venerdì 23 settembre 2011

Tutti a casa!!!

Il nuovo saggio di Stella e Rizzo svela che i tagli alla politica sono solo propaganda.

Ogni paragrafo è una dichiarazione di guerra: in epoca di vacche magre, anzi divenute ormai anoressiche, nel nostro Paese c'è sempre chi sguazza nell'oro. E va raccontando anche di aver fatto tremendi sacrifici. È arrivato in libreria "Licenziare i Padreterni - l'Italia tradita dalla Casta", di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, edito da Rizzoli. Un libro pieno di contumelie, di ingiustizie, di prepotenze. Dei politici, ovviamente, che le infliggono a chi tutti i giorni si alza presto per andare a lavorare.

Sono passati, più o meno, quattro anni da "La Casta" e "Licenziare i Padreterni" è una sorta di "tagliando" alla situazione del nostro Paese dopo quella brusca presa di coscienza di come ci prendono per i fondelli i nostri politici. La situazione è peggiorata: c'è ben poco da discutere, le nude cifre, snocciolate dai due, ormai celebri, giornalisti parlano chiaro. Di considerazioni nel libro, come comanda lo stile degli autori, ce ne sono poche. Ci sono cifre e virgolettati che dimostrano che il bambino, anzi i bambini (e sono veramente tanti, sempre di più) presi con le mani nella marmellata, sono sempre lì con le mani nella marmellata. Solo che ora minimizzano, nicchiano, negano l'evidenza. Ma di cambiare non se ne parla. In pratica prima l'italiano onesto era cornuto, ora è cornuto e mazziato. Stipendi, rimborsi, vitalizi e spese folli sono sempre lì.

Cosa è cambiato? Prima di tutto la possibilità di controllare i "paperoni" della politica: "lo dimostra la norma approvata "umma umma" nel 2006 con cui fu innalzato di 20 volte, da 2.500 a 50.000 euro il limite sotto il quale i partiti possono mantenere anonimo un "finanziamento liberale"". E questo mentre i politici degli altri Paesi sono tenuti a dichiarare in rete tutto quello che hanno ricevuto. Anche un cestino di frutta. E i tagli? Quelli veri riguardano la scuola, le politiche sociali, le comunità montane. E la politica? "Montecitorio nel 2001 costava in valuta attuale 749 milioni di euro, nel 2006 ne costava 940, e nel 2010, dopo quattro anni di politiche di "tagli", ne costava 1.059. Cioè 310 più che un decennio prima e 119 più che ai tempi dell'esplosione dell'indignazione popolare contro la "Casta"". E stanno tutti zitti, anche quelli onesti (che evidentemente ci sono), ma non denunciano, non si oppongono. Provano "fastidio ad essere buttati in un calderone bollente di "papponi" e "magna magna". Ma davanti a tagli ridicoli e offensivi, perché non urlano il loro sdegno".

E che dicono i politici di tutto questo? «Renato Schifani ammoniva: "I politici sono i primi a fare sacrifici". Walter Weltroni concordava: "Se dobbiamo tirare la cinghia dobbiamo farlo tutti assieme. Non va bene che in Italia ci siano i salari più bassi e gli stipendi di parlamentari più alti d'Europa"... "Dobbiamo ridurre della metà la casta, cioè il numero delle persone che vivono di politica" sentenziava Silvio Berlusconi». Tra tante atrocità la cosa più atroce è quella che in questo nuovo libro di Stella e Rizzo non è detta: come si esce da questa situazione. Come si esce dal tunnel, come si fa a rimettere a posto le cose? La risposta è una sola ed è nel titolo: licenziando i Padreterni.

di Antonio Angeli (FONTE)

martedì 25 gennaio 2011

Fini: indagata la escort 'Rachele'

Un SOGNO: leggere al posto del nome del bolognese Gianfranco Fini, il nome del milanese Silvio Berlusconi e,  meglio ancora, il nome di un anonimo cittadino Italiano che aspetta di vedere applicata la Giustizia da anni.

Fini: indagata la escort 'Rachele'
Pm, per diffamazione e concorso in tentata estorsione

Fini: indagata la escort 'Rachele'.
Lucia Rizzo, la escort nota come 'Rachele', che sostiene di avere avuto rapporti sessuali con Gianfranco Fini, e' indagata dalla Procura di Roma per diffamazione e concorso in tentata estorsione. L'iscrizione nel registro degli indagati e' scattata dopo la querela presentata dal presidente della Camera. Indagato, per tentata estorsione, anche un uomo il quale avrebbe contattato la segreteria di Fini annunciando che ci sarebbero state delle rivelazioni a proposito della presunta relazione.

venerdì 12 febbraio 2010

Della Valle contro la Wintour: «Danno gravissimo per la moda e il sistema Paese»


Meno male che qualcuno si ricorda d'avere u  po' d'amor patrio.
La direttrice di Vogue, Anna Wintour,  chiede di spostare il calendario della moda milanese. «Difendiamo le nostre eccellenze» dice a muso duro Diego Della Valle.

L'ha definito «un silenzio assordante». E che altro poteva essere questa totale mancanza di posizione dei grandi stilisti di fronte ai diktat della direttora di Vogue America Anna Wintour? Solo Diego Della Valle, patron di Tod’s, ha convocato d’urgenza una conferenza stampa per dire la sua di fronte a un fatto tanto pesante. «Quel che sta avvenendo è gravissimo per il sistema Paese, per la leadership indiscussa del nostro made in Italy che non può perdere il suo valore e la sua immagine di fronte a mercati emergenti come la Cina e l’India che ci tengono in alta considerazione».

CALENDARIO SPOSTATO - In soldoni è accaduto questo: la settimana della moda milanese è prevista a partire dal 24 febbraio fino al 1° marzo; la potente Wintour ha fatto sapere che lei transiterà per l’Italia dal 26 al 28 per poi andare a Parigi. Immediato il tam tam degli stilisti per obbligare la Camera della Moda a cambiare calendario. Perché la convinzione degli stilisti (anche di quelli che non ne avrebbero più bisogno ormai nell'olimpo delle star dal fashion system), è che «valgo se in prima fila c’ho la Wintour». Più provinciali di così, si muore. «Tant’è che lo stesso tentativo l’ha fatto anche a Parigi», continua Della Valle. Ma la Grandeur le ha fatto marameo e se vuole (anche se c’è la crisi e il dollaro soffre) lei e la sua corte dovranno rimanere in Francia secondo la volontà dei francesi. Invece in Italia detta legge con gran facilità, nessuno la contraddice. «Tre giorni invece di sei sette sono una grande perdita, sia per chi spera che Milano sia il trampolino di lancio che per Milano stessa. Non si può ridurlo a un problema di calendari, di stilisti che litigano per le mezzore. Questo è un problema del Paese intero, è il momento per difendere le nostre eccellenze. Non possiamo apparire come fashonisti in conto terzi».

PICCOLI ARTIGIANI - E continua: «Dov’è l’amor proprio per il nostro Paese? Eppure, quando andavamo a scuola, avevamo in classe la bandiera italiana. Io sono orgoglioso di essere italiano». È forse mancanza di coraggio? «Non dimentico di essere stato un piccolo artigiano e ora tutelo loro, chi non può fare la voce grossa, quei piccoli artigiani che per un anno mezzo sono vissuti in un tunnel». Ora New York: «Appunto, tra pochi giorni iniziano le sfilate americane. Vista la crisi qualcuno propone di vederle magari via internet? Nessuno si sogna di chiedere una cosa del genere e tutti i giornalisti se ne vanno a New York. Vede, il problema non è l’arroganza di chi chiede ma la debolezza di chi le cose se le fa dettare».

lunedì 8 febbraio 2010

Soltanto Silvio capisce di calcio

Dopo aver letto questo articolo mi sono dovuto ricredere, almeno per quanto riguarda la questione sportiva. Chi scrive è Piero Sansonetti, del quale tutto si potrebbe dire tranne che sia un berlusconiano.
Qui, su Wikipedia il suo curriculum.

Può darsi che l’Inter vincerà il derby. E forse anche lo scudetto. Però il campionato 2009-2010 sarà ricordato in Italia come il campionato di Ronaldinho. È lui il calciatore più forte in circolazione. Gioca a livelli “storici”. Con pochi precedenti (a mia memoria), qui da noi: Sivori, Rivera, Maradona, forse Platini.
© Marco Merlini / LaPresse 17-10-2009 Roma Politica Villa Madama, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, incontra il presidente egiziano Hosni Mubarak Nella foto Silvio Berlusconi © Marco Merlini / LaPresse Rome, 10-17-2009 Politic Villa Madama, italian premier, Silvio Berlusconi, meets egyptian president, Hosni Mubarak
La resurrezione di Ronaldinho è la dimostrazione di un paio di teoremi nella cui validità ho sempre creduto. Il primo è che i giornalisti sportivi non capiscono niente di calcio. Niente. E anche i tecnici, quelli che stanno in panchina, capiscono poco. Il secondo è che Silvio Berlusconi è una delle poche persone che invece il calcio lo conosce. E se il Milan in questi vent’anni ha vinto più di qualunque altra squadra al mondo (molto di più) questo non dipende dai soldi di Berlusconi ma dalla sua sapienza calcistica. Del resto Massimo Moratti ha speso nell’ultimo decennio tre o quattro volte più di Berlusconi, ma sul piano internazionale (quello del grande calcio) è rimasto a titoli zero.

La storia dell’ultima campagna acquisti è esemplare. Ci sono le tre grandi (Inter, Juve e Milan) di fronte alla necessità di rinnovarsi. Perché alcuni giocatori vogliono andar via o per esigenze di bilancio. Compiono scelte opposte: Inter e Juve decidono di spendere molto, e comprano molti giocatori forti. Il Milan decide di risparmiare, non compra praticamente nessuno e addirittura vende il suo grande asso Ricardo Kakà, considerato, assieme a Cristiano Ronaldo e a Messi, uno dei tre giocatori più forti del mondo. I giornalisti e i tecnici, interpellati (ma anche senza essere interpellati) sentenziano privi di dubbi: Inter e Juve si giocheranno lo scudetto e la coppa dei campioni, il Milan va verso il declino, evidentemente perché Berlusconi ha deciso di “dismetterlo”.

Tutto sbagliato. L’Inter rimpinza le sue file già ricchissime; la Juve si assicura due delle perle del mercato (i brasiliani Diego e Melo). Il Milan invece punta sui suoi brasiliani, anche se di scarto: Dida, Thiago Silva, Pato e Ronaldinho, tutti esclusi della nazionale. Perché questa scelta? Perché Berlusconi ritiene che Ronaldinho sia il giocatore più forte del mondo, che Pato sia il futuro giocatore più forte del mondo, che Thiago Silva e Dida siano fortissimi. E siccome pensa anche che Pirlo, a centrocampo, non abbia rivali, decide di fidarsi della sua squadra. Vende Kakà perché ha bisogno di fare cassa, ma anche perché lo considera incompatibile con Ronaldinho, e pensa che questi sul piano tecnico sia più forte. Poi il capolavoro: via Ancelotti, stimato in tutto il mondo, dentro Leonardo. Ancelotti è un allenatore “ordinario”, capace di far fare un gioco pulito alla squadra (sempre lo stesso) ma privo di slanci di fantasia. Leonardo non è un allenatore, è solo un uomo che conosce bene il calcio ed è molto intelligente, fantasioso, carismatico. E siccome Berlusconi ritiene che gli allenatori di mestiere non esistono, meglio Leonardo di un professionista “pulitino”. Se avete visto le ultime tre partite del Milan potete dire tranquillamente che Berlusconi aveva ragione.

