a spappolarsi sarebbe proprio il Pd, seguito a ruota dal Pdl. (Per un curioso - ma mica tanto - caso del destino, proprio ieri si presentava all'Italia l'aspirante successore del bipolarismo Pdl-Pd: Luca Montezemolo).

La via della Costituzione, ancora una volta, è dunque la più saggia. Non sappiamo però quanto sia saggia la classe politica di questo paese, visto che da quindici anni combatte la stessa ed unica battaglia, berlusconiani e antiberlusconiani, per trovarsi quindici anni dopo al punto di partenza, mentre il paese scivola ogni anno un po' più indietro. È interessante notare che, proprio mentre arrivava la sentenza sul Lodo, l'Italia apprendeva che in termini di prodotto interno pro capite è stata superata, dopo che dalla Spagna, anche dalla Grecia e dalla Slovenia.

Fonte: Il Riformista dell'8/10/2009

I cattivi maestri


La casta dei cattivi maestri
di Giampaolo Pansa

Quando il nostro sistema politico si schianterà nel marasma, ci chiederemo perché è successo. Ma nessuno saprà trovare la risposta. Accadrà quello che avvenne quando Benito Mussolini prese il potere, nell’ottobre 1922. Da allora molti cominciarono a interrogarsi sul perché e sul percome. E dopo novant’anni non hanno ancora finito di farlo.
NONE
Era colpa soltanto del capitalismo nostrano che aveva trovato in Mussolini e nelle sue squadre armate il mezzo per imporre il regime dei padroni? Oppure il terreno era stato preparato dalle follie violente delle sinistre di allora, il Partito socialista e il nuovo Partito comunista? O la colpa era di entrambe le parti in conflitto?

Nella mia ingenuità di cittadino pacifico, non pensavo di essere costretto a farmi le stesse domande a proposito dell’Italia di oggi. Confesso di osservare il nostro caos politico con un timore sempre più forte. Ogni giorno che passa, la mia paura raddoppia. E mi obbliga a chiedermi in quale baratro cadremo.
Ormai viviamo dentro una continua guerra civile di parole.

Il bipolarismo si sta trasformando in un mostro. I due blocchi non si limitano a combattersi, com’è normale che accada. Ormai si odiano. E si odieranno con rabbia crescente. Senza preoccuparsi del veleno che spargono. Senza domandarsi quali effetti perversi avrà nel corpo di un Paese sempre più intossicato.
Su questo sfascio campeggiano i cattivi maestri. Nella lunga stagione del terrorismo, venivano chiamati così gli intellettuali e i politici che alimentavano la violenza. Spiegando che la Prima Repubblica era un regime perverso, da combattere con le armi. Questi santoni, rossi e neri, mandarono a morire o in galera decine e decine di giovani discepoli. E contribuirono a spedire all’altro mondo centinaia di italiani per bene.

Al posto dei cattivi maestri di allora, oggi ne sono emersi altri. Insieme formano una vera casta, dotata di un potere persino più grande. Siamo una società mediatica dove qualunque messaggio ha un’amplificazione terribile. Non penso soltanto a Internet, un pianeta dove accade di tutto. Penso alla televisione, alla radio, alla carta stampata. Un pacchia per i tanti dottor Stranamore. Qualunque bestialità dicano arriva subito a milioni di allievi, che le diffondono. Mettendo in circolo slogan che possono avere conseguenze tragiche.

I cattivi maestri stanno su entrambi i fronti. Sul centrodestra, il più illustre è Silvio Berlusconi. A parole il Cavaliere combatte il disordine, ma nei fatti lo alimenta. Oggi vivremmo in clima meno intossicato se il premier fosse stato tanto saggio da controllare meglio la propria vita privata. Senza circondarsi di veline e di prostitute. Tutti possono chiamare a raccolta squadre di ragazze per le proprie serate allegre. Ma non tutti fanno il premier. Chi guida un Paese deve onorare i milioni di elettori che lo hanno votato. E non comportarsi come un satrapo malato di sesso.

Ma pure sul centrosinistra i cattivi maestri guidano le danze. È una pessima lezione politica gridare che l’Italia non è più una democrazia. Che il Cavaliere è un sosia abominevole di Mussolini e di Hitler. Che la stampa non è libera perché imbavagliata da Silvio il Dittatore. Che quanti dissentono dal verbo dei maestri sono sicari prezzolati. Che il Parlamento è in mano ai mafiosi, ormai in grado di fare le leggi.

Quest’ultima assurda lezione ha trovato la sua icona: un capo partito, Antonio Di Pietro, si è fatto fotografare davanti a Montecitorio con la coppola in testa e le smorfie da boss di Cosa Nostra. Una vergogna, ma per Di Pietro. Tanto ignorante da non sapere che la coppola non la portavano i mafiosi. Bensì i contadini siciliani e i sindacalisti che combattevano la mafia.