C’entra qualcosa tutto questo con la politica? Sì. Berlusconi guida il Milan come guida il suo partito. E il modo assomiglia a quello con cui seleziona la sua “classe dirigente”. Basato sulla fantasia, sull’imprevedibilità, sull’idea - arrogante - che esistono alcuni mestieri un po’ generici (come l’esperto di calcio o il politico) che si possono improvvisare se si posseggono intelligenza e qualità umane. E anche sull’idea che “deprofessionalizzare” (politica e sport) non ostacola l’efficienza e favorisce la modernizzazione. Un esempio? Mara Carfagna. È stata sbeffeggiata per mesi, da deputata e poi da ministra. Si è detto di tutto. Poi si è messa a lavorare. Sicuramente non è una ministra di sinistra, però non si può dire che sia stata inefficiente, o assente, o svampita. Non ha sfigurato, al ministero delle pari opportunità, a paragone di chi l’ha preceduta. È la prima esponente del governo ad avere promosso una massiccia campagna contro l’omofobia, e magari nessuno se l’aspettava da lei.

La prossima sorpresa? Mi aspetto, tra quattro o cinque anni, Leonardo al vertice delle imprese di Berlusconi. Non è un azzardo. Son quasi certo che finirà così.

sabato 30 gennaio 2010

Alcune strane amnesie dell'ex pm Di Pietro

Girovagando per il mare magnum internettiano ho trovato questo blog: lapulcedivoltaire.blogosfere.it
Vi potete immaginare quanto mi sia divertito, ma anche incuriosito, a leggere alcune storie italiche dimenticate sul ex p.m. Di Pietro, come l'ultima di questi giorni che lui stesso ha diffuso sui media. Ha dichiarato che c'è un dossier su di lui, ovviamente falso, che sta girando in tutte le redazioni giornalistiche per screditarlo, avvalendosi di vecchie foto che lo ritraggono insieme al  colonnello dei carabinieri Mori ed il questore della polizia di Stato Contrada. Insieme a loro nella foto ci sarebbero anche alcuni funzionari dei servizi segreti» spiega Di Pietro che, dal suo blog, aggiunge che «naturalmente un acquirente si è subito fatto avanti: il solito quotidiano che, pur di buttare fango sul sottoscritto, acquista qualunque cosa, anche a prezzi esorbitanti, costi che poi si sommeranno a quelli che dovrà pagare per la querela che farò, e che si aggiungerà alla denuncia che ho già provveduto a depositare alla magistratura, perchè questa volta sono venuto a conoscenza per tempo della trappola».



Clamoroso autogol dell'ex PM fatto eleggere deputato nel collegio blindato del Mugello. Uomo forse elevato agli altari della magistratura grazie a una scheggia impazzita (davvero, nel caso) dei servizi segreti "dalemiani".
Il romanzo celebrativo, un saggio scritto da un giornalista-scriba, secondo la definizione di Filippo Facci, è un autogol che dimostra che Tonino Di Pietro non è un Cincinnato né un Cicerone ma, al più un Viceré nello stile del romanzo di De Roberto splendidamente portato sullo schermo da Roberto Faenza.

Filippo Facci per "Il Giornale"

Nulla è più inedito dell'edito, e nulla è più falso di un falso ripetuto. È la morale che si trae dai primi stralci de «Il guastafeste», libro-intervista che Antonio Di Pietro ha realizzato con Gianni Barbacetto, un giornalista transigente come uno scriba col suo faraone. In questo libro ogni cosa appare già detta, già scritta e già sbugiardata: nei fatti, negli atti e nondimeno in «Antonio Di Pietro, Intervista su Tangentopoli» che è un altro libro realizzato dall'ex magistrato nel 2000 con Giovanni Valentini.Quindi nessuna novità: semmai, come direbbe lui, reiterazione del reato e ulteriore inquinamento delle prove. Con l'aggravante che per confutare un libro di Di Pietro non basterebbe neppure un altro libro, tante sono le omissioni e le semplificazioni. Ma divertiamoci un pochino lo stesso.

BERLUSCONI È COME IL FÜHRER
Prima però dobbiamo liquidare le parti di puro delirio: «Per Berlusconi i magistrati rappresentano ciò che gli ebrei rappresentavano per Hitler: razza infame da eliminare, anzi dementi da mandare nei manicomi. Non lo dico io: l'ha affermato lui stesso. Non credo che bisognerà aspettare molto. La soluzione finale è vicina». È vicino anche il sanatorio, se Di Pietro volesse sottoporsi a un comune controllo medico: neppure l'ignoranza può più assolverlo: parliamo dell'uomo che aveva appena paragonato Berlusconi a Videla, un dittatore assassino che fece fuori due generazioni di argentini buttandole dagli aerei. «Neanche sotto il regime fascista si era tentato di infinocchiare l'opinione pubblica con i soldati nelle città. Neanche Mussolini, con le sue otto milioni di baionette, aveva osato tanto». Aspettando approfondimenti, Di Pietro potrebbe cominciare con 20 gocce di Lexotan la mattina presto.

MA QUALE MERCEDES
«Dopo averla tenuta in prova per qualche giorno, mi resi conto che consumava troppo. Perciò non la comprai». Fine della spiegazione: peccato che a contraddirlo ci sia la realtà confortata da tre sentenze da lui inappellate. Leggiamo: si fa riferimento ai favori che un imprenditore inquisito per bancarotta, Giancarlo Gorrini, fece al magistrato, e si legge di «sistematico ricorso di Di Pietro ai suoi favori», dunque «Nel 1990 Gorrini aveva poi ceduto a Di Pietro (...) un'auto Mercedes 300 CE, provento di furto già indennizzato dalla compagnia assicuratrice Maa, per un importo di circa 20-25 milioni a fronte di un valore dell'auto di circa 60 milioni».

L'auto era stata rivenduta dopo 2/3 mesi da Di Pietro, il quale aveva trattenuto la somma percepita per la vendita. «I fatti si erano realmente svolti ed alcuni rivestivano caratteri di dubbia correttezza, se visti secondo la prospettiva della condotta che si richiede a un magistrato». La stessa sentenza spiega che l'auto fu rivenduta all'avvocato Giuseppe Lucibello per 50 milioni; i soldi furono restituiti con assegni circolari emessi nel maggio 1994 ma incassati in novembre, poco prima delle dimissioni. Di Pietro si stava ripulendo.

IL PRESTITO, I PRESTITI
Di Pietro, nel libro, ammette di aver ricevuto un prestito da cento milioni ma precisa di non averli restituiti «con banconote avvolte in carta di giornale, li ho restituiti con assegni». Anzitutto: di quale prestito parla? Dei cento milioni senza interessi ottenuti dall'inquisito Gorrini? O degli altri cento senza interessi ottenuti dall'imprenditore inquisito Antonio D'Adamo? Senza contare le altre periodiche buste di contanti, le case, i vestiti, i lavori per il figlio e per la moglie, la Lancia Dedra per la moglie, i telefonini, una libreria, persino uno stock di calzettoni al ginocchio.
Anche questo è tutto a sentenza, e difficilmente il Csm l'avrebbe perdonato... segue
Fonte

domenica 10 gennaio 2010

Il solito copioni di pochi urlanti

Come sempre, quando c'è di mezzo il comico urlante alla luna, i soliti "numerosi" contestatori appartenenti ai gruppetti o partitelli dello 0,x per cento, tutti rigorosamente democratici e ideologicamente a sinistra, sono capitanati da colui che ormai è il loro ideologo e sostenitore più acceso, l'ex poliziotto e già p.m. Di Pietro, che non si fa mancare occasione per essere presente e vomitare accuse a destra e a manca, ergendosi a paladino di valori che chiede sia rispettati da tutti gli altri ma che per se, sconosce.
Ogni occasione per loro è più che buona, anche quando di tratta di manifestare contro un defunto! 
Ecco il resoconto dell'ANSA di quanto accaduto a Milano ieri, 9 gennaio.



A dare manforte al centinaio di cittadini che questo pomeriggio, a dispetto della pioggia, hanno manifestato a Milano contro la proposta del sindaco Letizia Moratti di intitolare una via a Bettino Craxi sono arrivati anche il leader dell'Idv Antonio Di Pietro e il comico Beppe Grillo. 

In una piazza Cordusio tappezzata di ombrelli lo striscione a caratteri cubitali 'No una via a Craxi' ha fatto da coreografia ai numerosi cittadini e esponenti politici di Verdi, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani (ma non del Pd) che si sono alternati su un piccolo palco per spiegare perché sia inopportuno che Milano tributi all'ex leader del Psi l'onore di una strada.

"Riteniamo che si stia facendo una violenza alla storia - ha riassunto per tutti Di Pietro - nel far credere che debba essere riabilitata una persona senza informare i cittadini che questa, sul piano politico, ha indebitato il Paese, su quello giudiziario ha fatto il latitante, e che ha usato le istituzioni per fregare i soldi ai cittadini". 



A rincarare la dose ci ha pensato il comico Beppe Grillo, impegnato a Milano anche per lanciare la campagna elettorale in Lombardia del suo Movimento cinque stelle. "Sono d'accordo a una vietta a Craxi - ha affermato sarcastico Grillo - purché corso Buenos Aires diventi corso Dell'Utri. E perché no un largo Mangano?". Di Pietro e Grillo si sono ritrovati a Milano a poche centinaia di metri da quella piazza Duomo dove il 13 dicembre scorso il presidente del consiglio Silvio Berlusconi è stato ferito e hanno sfruttato l'occasione per inscenare, all'uso delle telecamere, un siparietto sull'aggressione al premier. Grillo ha avvicinato Di Pietro e gli ha lanciato al volto un foglio di carta appallottolato. "Ecco - ha scherzato il comico, prima di abbracciare il leader dell'Idv - vedi che ti ho tirato anch'io qualcosa...".
 

All'happening contro una via a Craxi, organizzato a Milano dall'associazione Qui Milano Libera di Piero Ricca, il blogger che diede del buffone a Berlusconi, hanno preso parte anche il regista Moni Ovadia, l'attore Giulio Cavalli, il giornalista Gianni Barbacetto. "Intitolare una via a Craxi non è come portare una corona di fiori al cimitero - ha osservato Basilio Rizzo, consigliere a Milano per la Lista Fo - ma significa riabilitare un modo di fare politica che i milanesi non accetteranno". Contro l'iniziativa milanese per dire no a una via a Craxi si é subito schierato, da Hammamet, il figlio Bobo. "Di Pietro e Grillo sono un po' patetici - ha detto in una nota il leader dei Socialisti Uniti - fanno una manifestazione contro un uomo politico che non c'é più, un caso unico al mondo: c'é di che riflettere". Il portavoce del Pdl Daniele Capezzone ha invece preferito sottolineare la scarsa partecipazione alla manifestazione, giudicandola un "flop". "E' l'ennesima conferma - ha osservato - della differente statura tra un gigante politico come Craxi e due gnomi come Grillo e Di Pietro".

giovedì 7 gennaio 2010

Dall'oro di Dongo ad oggi

Quando alla fine della II guerra mondiale le squadre dei combattenti comunisti catturarono e poi l'assassinarono, non restituirono agli italiani il "tesoro" che Mussolini stava portando con se, oltre agli innumerevoli carteggi riservati.
Mussolini in fuga
In questi primi giorni del nuovo anno, un grande giornalista di sinistra, Pansa, rievocando il tempo di "Manui pulite", ribadisce ancora una volta che i magistrati di quell'epoca si fermarono davanti la porta del PCI, poi PDS, Ulivo, DS ecc., lasciando l'amaro in bocca a moltissimi italiani, oltre ad un'inchiesta/rivoluzione monca, che se condotta a termine avrebbe scritto diversamente gli ultimi due-tre lustri di storia patria.

Possibile mai che uno dei pochi arrestati dell'epoca "Mani pulite" che abbia dimostrato d'avere i classici attributi sia stato il Signor G, il duro e puro comunista Primo Greganti che Pansa ci ricorda nel suo articolo?

Bettino dannato per sempre?
di Giampaolo Pansa


Craxi dannato. Ma allora il più pulito aveva la rogna
 Nelle prime settimane del 2010 si parlerà a lungo di Bettino Craxi, per il decennale della scomparsa. Si è già cominciato a farlo e in due modi opposti. Il primo considera il leader del Psi soltanto un ladro e un latitante. Il secondo sostiene che il giudizio su di lui deve essere più ampio, non limitato alla sola vicenda di Tangentopoli. Anche perché, insieme al Psi, altri partiti vissero sul sistema delle mazzette o del finanziamento illecito. A cominciare dall’avversario più tenace di Craxi: il Pci, poi diventato Pds.
È innegabile che lo tsunami di Mani Pulite iniziò in casa socialista, il 17 febbraio 1992. Il primo politico arrestato fu Mario Chiesa, 47 anni, ingegnere, presidente del Pio Albergo Trivulzio, l’ospizio per vecchi a Milano. Al momento di essere pizzicato in ufficio, Chiesa teneva nel cassetto una mazzetta appena incassata: 7 milioni di lire in contanti. Una seconda tangente più robusta, 37 milioni, riuscì a gettarla nel water presidenziale.

Per il grande pubblico, Chiesa era uno sconosciuto. Pochi sapevano che era uno dei padroni del Psi ambrosiano. Controllava intere sezioni del Garofano e possedeva un pacchettone di tessere. Craxi commise l’errore di definirlo soltanto “un mariuolo”. Poi fece subito un altro passo falso. Parlando a Milano il 27 febbraio, disse: «Di fronte a episodi di corruzione come questo, mi viene un gran sconforto. Il fatto è grave, ma non può deturpare l’immagine socialista. A volte i partiti si trovano in difficoltà proprio come certe famiglie quando scoprono che c’è un ragazzo poco di buono».

Ma il pool dei magistrati non si fermò. A Milano cadde il Muro di Bettino, come lo chiamai sull’Espresso. La Sacra Famiglia Craxiana andò a gambe all’aria. E l’inchiesta si allargò ad altri partiti. Alla metà del giugno 1992 i politici indagati o arrestati nell’inchiesta milanese erano già trentanove, così suddivisi: 16 socialisti, 14 democristiani, 7 del Pds, 2 repubblicani. Di questi trentanove, i parlamentari in qualche modo coinvolti risultavano nove: 4 democristiani, 3 socialisti, uno del Pds e uno del Pri.
Il team giudiziario di Mani Pulite seguitò a marciare come un rullo compressore. Alla fine dell’agosto 1992, i politici arrestati o indagati erano diventati sessantuno. Ripartiti così: 26 democristiani, 23 socialisti, 8 del Pds, 2 del Pri e 2 del Psdi. Anche il numero dei parlamentari inguaiati crebbe a quattordici: 7 della Dc, 5 socialisti, uno del Pds e uno del Pri.

Già questi numeri ci ricordano quanto stava emergendo nella sola Milano, in un anno terribile segnato dagli omicidi di Lima, di Falcone e di Borsellino. Tangentopoli era il luogo della corruzione interpartitica. Alla fine, gli unici partiti estranei al sistema del finanziamento illecito risultarono il Msi e i radicali. Non certo il Partitone Rosso, ovvero il Pci-Pds, allora guidato da Achille Occhetto.
In seguito, per anni e anni, i dirigenti di quel partito, e i giornali che li sostenevano, si affannarono a convincerci che le Botteghe Oscure e le loro strutture periferiche erano più bianche del bianco. Ma non era vero. Il Pci aveva sempre vissuto anche di fondi neri. Non alludo soltanto ai continui finanziamenti dall’Unione Sovietica. Parlo di vere e proprie mazzette, spesso molto consistenti.
È un fatto storico che Enrico Mattei, il presidente dell’Eni, finanziasse anche il Pci. Lo stesso fece il suo successore, Eugenio Cefis. Per concludere con l’Urss una trattativa sulla fornitura all’Eni di gas siberiano, nel dicembre 1969 Cefis si accordò su una tangente per il Pci di 12 milioni di dollari. Dopo un versamento al Bottegone di un milione e 200 mila dollari, il resto fu pagato dall’Eni in rate annuali. Su un conto cifrato in Svizzera.

Come vedremo, la faccenda dei conti elvetici del Bottegone emergerà di nuovo con Mani Pulite. Ma prima vennero a galla le tangenti incassate dal Pds per la Metropolitana milanese, mazzette da centinaia di milioni. Poi quelle pagate dalla Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi per ottenere un appalto che riguardava l’Enel. Un miliardo e 250 milioni alla Dc e idem per il Psi. A quel punto anche il Pds pretese lo stesso bottino. E ricevette una prima rata di 621 milioni. Versata in Svizzera su un conto cifrato, con un nome in codice dal sapore domestico: “Gabbietta”.
Antonio Di Pietro chiese al capo della Calcestruzzi chi gli avesse indicato la banca e il conto cifrato. Lui rispose: Primo Greganti, già segretario amministrativo della federazione torinese del Pci e poi funzionario dell’amministrazione centrale del partito. Greganti, “il signor G”, venne arrestato, ma negò sempre: il conto Gabbietta era suo, non del Pds.

In seguito si scoprirono altri conti elvetici cifrati, maneggiati da dirigenti del Pci-Pds: il conto “Idea” e il conto “Sorgente”. Ma il Partitone Rosso fece orecchie da mercante. Nel febbraio 1993 Occhettò gridò: «Smentisco nel modo più categorico. Non abbiamo mai avuto conti in Svizzera!». Lo stesso sostenne Max D’Alema il 28 febbraio: «Niente conti in Svizzera. E non ci risulta in nessun modo che noi abbiamo chiesto o fatto chiedere tangenti ad alcuno o che ne abbiamo intascate». Poi D’Alema, per una volta fantasioso, parlò di provocazione e tirò in ballo i sempiterni servizi segreti nostrani.

Potrei continuare, ma il Bestiario ha uno spazio obbligato. Spero che le pochissime cose qui raccontate ci rammentino un vecchio detto: il più pulito ha la rogna. E ci aiutino a dare di Bettino Craxi un giudizio sereno. Non possiamo ritenerlo dannato per sempre.
lunedì, 4 gennaio 2010

Intervista a Forattini, il genio delle vignette



Il quotidiano il Riformista ha intervistato, negli ultimi giorni dell'anno scorso, Giorgio Forattini, il genio della satira vignettistica.

Riporto l'intervista per intero perchè chiarisce molte cose sugli editori e giornalisti italiani e,  specialmente,  sui politici di casa nostra.





Giorgio, il precario di successo
di Andrea Di Consoli

Dice di essere senza contratto, «mi hanno fatto fuori da tutti i giornali», intanto “Satiromantico” è il suo 50esimo libro. L'esordio da tipografo a “Paese Sera”, ora disegna per Feltri, «sarà feroce ma vende». Re incontrastato delle querele, D'Alema gli chiese 3 miliardi, «però mi ha condannato solo Caselli». Principe a “Panorama”, cofondatore di “Repubblica” con Scalfari, «un grande, tagliava Bocca e Pansa». Mauro? «Non mi difese e me ne andai». Di Pietro? «Voleva le vignette in anteprima».
In occasione dell’uscita del suo nuovo, feroce e bellissimo libro Satiromantico (Mondadori), incontro Giorgio Forattini nella sua bella casa romana nel quartiere Prati (vive a rotazione quindici giorni a Parigi, dieci a Milano e cinque a Roma). È una casa-museo piena di oli, acquerelli, incisioni di volti anonimi antecedenti all’invenzione della fotografia. Parliamo dei suoi grandi amori: Bosch, Bruegel, Tolouse-Lautrec, Seurat. «Sai una cosa?» mi confessa, «l’arte moderna non mi piace. Ma è possibile che un artista non sappia fare un disegno? Ti sembra normale?».
Ci sediamo nel suo studio caldo di colori. Sul tavolo c’è una vignetta – l’ennesima – contro Di Pietro gerarca.

E’ molto deluso, Forattini, perché dopo quasi quarant’anni Panorama è stata costretta, per via della crisi, a sospendere il suo contratto. «Sono un disoccupato. Ah, non ci credi? Guarda che dico sul serio. Sì, faccio qualche vignetta per Il Giornale, ma sono senza contratto. Sono un precario come te, anzi, a te almeno ti telefonano, a me invece non mi chiamano neanche». Non c’è verso di fargli capire che la sua precarietà è una precarietà di lusso, che lui è uno che con i suoi libri (l’ultimo appena pubblicato, Satiromantico, è il suo cinquantesimo libro) ha venduto milioni di copie (milioni veri, non finti). Niente. Forattini, il re senza rivali dei vignettisti italiani, vorrebbe quasi quasi farmi credere che sto meglio di lui. «Mi hanno fatto fuori da tutti i giornali. Ho anche accettato di fare le vignette per il Quotidiano nazionale. Però una volta dicevano che erano troppo dure, un’altra volta non le pubblicavano, e certe volte le mettevano piccole piccole, tre centimetri per sei. No amico mio! Il vecchio Forattini vuole spazio, le mie vignette le devi mettere in alto, a tre colonne! Ma scherziamo?».