Un altro cattivo maestro si è rivelato un grande del nostro mestiere: Eugenio Scalfari. Mi costa dirlo, perché ho lavorato al suo fianco per quattordici anni, nella direzione di Repubblica. Ma che cosa sta facendo di tanto grave “Barbapapà”, per conquistarsi un posto di prima fila tra quanti montano in cattedra per combinare disastri? La risposta è negli articoli che scrive su giornali un tempo suoi, Repubblica e l’Espresso. Dove racconta che la democrazia italiana sta tirando le cuoia. E che occorre una nuova Resistenza.

Ma in questi giorni, Scalfari ha dimostrato quanto possa essere ignorante anche un primario cattivo maestro. Nel senso che non sa nulla di ciò che scrive. “Barbapapà” si è fatto intervistare dal settimanale di casa, l’Espresso. E ha dato il calcio del mulo a un editore concorrente, sia pure più piccolo del suo padrone, l’ingegner De Benedetti.

È la famiglia Angelucci, imprenditori privati e proprietari del Riformista e di Libero. Scalfari li ha dipinti come servi di Berlusconi, per aver «accettato di nominare come direttore di Libero Maurizio Belpietro, emissario del Cavaliere, una specie di commissario politico», naturalmente agli ordini del Caimano.
Quando dirigeva Repubblica, Scalfari ci raccomandava: «Non siate schiavi dei vostri pregiudizi. Prima di scrivere un articolo, cercate di capire come è andata per davvero». Oggi è lui il primo a tradire la propria lezione.

Non sa un bene amato cavolo di come è emersa la direzione di Belpietro. Eppure insulta un collega. E offende un editore soltanto perché non appartiene al giro dell’Ingegnere. Ma danneggia anche se stesso. Quando i cattivi maestri sbroccano, mostrano tutte le piaghe della vecchiezza intellettuale. A volte la casta può diventare un ospizio, sia pure di lusso.

Fonte: Il Riformista di lunedì, 5 ottobre 2009
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/100936/


venerdì 9 ottobre 2009

Berlusconi et De Benedetti: Storie di vil denaro. Moltooo denaro!

Berlusconi è stato condannato in 1° grado, da un giudice unico, a risarcire il "danno per mancata chance" nei confronti di De Benedetti.
A parte il giudizio su tale motivazione di condanna e la somma (la prima che la magistratura italiana infligge secondo i parametri americani), quello che desidero sia di pubblica memoria è il solito modo di fare italico dei due pesi e due misure.

Il pregiudicato ing. Carlo De Benedetti è stato condannato (fece soltanto pochi giorni di carcere) a tre anni di galera per aver truffato lo Stato, cioè noi tutti.

Il pregiudicato De Benedetti e i suoi complici (funzionario dello Stato) non hanno mai pagato il loro debito a noi cittadini per  "danno per mancata chance", nè altro!

Questa la storia di CDB ed altre di giustizia all'italiana che ho ricercato in rete e che vi ripropongo.


  
Questa la sentenza Nel 1993, in piena bufera Tangentopoli, Carlo De Benedetti presentò al pool di Mani Pulite un memoriale in cui ammetteva il pagamento di 10 miliardi di lire in tangenti ai Partiti di governo e funzionale all'ottenimento di una commessa dalle PPTT, consistente in telescriventi e computer obsoleti. Nel maggio dello stesso anno, viene iscritto all'albo degli indagati.

L'ing. Carlo De Benedetti, patron de La Repubblica e Olivetti, confessa al Pool di aver versato ai partiti di governo 10 miliardi di 'tangenti' per avere venduto alle PPTT migliaia di obsolete telescriventi e computer.
Iscritto nell'albo degli indagati nel maggio '93, dopo le condanne a Craxi e l'esilio-latitanza in Tunisia, a De Benedetti non sarà fatto ancora alcun processo dal Tribunale di Milano. 



Ci penserà il Tribunale di Roma a processarlo e condannarlo dopo una lunga diatriba fra la Procura di Roma e quella di Milano su chi avesse competenza a giuduicare De Benedetti.

Per molti altri imputati di Mani Pulite, le cose andarono diversamente dall'ing. De Benedetti che fece soltanto pochi giorni di carcere.

Gabriele Cagliari, presidente dell'ENI, dimenticato in carcere dopo la promessa di liberazione, il 20 luglio '93 si suicida in cella. 

Tre giorni dopo, il 23, con un colpo di pistola si ammazza anche Raul Gardini.

Poche ore dopo la morte di Gardini è arrestato Sergio Cusani suo segretario, commercialista e confidente.


La rapidità dell'attenzione giudiziaria verso Cusani è nelle date: arresto il 23 luglio. Richiesta di processo il 27 agosto.
Parere favorevole del GIP Italo Ghitti il 6 settembre. Prima udienza del processo 28 ottobre. Conclusione dello stesso sei mesi dopo con la condanna a otto anni di reclusione (l'accusa ne aveva chiesti sette)


Per i tempi lunghissimi della nostra giustizia un record eccezionale! Il processo Cusani assume in tivù la spettacolarità dei processi soap opera con Di Pietro al posto di Parry Mason, che appare stranamente umile col tronfio Craxi, quanto insolente con l'accasciato Forlani.