Forattini è un raffinato viscerale, un burlone che, nel mentre sbraita contro il potere vile, spalanca gli occhi e sembra sperduto, perso. Solo chi ha la fortuna di trascorrere una mezza giornata con lui scopre che il satirico che ha fatto arrabbiare i potenti d’Italia ha un pianto in gola che non riesce a dissimulare fino in fondo. «Mi hanno querelato sempre. Ma solo a sinistra! Solo i comunisti mi hanno querelato!». Gli faccio notare che la sua attività satirica è iniziata nel 1970 a Paese sera, giornale comunista; e, provocatoriamente, gli chiedo se quarant’anni fa era comunista. «Io comunista? Io non sono mai stato comunista in vita mia! Sono sempre stato un liberale. E a Paese sera lo sapevano. Ah, quel giornale era pieno di sessantottini. Che sciagura, il 68! E poi tieni conto che a Paese sera io lavoravo in tipografia, e che la prima vignetta la feci per Panorama. Poi, quando i compagni scoprirono che il Forattini di Panorama ero io, solo a quel punto mi chiesero di fare le vignette».

È un fiume in piena, Forattini: «I comunisti di Paese sera non li sopportavo perché nonostante guadagnassi due lire mi chiedevano sempre di sganciare soldi per il Nicaragua o per Sendero luminoso. Ma ti rendi conto?». A quel punto gli faccio notare che è tra i fondatori di Repubblica, e che il giornale di Scalfari non è mai stato un giornale di destra. «Guarda, ti dico una cosa. Nel 1975 accettai di lavorare con Eugenio Scalfari alla fondazione di Repubblica perché Scalfari è uno che i giornali li sa fare per davvero. Pensa che è stato lui a inventare gli articoli brevi. Sai che diceva a Pansa e a Bocca? Gli diceva che se sforavano, i tipografi avevano il diritto di tagliare i loro articoli. Mo’ invece è impazzito, scrive articoloni su Dio, ma è stato un grande direttore. E comunque Scalfari mi ha sempre difeso. Quando facevo qualche vignetta particolarmente dura contro De Mita o contro Craxi, Scalfari mi chiamava in tipografia con l’interfono e mi diceva: “Giorgio, ma perché devi attaccare gli unici amici che ho?” E io gli rispondevo: “A diretto', ma che gente frequenti?”.

Però la verità è che quando i politici lo chiamavano per protestare contro le mie vignette, lui diceva che lo spazio di Forattini era un porto franco. Scalfari è stato un grande direttore, mica come lo gnomo di Cuneo».
Lo gnomo di Cuneo? E chi è adesso questo gnomo di Cuneo? «Come chi è lo gnomo di Cuneo! È Ezio Mauro! I problemi di quel giornale sono nati con Debenedetti. Diceva Agnelli, riferendosi a Scalfari, che non si poteva dirigere un giornale che si era venduto. Quando nel 1999 D’Alema mi ha querelato chiedendo 3 miliardi di risarcimento per la famosa vignetta sul caso Mitrokhin, tieni conto che D’Alema ha querelato solo me, non Repubblica. Ezio Mauro faceva comunella con D’Alema, presentava i suoi libri. Siccome Ezio Mauro non mi ha difeso, ho deciso di andarmene, di licenziarmi senza chiedere niente. E guarda che ero redattore, potevo anche non andarmene. Quando ho comunicato a Mauro che me ne sarei andato, lui era tutto felice. Sì, perché ogni volta che gli mandavo una vignetta via fax lui si incazzava moltissimo. Ho tolto il disturbo, praticamente». E com’è andata a finire la querela di D’Alema? «L’ha ritirata non appena me ne sono andato da Repubblica».

Nella sua vita satirica Forattini è stato querelato molte volte. Gli chiedo se è mai stato condannato per diffamazione in via definitiva. Forattini si aggiusta i capelli pettinati alla francese, tanto da somigliare a uno dei tanti esponenti della borghesia settecentesca raffigurati nei quadri appesi alle pareti, e chiude gli occhi per ricordare meglio. «Mi hanno querelato in tanti. Mi hanno querelato Leoluca Orlando, Bettino Craxi, Ciriaco De Mita. E mi hanno creato problemi Paolo VI e Romano Prodi. Ma sai chi è l’unico che è riuscito a farmi condannare? Vediamo se lo indovini. No lo sai? Allora te lo dico io: è il giudice Caselli. Ah, la magistratura italiana! Ma è meglio che non mi fai parlare!». Forattini continua il racconto della sua vita. Mi parla bene dell’avvocato Agnelli, che lo volle a La Stampa con un contratto superlativo. E mi parla bene di Vittorio Feltri («sarà pure feroce, ma ha aumentato le vendite del Giornale di 50.000 copie. Speriamo mi faccia un bel contratto»).

E il centro-destra? Mai avuto problemi con Fini, Berlusconi, Schifani, Tremonti? E con Di Pietro? «Mai. Berlusconi è un signore. È un uomo libero. Ho fatto vignette sulla Carfagna e su Papi, ma lui non mi ha mai detto niente. Sarà anche un fijo de ‘na mignotta, ma è un uomo libero. Le querele arrivano solo da sinistra. Solo i comunisti querelano. Diverso invece è il caso di Di Pietro. Ora ti confesso una cosa. Quando c’era Mani Pulite io appoggiavo le inchieste di Di Pietro, e Di Pietro era felice del mio appoggio, tanto che a notte fonda mandava la polizia a casa mia per avere in anteprima le vignette. Adesso non mi può dire niente. Però no, non mi ha mai querelato».

Le fredde strade di Roma sono avvolte dal buio. Il pomeriggio è passato in fretta. «In questo paese se non sei comunista ti dicono che sei fascista. Mi ricordo che fui io a sdoganare Fini per la prima volta in un’intervista a Maria Latella. Fui costretto ad andarmene da Roma. Mi arrivavano le telefonate di notte, mi dicevano che ero un fascista, un fijo de ‘na mignotta. È un brutto paese, il nostro. La libertà è merce rara. Solo da noi la satira è considerata criminale. Ma la satira è un porto franco, nessuno la deve toccare. Mo’ però lasciami lavorare perché devo fare una vignetta per Feltri, anzi, aiutami a trovare un lavoro, perché sono disoccupato. E salutami Polito, perché quando me ne andai da Repubblica fu l’unico a telefonarmi insieme alla Palombelli. Queste sono cose non si dimenticano».
da il Riformista del 23/12/2009


mercoledì 16 dicembre 2009

Finalmente un pensiero chiaro su Marco Travaglio

Riporto senza alcun commento personale, perchè condivido totalmente,  quanto scrittto da Antonio Polito in Prima Pagina su il Rifomista del 15 dicembre 2009:

Perché non vado ad Annozero
di Antonio Polito



Ieri ho ricevuto il cortese invito della redazione di Annozero a partecipare alla puntata di domani dedicata ai fatti di Milano. Ho altrettanto gentilmente risposto di no. E la ragione è una sola: la presenza in quel programma di Marco Travaglio. Penso infatti sia giunta l'ora in cui anche chi di noi non ha fatto del moralismo una professione debba cominciare a sollevare qualche pregiudiziale morale. E io ne ho molte nei confronti di Travaglio.

La prima è che si tratta di un sedicente combattente per la libertà di infomazione che sta facendo una campagna di stampa il cui obiettivo dichiarato è la chiusura di un giornale, quello che dirigo (lui pensa che sia possibile, abrogando solo per noi i contributi all'editoria). Trovo la cosa moralmente ributtante.
Del resto Travaglio è lo stesso cattivo maestro che, citando un suo sodale, ha scritto l'altro giorno sul blog di Grillo un elogio dell'odio: «Chi l'ha detto che non posso odiare un uomo politico? Chi l'ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto?». Con uno così non vorrei mai trovarmi nella stessa stanza.

Tutto ciò sempre ammesso che Travaglio sia davvero e ancora un giornalista, visto che si esercita ormai apertamente nella fiction, recitando da attore testi le cui fonti le sa solo lui, ma ciò nonostante la tv pubblica lo paga sempre come giornalista. Evitare ogni contatto è dunque anche questione di deontologia professionale. In più c'è un problema di civiltà; lui non è una persona civile, vive di insulti, come quello che ha rivolto ieri ai giornalisti di Speciale Tg1: «Chiunque ha avuto lo stomaco di vedere quella merda di trasmissione...».

Io non credo, come ha detto ieri Cicchitto a Montecitorio, che Travaglio sia un «terrorista mediatico», perché paura non ne fa a nessuno. Ma un parassita mediatico certamente lo è. E, per dirla con Togliatti, sarebbe bene che nessun destriero offrisse più a questa cimice ospitalità nella sua criniera.

mercoledì 9 dicembre 2009

Povero Fini parli di meno e studi di più

Riporto integralmente quanto scritto da Giampaolo Pansa in Prima Pagina de il Riformista del 7/12/2009.



Nel marzo 2009, in occasione della nascita del Popolo della libertà, il Riformista mi chiese due ampi ritratti di Silvio Berlusconi e di Gianfranco Fini. Cominciai da Fini e il mio articolo uscì il 20 marzo. Raccontavo il percorso del leader di Alleanza nazionale e il suo tentativo di staccarsi dal passato fascista.
L’avevo seguito sin dall’inizio. Assistendo incuriosito alle svolte che, ormai, si susseguivano una dopo l’altra. La più clamorosa era emersa il 13 settembre 2008. Fini andò a un convegno dei giovani di An e spiegò che la destra doveva diventare antifascista. E assumere come propri i valori-guida dell’antifascismo: libertà, uguaglianza e solidarietà sociale.

Era un sabato e stavo a Revere, un comune del Mantovano, per presentare il mio ultimo libro sulla guerra civile. Avevo di fronte un pubblico foltissimo, dove gli elettori di An erano tanti. Quando si conobbero le parole di Fini, ci furono reazioni di stupore infuriato. Anche condite di insulti.

Nell’articolo per il Riformista ricordai quel che avevo ascoltato a Revere. E qualche giorno dopo, Fini mi telefonò. La sua chiamata mi sorprese. Non ci eravamo mai sentiti né parlati. Neppure quando avevo scritto “Il Sangue dei vinti”, un libro sui fascisti come lui uccisi dai partigiani dopo il 25 aprile.

Fini mi ringraziò per l’articolo. E allora gli dissi: «Ho seguito il suo viaggio revisionista sul fascismo. Ma non riesco a intuire la direzione nella quale sta andando». La replica di Fini mi lasciò secco: «Non lo so nemmeno io!».

Qualche giorno fa mi sono rammentato della risposta di Fini. Nel leggere sul Corriere della sera di giovedì 3 dicembre un bell’articolo di Francesco Verderami, scritto dopo il fuori onda del presidente della Camera a Pescara. Verderami ricordava il caso di Fausto Bertinotti che, quando ricopriva lo stesso incarico di Fini, era entrato in conflitto con Romano Prodi, il premier della sua coalizione.

Pur senza citare né Fini né Berlusconi, Bertinotti aveva detto al collega del Corriere: «Sono situazioni che non giovano a nessuno, ma sono per certi versi inevitabili. A un certo punto si avverte la consapevolezza che il terreno sul quale ci si è mossi si sta esaurendo. E si va alla ricerca di un nuovo equilibrio. In questi casi non necessariamente si segue una rotta. La rotta può anche non esserci». L’articolo si chiudeva così: «Infatti Fini dice: “Si naviga a vista”».

È proprio quanto mi aveva confessato Fini a marzo. Il «non so dove sto andando» equivale al navigare a vista, senza una rotta precisa. Mi sembra che sia proprio questo il problema numero uno di Fini, ma pure il suo lato debole. In tanti pensiamo che voglia costruire una destra diversa da quella di Silvio Berlusconi. Anche se il Cavaliere non si sente di destra, ma di centro. Sta nel Partito popolare europeo e lì intende rimanere.

Fini, invece, dove pensa di andare? Vuole sostituire Berlusconi? Troppo semplice e, insieme, troppo difficile. Lo vedo come un leader politico che stia procedendo nel buio. A tentoni. Con scatti improvvisi. E con una raffica di esternazioni. È un percorso che gli regala molti titoli sui giornali. Ma sconcerta i suoi elettori. Che cominciano a rifiutarlo.

È un buon metodo il navigare a vista, nel buio? Credo di no. Mi fa pensare a un tizio che inizi a scrivere un libro senza sapere dove andrà a parare, senza uno schema che lo guidi, senza conoscere il finale del racconto. Non si lavora alla cieca. Si rischia troppo. Con il risultato di apparire un autore mediocre, senza qualità.

Fini mi sembra messo così. Il pericolo che corre è evidente: diventare un’occasione mancata per la destra italiana. E risultare un politico privo delle qualità indispensabili a un leader. È questo il ritratto che ha offerto di se stesso nel fantozziano fuori onda di Pescara. Il suo staff ha cercato sminuirne l’importanza e l’ha giudicato un pretesto qualunque per attaccare Fini. Purtroppo per lui, e per chi lo assiste, la faccenda non è per niente banale.

Quel video ci rivela molti aspetti del politico Fini. E nessuno è positivo. Infatti che cosa ci suggerisce la gaffe di Pescara? Prima di tutto che Fini è imprudente, parla a ruota libera con un signore che non ha mai visto e che, per di più, è un magistrato. Poi che le sue esternazioni hanno il timbro della pochezza, sembrano i rimasugli dei fondi di Repubblica. Poi ancora che la sua vanità è al massimo: l’atteggiamento di Fini in quel video è tronfio, si compiace di se stesso e di quanto dice. Infine ci conferma che, dopo tanti anni di professione, il presidente della Camera non ha ancora imparato che anche per un politico il silenzio è d’oro.

Gli spin doctor di Fini dovrebbero consigliargli di tenere la bocca chiusa e di aprirla soltanto nelle occasioni cruciali. Altrimenti si rischia di spacciare banalità sovrane. La Repubblica del 1 dicembre, non smentita, ha stampato la seguente dichiarazione di Fini: «Vorrei che il Pdl fosse come la Dc della Prima Repubblica, della quale rimpiango l’ampio dibattito».

È una battuta sbalorditiva per un leader che vuole guardare al futuro. E che sul motto “Fare futuro” ha costruito una fondazione e un libro. Ma è anche la prova della scarsa cultura storica dell’ex leader di Alleanza nazionale. Lui non sa, o non ricorda, che proprio “l’ampio dibattito” generò nella Balena Bianca il sistema tragico del correntismo.

Insomma, caro Fini, parli di meno e studi di più. E rammenti che le occasioni mancate diventano presto occasioni perdute. Da buttare.

sabato 5 dicembre 2009

Intervista a Stefano Livadiotti de l'Espresso.

Stefano Livadiotti ha scritto un bel libro che mette in luce le pecche della magistratura italica di cui ho già scritto. Adesso, a distanza di quasi un anno dall'uscita del suo libro,  viene intervistato da un collega sempre sullo stesso tema,  la magistratura italiana, la vera supercasta degli intoccabili e impuniti.



«Ma oggi nessuno in Italia sta messo meglio di loro» di Alessandro Da Rold

«Se dopo un anno di lavoro sono riusciti ad arrivare a questi risultati, le tesi del mio libro sono ancora più valide».
Parla Stefano Livadiotti, giornalista dell’Espresso, autore di Magistrati, l’ultracasta, dopo aver letto il dossier del Cepei.

Incominciamo dagli stipendi.
Nel dossier c’è scritto che sono in linea con quelli europei, talvolta anche più bassi.

Una sentenza della Corte dei Conti ha stabilito che in Italia tra il 2001 e il 2005 il monte degli stipendi nel pubblico impiego sia aumentato del 12,1 per cento. La spesa complessiva per la magistratura ha fatto un salto del 26,2 per cento: più del doppio.
Eppure i magistrati a inizio carriera guadagnano poco. Solo quando arrivano all’ultima valutazione conquistano uno stipendio di circa nove mila euro.
Sì certo, probabilmente a inizio carriera incasseranno meno rispetto ai colleghi europei. Ma poi, passati i 28 anni di anzianità, possono ottenere la promozione a giudice della Cassazione. Deve esserci una valutazione per questo, ma questo accade praticamente per tutti, perché circa il 99,6 per cento viene promosso. Non solo, alla categoria è consentito andare in pensione a 75 anni.
Insomma consiglieresti la carriera in magistratura…
E’ come se tra noi giornalisti, con una certa anzianità, diventassimo tutti direttori di giornale. Dopo aver letto questi dati me lo sono anche detto tra me e me: avrei dovuto fare il magistrato.
La magistratura lamenta la mancanza di benefit o premi.
Altra bugia. Basta andare sul sito del Csm e controllare quanti nel 2007 hanno chiesto il permesso per insegnare: ci sono almeno 2.350 domane. Quindi non è vero che non possono ricevere altri introiti.
E rispetto alla mole di lavoro?
Quando Brunetta propose la riforma dei tornelli per i fannulloni, mi documentai sulla situazione dei magistrati. Ebbene c’è una sentenza della sezione disciplinare del Csm del 2005, che stabilisce come da un magistrato ci si aspetti una media di sei ore al giorno di lavoro per 260 giorni. Sono in totale 1.560 ore. Perché, ricordiamolo, questa categoria ha 51 giorni di ferie.
Quindi quanto lavora una toga italiana?
Io ho diviso 1.560 per 365. Il risultato è: 4,2 ore quotidiane. Tieni presente che secondo l’Ocse la media di lavoro in Europa è di circa 1.750 ore l’anno.
E quanto ci costa?
Nel 2006 il budget italiano per i tribunali era pari a 4 miliardi 88 milioni, 109 mila 198 euro. In Francia e Spagna, paesi che possono essere paragonati all’Italia, l’investimento è di 3 miliardi 350 milioni o 2 miliardi 983 milioni. In sostanza, impieghiamo lo 0,26 per cento del Pil per la giustizia, mentre la Francia è ferma allo 0,19.
La spesa pro capite?
Ogni italiano si ritrova a sborsare 23 euro per un pm, mentre un francese è fermo a 11: meno della metà.
La cancelleria, però, è carente in Italia…
Si calcola che ogni magistrato italiano abbia in media circa quattro cancellieri a disposizione, contro i due della Francia.
L’Anm parla di un numero elevatissimo di procedimenti disciplinari. Si discute di un 10 per cento su una data imprecisa.
E’ un dato che avranno ricavato
da un’analisi su un arco di 10 anni. Secondo il Csm, nel 2007 ci sono stati 149 procedimenti, di cui 103 sono stati scartati. Circa il 93 per cento.
E poi?
Altri dati ci dicono che tra il ’99 e il 2006 ci sono stati 1.004 procedimenti disciplinari, di questi l’80,99 per cento non ha ricevuto approvazione. Dei restanti, ci sono state 126 ammonizioni e solo 2 rimozioni. Vuol dire che non solo la maggior parte dei procedimenti è subito scartata, ma quella che viene giudicata non è neppure sanzionata.

sabato 21 novembre 2009

La favola di Pierfrego e Gianfrego, delfini smemorati

C’era una volta un Re che si cresceva due delfini, Gianfrego e Pierfrego.


Crebbero allo stesso modo, con la stessa statura, emiliani entrambi, anche la loro specialità era comune: la politica, e nemmeno il governo o l’amministrazione, ma proprio la politica parlante, tutta video e partito. Non avevano mai fatto altro nella vita che quello, la politica.
Ma per il Re erano i suoi pupi e le sue pupille politiche, erano come per Cornelia i suoi Gracchi e lo affiancavano come due colonnine altoparlanti che sovrastavano lo stereo.

Trovatelli ambedue, Pierfrego aveva perduto la sua famiglia Diccì nel terremoto del ’92, denominato Mani Pulite; Gianfrego, orfano della famiglia Missì, aveva dato alle fiamme la casa paterna, ormai fatiscente. Furono adottati dal Re e portati alla reggia dove in un primo tempo concorsero ad accrescerla e in un secondo si fecero accidiosi, fino a remare contro.
Dopo aver fatto le scuole materne insieme a un privatista irrequieto di nome Umberto, Pier e Gian in età scolare furono mandati a presiedere i parlamenti. Poi Pier decise di far fortuna lasciando la Casa e Gian decise di mettersi in proprio ma senza perdere le comodità della Casa.

Fu la prima volta che si separarono, e bisticciarono pure, ma come siamesi vissero la separazione come un trauma contronatura.
Da tempo si mormora che marciano divisi ma colpiscono uniti, che hanno trescato con altri, Paolo il Mieloso, Luca il Montezuma e perfino Ciccio il Rutello, per far le scarpe al sovrano o più cautamente per succedere a lui. Sarà ma il problema è che e aspirazioni di entrambi si intralciano a vicenda. Però temono ambedue il Terzo Incomodo, dal Gran Ciambellano del Re al Gran Tesoriere di corte, ai gran governatori del Reame.

È comprensibile, più che comprensibile, il loro ammutinamento al Re che li ha cresciuti e adottati. I due ragazzi sono stanchi di fare i ragazzi, vogliono le chiavi di casa e magari sfrattare il padrone di casa; sono stanchi di dire grazie a chi li ha portati alla reggia, vogliono fare per conto loro e sentirsi Capi e non solo Capetti, sovrani e non principi azzurri o promessi sposi. E sono molto pressati e blanditi da amichetti volpini e istruttori potenti, che li portano in cielo ad ogni sberleffo che fanno nei confronti del Re e li riempiono di complimenti.

Tra i due, a dir la verità, c’è qualche differenza di metodo. In fondo Pier non è stato carino con il Sovrano ma è stato leale ad andarsene, perlomeno, mettendosi in proprio. E poi è stato leale con la sua famiglia di origine, non si è mai scordato di essere uno di loro, anzi. Gian, invece, spernacchia il Sovrano ma vive largamente a suo carico, e non è stato leale nemmeno con la sua famiglia d’origine; sarà perché viveva in una casa più povera e malandata, ma ha scontentato sia il sovrano che i suoi stessi parenti.