Nell'ottobre scoppia lo scandalo dei fondi riservati del Sisde. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, nella sua passata funzione di ministro degli interni,
avrebbe avuto per quattro anni un appannaggio di cento milioni mensili in busta gialla fuori di ogni controllo. 
Fatto rivelato dagli agenti segreti e dal prefetto Malpica,  capo del servizio segreto civile. 
Il capo dello Stato, O.L. Scalfaro,  la notte del Capodanno '94, nel messaggio alla nazione, reagisce indignato col famoso iterato "Non ci sto" a reti unificate. 
Ma gli italiani non capiscono. 
Disinformati dei fatti nulla sanno del motivo di quella negazione (ma non conosceranno neppure nulla della destinazione di quei fondi ad personam; nessuno dirà loro se usati per esigenze istituzionali e quali). L'inchiesta si spegne, e gli accusatori vengono incriminati con l'accusa di golpe! 

 
Questa la sentenza che riguarda i complici di De Benedetti. 


Corte dei conti

Sezione I giurisdizionale centrale

Sentenza 5 gennaio 2005, n. 1

Con sentenza 7 giugno 2005, n. 191, la Corte dei conti, sezione I giurisdizionale centrale d'appello, ha disposto la revoca, per errore di fatto, della presente decisione, nella parte in cui condanna il sig. Davide Giacalone al risarcimento del danno arrecato alle Poste italiane s.p.a.

FATTO

Avverso la sentenza n. 1725/2002 depositata il 6 giugno 2002, resa dalla Sezione Giurisdizionale, per la Regione Lazio è stato proposto appello da Giuseppe Parrella, rappresentato e difeso dall'avvocato Giulio Correale, Oscar Mammì, rappresentato e difeso dagli avvocati Mario Sanino e Giampaolo Ruggiero, dal Procuratore regionale, nei confronti di Oscar Mammì, costituitosi come sopra rappresentato, Giuseppe Parrella, costituitosi come sopra rappresentato e Davide Giacalone, costituitosi con la rappresentanza e difesa dall'avvocato Franco Gaetano Scoca, e dal Procuratore Generale, nei confronti di Oscar Mammì, Giuseppe Parrella, Davide Giacalone, tutti costituitisi come sopra rappresentati, Maurizio Di Sarra, costituitosi con la rappresentanza e difesa degli avvocati Michele Sterbini e Filippo Lattanzi, ed Enrico Veschi, costituitosi con la rappresentanza e difesa degli avvocati Claudio Pittelli e Salvatore Mileto.

Questi i fatti di causa.

Con atto di citazione del 29.9.1994, la Procura Regionale conveniva in giudizio i sigg. Giuseppe Parrella e Davide Giacalone per sentirli condannare al pagamento della somma complessiva di Lire 36.560.740.000, oltre interessi, rivalutazione monetaria e spese di giudizio.

Tale importo veniva riferito a due voci di danno: la prima, per Lire 26.535.740.000, relativa ad una fornitura all'Amministrazione PP.TT. di n. 3356 telescriventi rimaste inutilizzate (nell'ambito di un acquisto complessivo di n. 5000 telescriventi avvenuto nel gennaio 1991 per un importo totale di Lire 39.534.775.000) e la seconda, per Lire 10.025.000.000, relativa alla riscossione di dazioni di denaro senza titolo da parte della Società fornitrice in correlazione con la fornitura delle telescriventi.

(Omissis)

P.Q.M.

La Corte dei Conti - Sezione Prima Giurisdizionale Centrale di Appello, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza ed eccezione reiette, rigetta i gravami proposti avverso la sentenza in epigrafe dalle parti private; rigetta l'appello del Procuratore Generale nei confronti dei sig.ri Enrico Veschi e Maurizio Di Sarra; accoglie parzialmente gli appelli proposti dal Procuratore Regionale e dal Procuratore Generale e, per l'effetto, condanna i sig.ri Giuseppe Parrella, Oscar Mammì e Davide Giacalone, al pagamento, in solido tra loro, della somma di Euro 2.405.429,00 (duemilioniquattrocentocinquemilaquattrocentoventinove/00), comprensiva della rivalutazione monetaria oltre agli interessi legali dalla data della sentenza al soddisfo, in favore delle Poste S.p.a. e alle spese del primo grado come in premessa, nonché a quelle del presente grado che si liquidano in Euro 3429,59 (tremilaquattrocentoventinove/59).


Fonti:

http://virusilgiornaleonline.com/elogio_19.htm

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/10/31/quell-inchiesta-contesa-sui-signori-delle-poste.html

http://archiviostorico.corriere.it/1993/ottobre/31/Benedetti_ricercato_per_corruzione_co_0_9310317166.shtml

http://www.eius.it/giurisprudenza/2005/019.asp


http://archiviostorico.corriere.it/1994/maggio/27/Malpica_Scalfaro_con_busta__co_0_94052712644.shtml