E ancora: Pier in fondo non ha cambiato le sue opinioni (dai, non chiamiamole idee) e la sua mentalità cristiana (su, non parliamo di valori). Gian, invece, ha cambiato radicalmente anche quelle e querela il se stesso di venti, di dieci ma anche di due anni fa. Dico le opinioni e le posizioni, mica le idee e i valori (dai non scherziamo). Ma è la politica, ragazzi, ed è inutile star lì a menarsela. È inutile invocare la gratitudine, che non è una categoria umana, figuriamoci se può essere una categoria della politica; ma se è inutile invocare la riconoscenza, superfluo è pure pretendere il riconoscimento, cioè la considerazione dei fatti e dei meriti. La politica non è abituata a questo, non si correla con la giustizia e nemmeno con la solidarietà o, per essere più ridicoli, con gli interessi supremi del paese. L’unica cosa
che si può chiedere alla politica è un po’ di intelligenza applicata all’efficacia, quel che in versione plebea è la furbizia o l’opportunismo.

Beh, in nome di quella cosa lì, vorrei dire ai due ragazzi: giocate almeno la partita doppia, ovvero fate pure i vostri conti per il dopo, attrezzatevi per il nuovo giro. Ma in questi tre anni e mezzo che ci separano dalle votazioni politiche, lasciatelo governare, il vostro Re o il vostro Ex, se preferite. E sapendo che governa con un largo consenso popolare, cercate di non soffiare sulla fronda, di non trescare con i suoi nemici; cercate di capire, nel vostro interesse, e non nel suo, che per ereditare un domani il suo consenso dovete cercare più i motivi di continuità che di frattura e ora stargli più vicini.

Poi vi farete il vostro centro senza più il bipolarismo, o la vostra destra senza più la destra, insomma farete il vostro gioco. Ma nell’interesse vostro, non giocate questa partita contro di lui perché si ritorcerebbe contro di voi. Dispiace dirvelo, cari Pierfrego e Gianfrego, ma l’interesse vostro coincide con quello dell’Italia.

di Marcello Veneziani, Il Giornale del 9/11/2009

Una vera storia dell'assedio a Berlusconi


C'è poco da ridere se Berlusconi, intervenendo per telefono a Ballarò, tirato peri capelli afferma di non essere lui l'anomalia italiana bensì la situazione che lo ha costretto a occuparsi di politica anziché degli affari suoi. Comunisti o no, i giudici hanno favorito l'ex Pci, l'unico partito risparmiato da Tangentopoli, quindi destinato a vincere le elezioni nel 1994 per mancanza (fisica) di avversari che non fossero la neonata Lega e il Msi.

Da notare che gli stessi giudici in seguito, sorpresi dall'exploit alle urne del Cavaliere, politico improvvisato, si sono accaniti su di lui con dozzine di inchieste e centinaia di sopralluoghi nell'evidente intento di spazzarlo via e spianare la strada ai compagni. Non è forse andata così? E se è andata così perché non si può dire, perché non riconoscerlo?
Da notare che i lustri passano, ma le cose non cambiano. Berlusconi vince le elezioni e, subito dopo, ricomincia la persecuzione giudiziaria col solito teorema: lui non poteva non sapere. Chissà perché invece tutti gli altri imprenditori e politici - per esempio Gianni Agnelli e Massimo D'Alema - potevano benissimo non sapere quello che succedeva alla Fiat e a Botteghe Oscure e pertanto farla franca. Basterebbe questo a dimostrare che la nostra giustizia, anziché applicare il principio secondo il quale i cittadini sono tutti uguali davanti alla legge, ricorre spesso al più odioso doppio pesismo: e addio uguaglianza.
Ma la sinistra, avvantaggiandosi assai dell'aiutino togato, se ne guarda bene dal riconoscere la palese iniquità del sistema e, lungi dal collaborare per modificarlo, si impegna nella difesa dell'orrendo status quo. Se il quadro non fosse quello descritto, lo strapotere attribuito ai magistrati sarebbe stato da tempo oggetto di una radicale riforma. Riforma che la destra invoca da anni ma invano stante la necessità, per procedere nei cambiamenti, di ritoccare la Costituzione; il che, come noto, richiede una procedura istituzionale lunga, laboriosa e inconcludente il referendum confermativo.
Semplificando. Per sistemare la giustizia e renderla simile nel funzionamento a quella di quasi tutti i Paesi europei, non è sufficiente la maggioranza di centrodestra; servirebbe almeno una quota della opposizione, la quale però non ha interesse ad apportare miglioramenti ad un settore che, per quanto scassato, le dà una mano contro Berlusconi, e di conseguenza respinge qualsiasi proposta di aggiustarlo. Ecco perché siamo allo stallo.
Il Lodo Alfano era soltanto una pezza e non una soluzione, eppure è stato bocciato non tanto perché incostituzionale (figuriamoci se è questo il motivo) quanto perché, se fosse passato, il premier sarebbe stato processato (caso Mills) al termine della legislatura. Mentre ai progressisti preme sia giudicato in fretta, magari già in primavera, e condannato in maniera che - con una sentenza penale sulle spalle - egli venga costretto ad abbandonare in anticipo Palazzo Chigi in barba alla volontà degli elettori.
D'altronde il Pd e i suoi alleati non hanno alcuna chance per ribaltare la frittata: o fanno secco il Cavaliere con armi extrapolitiche o se lo devono godere finché il Padreterno non decida diversamente. E in effetti, il verdetto sarà emesso dal Tribunale presumibilmente subito dopo le Regionali di marzo. Un verdetto scontato che scatenerà il finimondo e darà fiato ai tromboni pronti a pretendere le dimissioni del presidente. Eliminato il quale - essi sperano - il centrodestra imploderà e si dividerà in alcuni spezzoni incapaci di costituire una forza autonoma di governo.
La sinistra è debole, disorganizzata e senza idee tranne una: sa che per rinascere ha bisogno di uccidere l'avversarlo, non importa come. Ciò che conta è ucciderlo, altrimenti continuerà a dominare la scena perché gli italiani non sono stupidi e hanno capito: lui sarà quel che sarà, ma è sempre meglio - e ne ha dato prova - dei suoi detrattori. I quali dunque, rassegnati alla propria insipienza, affidano ai giudici il compito di scalzare l'uomo che considerano l'unico impedimento alla loro resurrezione. Amen.
Se non si tiene conto di questo, non si comprende la presente congiuntura. Né si comprende perché i mezzi di informazione, quasi tutti manovrati dagli amici del giaguaro, siano tanto impegnati nella enfatizzazione delle oggettive (non gravi) difficoltà della maggioranza. L'obiettivo è stressare il Pdl e la Lega, romperne la fratellanza e predisporre il centrodestra allo sfascio dopo che Berlusconi fosse condannato per la vicenda Mills.
Il presidente, consapevole dell'accerchiamento, d'ora in poi suppongo non perderà occasione per denunciare il gioco sporco alle sue spalle. E intervenuto recentemente a Porta a Porta sul Lodo (si ricorderà la battutaccia sulla Bindi) e l'altro ieri ha concesso il bis a Ballarò, un programma che fa del caos, tutt'altro che calmo, un'arma per trasformare la realtà italiana in una sorta di bolgia di cui incolpare il premier. E per montare la confusione è buono ogni pretesto: dalla crisi economica che non finisce alle sofferenze dei disoccupati, alle incomprensioni fra Tremonti e Berlusconi, alle proteste dei giudici, alle cause intentate alla Repubblica e all'Unità, alle disavventure di Marrazzo surrettiziamente collegate alla Mondadori e allo stesso Silvio, agli strepiti della Bindi con il corrivo sostegno del conduttore Floris, specialista nelle entrate a gamba tesa contro qualunque ospite non funzionale al disegno dei compagni, una mappazza tossica utile a dare ai telespettatori la sensazione che non si possa più andare avanti così, e che il Paese meriti uno scossone rivitalizzante. La parola d'ordine dei progressisti è scandalizzare. Già, perché lo sdegno morale offusca i fatti.
C'è da registrare un fenomeno allarmante: certi metodi in voga nella sinistra cominciano ad attecchire anche nel centrodestra. Se ne è avuta conferma a Porta a Porta, l'altra sera, durante la discussione su quanto capitato a Marrazzo a cui partecipavo anch'io. A un certo punto Lupi, vicepresidente della Camera (Pdl) si è un po' lasciato andare alla moda di intorbidare le acque e, desiderando criticare il giornalismo a sfondo sessuale, ha accomunato le storie dei trans ai pettegolezzi sul Cavaliere e alla faccenda Boffo come se fossero tutte uguali e fossero uguali i giornali che le hanno trattate.
Nella foga, egli ha coinvolto anche il Giornale nella sua ramanzina contro i cronisti. Errore imperdonabile. Perché noi su Boffo non abbiamo fatto pettegolezzi ma discettato di un reato da lui commesso e per il quale il direttore dell'Avvenire è stato condannato da un Tribunale della Repubblica. Da un vicepresidente della Camera ci si aspettava una distinzione fra chiacchiere e notizie ufficiali, pubbliche per definizione se provenienti da un casellario giudiziale.
Niente, per lui un reato (molestie a sfondo sessuale) e un resoconto da portineria sono la stessa cosa, ingredienti della medesima zuppa.
Caro Lupi, d'accordo che siamo nel marasma, ma almeno lei non contribuisca ad incrementarlo. E lasci stare il Giornale, che non è il suo tappetino.

di Vittorio Feltri, Il Giiornale del 29/10/2009

Baraonda politica

Altro che rivoluzione copernicana. Nella sinistra cambia tutto e non è detto cambi in meglio.
 

È l`effetto Bersani che, a differenza di Franceschini (esecutore testamentario di Walter Veltroni), non appena giunto alla segreteria del Pd tramite la farsa delle primarie, annuncia:
rimetto in piedi il vecchio Ulivo prodiano, con o senza Prodi si vedrà, e richiamo immediatamente in servizio gli amati comunisti italiani, i rifondaroli e i verdi. Immagino la felicità dei lettori alla fausta notizia della rianimazione di Pecoraro Scanio; so che avevano nostalgia di lui.
In pratica il neocapoccia dell`ex Pci, nella speranza illusoria di battere il centrodestra,
anziché fare un passo avanti rispetto ai suoi due predecessori, ne compie cento indietro e torna al rosso antico, quando le Botteghe erano ancora Oscure. I progressisti progrediscono a ritroso per ritrovare l`unità e tentare di avere i numeri almeno allo scopo di far paura al Cavaliere.
L`idea dello spezzatino in salsa rubra a dire il vero non è un`esclusiva di Bersani; era venuta per primo a Massimo D`Alema il quale aveva fatto il conto della serva. Il Pd infatti, secondo calcoli basati sulle recenti votazioni politiche, attualmente possiéde un 26-28 per cento.
Con quel mattacchione supergassato di Di Pietro, la percentuale sale ottimisticamente a 35.
Ma se ci aggiungi i prepensionati, e cioè comunisti italiani e rifondaroli, il dato può superare il 40 per cento.
Buttiamoci sopra una spruzzatina di verdi ambientalisti, ed eccoci al 43-44. Oddio, tra il dire e il fare c`è di mezzo un mare in cui l`annegamento è una probabilità concreta, comunque sognare non è vietato neanche alla sinistra spelacchiata. E’ un piano rétro, quello di Bersani-D`Alema, però è un piano. Quanto alla sua realizzazione, bisognerà vedere cosa ne pensano gli italiani. La mia personalissima impressione è che, già strinati dal minestrone di Prodi, non abbiano alcun desiderio di riscaldarlo per scottarsi un` altra volta. Ma saranno le urne a confermare o smentire questa opinione. Il fatto è che il Pd non crede più in se stesso e nella possibilità di svilupparsi autonomamente, per cui gioca l`unica carta rimasta: quella di recuperare i riservisti della falce e martello.
Però fa tristezza costatare che nell`Italia bipolare del Terzo Millennio il polo d`opposizione, per apparecchiarsi contro i berlusconiani, è obbligato a ripescare i comunisti residuali, gente più adatta al museo delle cere che
al Parlamento. Non tutti nel Pd hanno apprezzato il nuovo corso e qualcuno minaccia di levare le tende.
Francesco Rutelli le ha tolte subito e, in men che non si dica, è diventato democristiano, avendone a vocazione da vari mesi. Ha fatto la valigia e ha chiesto, ottenendolo, asilo politico a Pier Ferdinando Casini ben lieto di offrirgli una branda e un avvenire senza sole ma pur sempre ricco di poltroncine, garanzia fondamentale per continuare a non lavorare. Rutelli nell`abbandonare il tetto di Bersani ha rilasciato una dichiarazione sibillina: non vado via solo. Il che significa che i transfughi saranno almeno due. A Casini auguriamo siano anche di più.
Nel terremoto di giornata si segnala un altro scossone. Marrazzo si è dato malato come risulta da certificato medico prontamente esibito. E siccome i malati non si licenziano neppure dalla Regione Lazio - potenza del welfare esteso alle cariche elettive - il signor presidente consolida la sua posizione di sospeso per aria. Risultato, zero dimissioni e niente elezioni anticipate fino al termine della mutua; durata trenta dì, festivi inclusi.
A volte la salute viene meno provvidenzialmente. In questo caso consente al Pd di guadagnare tempo e di far dimenticare agli elettori del Lazio la triste vicenda dei trans penalizzante sotto il profilo dei consensi.
Intanto si apprende un particolare agghiacciante per chi sia spilorcio o povero: Marrazzo spendeva cinquemila curo onde soddisfare ciascuno dei propri capricci eterodossi. Ammazza che botta. D`altronde la vita è cara e richiede sacrifici. All`ultima voce del menu romano, c`è l`aspirante vicepremier, Tremonti, a cui Berlusconi ha tarpato le ali con una bocciatura, per altro ampiamente prevista dal Giornale. Il ministro dell`Economia resta però al suo posto, e questo gli fa onore. In certi momenti il Cavaliere è portato a dire sì anche se vorrebbe dire no; in altri dice no anche se vorrebbe dire sì. Nella presente circostanza il no è stato netto e così motivato: l`Economia sono io, ha detto Silvio. Vietata ogni replica. Tremonti non ha replicato e, pare, nemmeno commentato. E un uomo che capisce al volo e sa stare al mondo.

di Vittorio Feltri, il Giornale del 27 ottobre 2009

martedì 3 novembre 2009

Polito vs. D'Avanzo

Per costringere un Direttore di un quotidiano serio e affidabile a scendere sul personale, vuol dire che qualche giornalista l'ha combinata veramente grossa.
Ma poi leggendo il nome del giornalista che l'ha combinata, tutto si ridimensiona.
Ecco il fatto.


Io e D'Avanzo
di Antonio Polito






Questa non me l'aveva ancora mai detta nessuno. Sarei alla dipendenze di Signorini: sì, proprio quello di Chi, l'esperto di gossip. Lo scrive D'Avanzo, su Repubblica: «Signorini consiglia, indica, sollecita. Combina non soltanto le scelte dei direttori dei media berlusconiani, sovraordinato a Vittorio Feltri, capataz del giornale di famiglia, ma anche delle testate del gruppo Angelucci (Libero, Riformista)».
Conosco Giuseppe D'Avanzo dagli anni '70, da quand'era un giovane cronista di Paese Sera a Napoli. E mi domando che gli è successo. Insomma, una volta trovava notizie, e di prima qualità. Ora passa il tempo a fabbricare teoremi. Mentre Fiorenza Sarzanini del Corriere scovava la D'Addario e lo scandalo delle escort, lui era lì a menarsela con le dieci domande a Berlusconi (è vero che sei malato? è vero che ti tira troppo? la minorenne la toccavi o no?). Mentre della «sezione affari riservati» di Chi, il Riformista aveva scritto già sei giorni fa in prima pagina, firma di Fabrizio d'Esposito, titolo inequivocabile: «Il sistema Signorini-Berlusca», D'Avanzo se ne è accorto ieri su Repubblica.

Di suo D'Avanzo ci ha aggiunto la solita prosa truculenta e qualche offesa gratuita. Ma le notizie, come al solito, latitano.

L'ultimo teorema di D'Avanzo è sostanzialmente questo: Berlusconi ha mandato due carabinieri a incastrare Marrazzo e poi, non riuscendo proprio a far pubblicare il video da nessuna parte, lo ha offerto a Marrazzo medesimo; di conseguenza, deve essere condannato a otto anni di reclusione per ricettazione di materiale proveniente da un reato. Complimenti. Chissà se ci scriverà sopra dieci nuove domande. Chissà se chiederà al Pd di farne un'interpellanza parlamentare. Se c'era ancora Franceschini, magari gliela faceva.

Ma l'impazzimento di D'Avanzo sono affari suoi. Gli affari miei sono che io non ho mai preso ordini da nessuno, tranne che dai miei direttori; e se proprio un giorno decidessi di prenderne da qualcuno, l'ultimo che mi verrebbe in mente sarebbe Signorini (per quel poco che li conosco, mi fa ridere anche pensare che Feltri e Belpietro si facciano dire che fare da Signorini). A D'Avanzo vorrei dire questo: va bene che tu non prendi ordini nemmeno dal tuo direttore, ma come ti può venire in mente di giudicare della libertà degli altri? Che cosa ti dà il diritto di presumere che il giornalismo o si fa come lo fai tu o è un giornalismo venduto? Quale superiorità morale ti dà il fatto di raccogliere regolarmente notizie da poliziotti e 007?

Perché se tu decidi di «bucare» la notizia del video di Marrazzo, di cui ti avevano avvertito, sei un giornalista onesto; e se lo fa Minzolini con le storielle di sesso del Berlusca è un fazioso? Non è che tu proteggi i tuoi come il giornalismo di destra protegge l'Amato Loro? E poi ci fai anche la morale?

A tutti voi lettori, invece, vorrei chiedere questo: non concordate con me che è proprio questo stile, questa doppia verità, questa mancanza di equilibrio, questa arroganza della sinistra davanzata a spiegare perché gli italiani continuano a tenersi Berlusconi? Molti altri buoni motivi, d'altra parte, non ce ne sono.


Fonte: Il Riformista del 2/XI/2009

lunedì 26 ottobre 2009

I magistrati sbagliano ma non pagano pegno MAI

Dopo le recenti paginate mediatiche sul giudice di Milano con i calzini sgargianti che oltre alla promozione sono serviti a dargli anche la scorta a nostre spese, oppure dell'ordinanza del divieto di dimora in Campania per la moglie di Mastella che nella sua qualità di presidente del consiglio regionale dovrà comunque andare a Napoli, ma da molto più lontano rispetto a Ceppaloni e a nostre spese,  per rinfrescarci la memoria pubblico uno studio sulla SuperCasta dei magisttrati, come l'ha definita Livadiotti nel suo omonimo libro, realizzato da una docente universitaria e riportato per sommi capi dall'Opinione.



I magistrati sbagliano ma non pagano pegno
di Dimitri Buffa 






Che criteri adotta la sezione disciplinare del Csm nel giudicare ed eventualmente sanzionare i ritardi dei magistrati nel deposito delle sentenze o altri provvedimenti o nello svolgimento delle attività di ufficio? Lo studio più completo finora svolto in proposito riguarda un periodo compreso tra il 1995 e il 2002 ed è stato fatto da una ricercatrice dell’Università di Bologna, la docente Daniela Cavallini. Se la si vuole mettere sui dati crudi e brutali il risultato è questo: su 251 incolpati, quelli non condannati sono risultati essere 196 e quelli invece sanzionati 55. Ma è sulle sanzioni che si gioca la differenza tra una giurisprudenza di tipo “domestico” come tutti sanno essere quella del Csm e una di tipo effettivo: ebbene di quello scarso numero di magistrati “condannati” nessuno è stato destituito o rimosso dall’ufficio, solo 7 hanno perso l’anzianità, uno solo è stato dispensato dall’ufficio precedentemente ricoperto, mentre gli altri 47 sono stati semplicemente “ammoniti” (34) o “censurati” (13). Sanzioni, che, a prescindere dalla gravità dei fatti contestati, di fatto non turbano i sonni di chi si vede costretto a subirle. Né cambiano di molto la rispettiva carriera in magistratura. Un’altra cosa che pochi sanno, anzi forse quasi nessuno, è che le sentenze della disciplinare sono impugnabili dai magistrati secondo le norme ormai non più in vigore del codice Rocco davanti alle sezioni civili, e non penali, della Cassazione. Cosa che porta altri vantaggi di casta alla categoria. Una norma transitoria della riforma del codice di procedura penale del 1989 ha infatti lasciato in vigore il codice Rocco solo per i giudici.

A proposito della confusione di ruoli, nello studio della Cavallini si legge fra l’altro che “...l’accertamento, nel comportamento del magistrato, dei connotati oggettivi e soggettivi di rilevanza disciplinare costituisce un apprezzamento di merito rientrante nell’insindacabile valutazione della sezione disciplinare del Csm.” Neanche le sezioni unite civili della Corte di cassazione, in sede di impugnazione, possono sindacare nel merito la valutazione già compiuta, dovendosi limitare ad un riesame di sola legittimità. Questo in teoria, perché, sempre per i magistrati, la Suprema Corte accetta di entrare anche nel merito in caso di motivazioni “illogiche o contraddittorie”. Cosa che fino a pochi anni fa valeva anche per i comuni mortali, mentre ora non più. Di fatto comunque le già basse percentuali di condanna possono venire vanificate alla fine di un iter burocratico giudiziario non previsto per nessun altro cittadino italiano. Nel merito della giurisprudenza che si è andata così formano, secondo l’orientamento della sezione disciplinare del Csm, scrive la Cavallini, “il semplice ritardo nell’adozione di provvedimenti giudiziari non costituisce di per sé illecito disciplinare”. E questo è dovuto anche al fatto che mentre il codice di procedura penale e quello di procedura civile sanzionano le inadempienze degli avvocati con un regime di “perentorietà” (cioè di decadenza dai diritti), per quel che riguarda i ritardi e le inadempienze dei magistrati il regime diventa “ordinatorio”, con una serie di escamotage che di fatto permettono di sanare quasi tutte le cause di nullità.

La richiesta di abolire questa disparità è stata per anni un cavallo di battaglia dei Radicali di Pannella che hanno anche proposto un referendum, non capito dalla gente nella sua essenzialità. Infine i criteri di decisione nelle motivazioni della disciplinare utilizzano questo metro: “Il fatto illecito sorge soltanto laddove il ritardo dipenda da negligenza o neghittosità, cioè sia sintomo di inerzia, scarsa operosità, indolenza del magistrato e non trovi giustificazione in situazioni di forza maggiore o altri impedimenti a lui non imputabili”. Non basta, per arrivare a una qualche forma di blanda condanna deve essere anche accertato “...se il ritardo caratterizza quasi la metà (o più della metà) del lavoro svolto dall’incolpato, se non è un episodio isolato ma costituisce la normalità, se è sistematico e crescente nel tempo, se è superiore ad un anno (due anni o tre anni), se riguarda un lasso di tempo considerevole dell’attività del giudice, se attiene a settori ”delicati“ come quello del lavoro o della previdenza...”. Solo quando tutti questi criteri saranno soddisfatti, i giudici della disciplinare accetteranno il fatto che un siffatto comportamento “...denota indubbiamente una certa incuria del magistrato”.
Bontà loro.

Da: l'Opinione del 19/09/2008. pg.4

Ancora Province? E sì, tanto paga Pantalone!

Vi riporto un interessante articolo dei "soliti" Rizzo e Stella, i giornalisti che hanno scritto La Casta, il libtro capostipite del filone letterario del malcostumne italico, che pur provocando uno scandalo enorme, per la virtù italiana che il tempo fa dimenticare tutto, i nostri politicanti passata la festa (le promesse sotto elezioni), gabbano il Santo (noi popole bue).
Bene fanno Rizzo e Stella a non farci diventare degli smemorati cronici.


E i camuni gridarono: una provincia anche a noi
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

E i Camuni? Niente ai Camuni? Deciso a vendicare l’ingrata storia, il deputato leghista Davide Caparini ha deciso di tirare dritto: vuole a tutti i costi la nuova Provincia della Valcamonica. Capoluogo: Breno, metropoli di 5.014 anime. Direte: ancora un’altra provincia? Ma non avevano promesso quasi tutti di abolirle? Certo: prima delle elezioni, però. Promessa elettorale, vale quel che vale. Tanto è vero che il disegno di legge per sopprimerle, presentato alla Camera dalla strana coppia Casini & Di Pietro, è già morto. Se dovesse passare l’iniziativa camunica del parlamentare del Carroccio, quella con capitale Breno (inno ufficiale: «E su e giù e per la Valcamonica / la si sente la si sente...») sarebbe la provincia numero 110. Quando nacquero nel 1861, al momento dell’Unità d’Italia, erano quasi la metà: 59. Distribuite sul territorio con un criterio semplice: dovevi attraversare ciascuna in una giornata di cavallo. Nel 1947 erano già 91. E col passaggio dagli equini alle autoblu, hanno continuato ad aumentare, aumentare, aumentare a dispetto del proposito dei padri costituenti, che avevano previsto la loro abolizione con l’arrivo delle Regioni, fino a diventare 95 e poi 102 e su su fino a 109 grazie a new entry e soprattutto al raddoppio (da 4 ad 8) di quelle della Sardegna. La quale con l’Ogliastra (57.960 abitanti, due terzi di Sesto San Giovanni) mise a segno il capolavoro, la provincia a due teste: Tortolì (10.661 anime) e Lanusei, che di anime ne ha ancora meno: 5.699. Un record mondiale. Che con l’arrivo di Breno verrebbe stracciato in attesa di nuove province e nuove capitali tipo Quinto Stampi, Pedesina, Zungri, Maccastorna, Carcoforo... Direte: ma dai, Carcoforo! Perché no, scusate? Se la provincia è indispensabile per essere vicina ai cittadini, cosa han fatto di male i carcoforesi per non avere anche loro una provincia? Quanto costino lo ha calcolato l’anno scorso il Sole 24 Ore: 17 miliardi di euro. Con un aumento del 70% rispetto al 2000. Da dove arrivano i denari? Un po’ dai trasferimenti. Parte dal prelievo del 12,5% sull’assicurazione delle auto e delle moto: 2 miliardi nel 2007, il 54% in più rispetto al 2000. Più aumenta l’assicurazione, più intasca la Provincia. Altri quattrini arrivano dall’imposta provinciale di trascrizione: le annotazioni al Pubblico registro automobilistico che doveva essere abolito. Ci sono poi un’addizionale sulla bolletta elettrica e il tributo provinciale per l’ambiente.

Come mai i cittadini non si arrabbiano? Occhio non vede, cuore non duole: sono tutte tasse dentro altre tasse. Non si notano. Va da sé che a quel punto, ignaro delle spese, il cittadino vede titillato il suo campanilismo. Come nel caso della provincia di Fermo nata dalla divisione di quella di Ascoli Piceno. Una specie di scissione dell’atomo: da una piccola provincia ne sono nate due minuscole. In compenso, al posto di un solo consiglio da 30 membri, ne sono nati due da 24: totale 48 poltrone. Per non dire della provincia a tre piazze di Barletta-Andria-Trani, chiamata così per non far torto ai permalosi cittadini dell’una o l’altra capitale. Quanti sono i comuni di quella nuova Provincia? Dieci in tutto, sono. Il che, diciamolo, aumenta la pena per i sette tagliati fuori dal nome: Bisceglie, Trinitapoli, Minervino Murge. E la targa automobilistica? «BT». Rivolta: «E Andria? Non si può fare “Bat”?». «No, quella è di Batman».

C’è da sorridere? Mica tanto. Sull’abolizione delle province, infatti, fu giocato un pezzo dell’ultima campagna elettorale. «Aboliremo le Province, è nel nostro programma», disse Berlusconi a Porta a porta il 10 aprile 2008. «Ma la Lega sarà d’accordo?», eccepì Bruno Vespa. E lui: «La Lega è composta da persone leali». «Presidente, che cosa ha previsto per abbassare i costi folli della politica?», gli chiese la signora Ines nella chat-line al Corriere. E lui: «La prima cosa da fare è dimezzare il numero dei parlamentari, dei consiglieri regionali, dei consiglieri comunali». E le Province? «Non parlo delle Province, perché bisogna eliminarle». Mostrava di crederci al punto, il Cavaliere, che cercava sponde: «Se Veltroni ci darà una mano...». La linea veltroniana, del resto, era già stata dettata: «Cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi comuni metropolitani». Posizione confermata a Matrix: «All’abolizione delle province penso ci si possa arrivare. Ma non sono un demagogo. È facile dirlo in campagna elettorale...». Il socio fondatore del Pdl Gianfranco Fini era d’accordo: «I carrozzoni non sono intoccabili e si possono abolire per esempio le Province». Una tesi già benedetta da altri. Come l’ex ministro degli Interni azzurro Giuseppe Pisanu: «Le Province ormai non hanno più senso».

Qualche settimana dopo le elezioni il capo del Governo sventolava il primo trionfo, riassunto dai tg amici con titoli così: «Abolite nove Province». In realtà nove province cambiavano soltanto nome. D’ora in avanti si sarebbero chiamate aree metropolitane. Un ritocco semantico. Ma naufragato lo stesso. Poi cominciarono i distinguo. «C’è un solo punto nel programma in cui ho difficoltà serie con gli alleati, l’abolizione delle Province. La Lega ha una posizione molto ferma», confessò Berlusconi nel dicembre 2008. «Sono enti inutili, ma non riusciremo a cancellarli in questa legislatura», confermava Renato Brunetta. Di più: nel disegno di legge sulle autonomie locali definito dal ministro Roberto Calderoli non solo sopravvivevano. Venivano addirittura rafforzate, con la possibilità di riscuotere tasse proprie.

Vero è che Bossi aveva eretto un muro insormontabile: «Le Province non si toccano». Ma che la marcia indietro collettiva sia stata dovuta solo all’altolà del Carroccio non si può dire. Basti rileggere quanto affermò il deputato del Pd Gianclaudio Bressa nell’ottobre scorso: «Non siamo d’accordo con l’abolizione delle Province, né abbiamo mai detto di esserlo in passato. È ora di finirla con questa mistificazione». E quello che diceva Veltroni? Coro democratico: Veltroni chi? Ma è niente in confronto alle contraddizioni della maggioranza. Dove Sandro Bondi, da coordinatore forzista, era a pié fermo al fianco del Capo: «Aboliamo le Province. Sono un diaframma inutile fra i Comuni e le Regioni». Era il 14 luglio 2007: qualche mese dopo, con marmorea coerenza, si candidava alla presidenza della Provincia di Massa Carrara.

E meno male anche per lui (oggi ministro) che non ce l’ha fatta. Sennò sarebbe andato a ingrossare la folta schiera dei fedeli di sant’Alfonso Maria de’ Liguori al quale Dio concesse il dono della bilocazione. Cioè quei politici che sono insieme assisi su due poltrone: quella di parlamentare e quella di presidente provinciale. La legge dice che il presidente di una Provincia o il sindaco di una città con oltre 20 mila abitanti non può essere eletto parlamentare? Sì, ma non dice il contrario. Così i casi di doppio o triplo incarico si sono moltiplicati. Adesso sono nove, di cui sei pidiellini: c’è il presidente foggiano Antonio Pepe, quella astigiana Maria Teresa Armosino, quello avellinese Cosimo Sibilia, quello salernitano Edmondo Cirielli, quello napoletano Luigi Cesaro, quello ciociaro Antonio Iannarilli... Poi ci sono gli «ubiqui» della Lega: il presidente biellese Roberto Simonetti, quello bergamasco Ettore Pirovano e quello bresciano Daniele Molgora, che è anche sottosegretario all’Economia: un esempio di trilocazione mai tentato neppure dal santo fachiro Sai Baba capace al massimo di apparire insieme nell’Andra Pradesh e a Toronto. Chiederete: ma come fa uno a stare in tre posti diversi? La risposta la può forse suggerire lo stesso Pirovano. Il quale il 27 luglio scorso, mentre teneva la giunta a Bergamo, votava alla Camera a Roma materializzandosi grazie al tesserino usato al posto suo dal collega Nunziante Consiglio. Il quale, pizzicato da Fini, disse: «Era un gesto innocente, pensavo stesse per arrivare...». Ma se di lunedì ha la giunta! «Oh signur, credevo fosse martedì...».
da: Corriere della Sera del 14 ottobre 2009, pag. 1