sabato 20 dicembre 2008

Magistrati, la vita è bella

Uno dei tanti motivi del mancato funzionamento della giustizia in Italia è ben descritto in questo articolo di Dimitri Buffa.

Nel decennio tra il 1993 e il 2003 il Csm accordò ai propri protetti della casta in toga qualcosa come 15 mila e rotti incarichi giudiziari. Cioè oltre mille l’anno. Nel 2004, finalmente, l’ex Casa delle libertà tramite il ministro guardasigilli dell’epoca, l’ottimo Roberto Castelli, si inventò una legge, che dopo varie traversie divenne effettiva nel 2006 e che avrebbe dovuto ridurre all’osso questo tipo di prebende. Purtroppo, però, subito dopo venne Mastella, e dopo un anno di governo del centro sinistra i privilegi furono ristabiliti e nessuno li ha tolti più. Risultato? Se si va sul sito del Csm , visto che almeno la pubblicità degli incarichi non se la sono potuta rimangiare, si scopre che solo quest’anno, nel periodo tra maggio e novembre, sono stati accordati oltre 620 di questi incarichi. Cui si aggiungono i 265 giudici distaccati fuori ruolo cui anno per anno il Csm riconferma la possibilità di fare il lavoro del magistrato, meglio di fare lobbying per la categoria, all’interno dei ministeri, di Palazzo Chigi, della Corte costituzionale (dove di fatto sono i fuori ruolo a preparare e in definitiva anche a orientare le decisioni dei giudici della Consulta con le ricerche giurisprudenziali da loro svolte), al Csm, al Dap, in via Arenula e così via. Insomma dappertutto tranne che nei palazzi di giustizia. Dove d’altronde ci pensano già i loro colleghi a fare il buono e il cattivo tempo.

Nel giorno in cui il Capo dello Stato spezza una lancia a favore della intangibilità della Costituzione per quel che riguarda la giustizia, e la cosa notoriamente non è vera perché la Costituzione tranne che negli articoli fondamentali, che sono i primi, può comunque essere cambiata, è bene ricordare quanti giudici vivono tuttora borderline con la Costituzione facendo un lavoro diverso da quello per cui sono diventati magistrati. E ponendosi spesso in conflitto di interessi con le proprie inchieste o con i propri giudizi. Quando non in una posizione di corruttibilità teorica. Qualche settimana orsono solo la pattuglia dei Radicali italiani guidata da Rita Bernardini ha fatto battaglia in aula perché venissero resi noti i compensi dei magistrati fuori ruolo e perché il governo prendesse una posizione in merito. E’ andata male. Però almeno sappiamo che il problema esiste e sappiamo anche alcuni dettagli che ci possono aiutare a inquadrarlo. Tra l’altro proprio in uno studio recente di Bankitalia sulla giustizia civile, a proposito degli incarichi extra giudiziari, si afferma che “essi sono la conseguenza della demotivazione dei magistrati alla meritocrazia”. E questo visto che la loro progressione in carriera e nello stipendio è pressoché automatica. Insomma i giudici, demotivati dall’egualitarismo sessantottino della legge Breganza (quella che, per usare le parole del Presidente della repubblica emerito Francesco Cossiga, permette a qualunque pretore di farsi fare i biglietti da visita “in fieri”, da usare 20 anni dopo, come primo presidente della Cassazione) adesso si rivolgono all’esterno della loro professione cercando nuovi stimoli o nelle carriere politiche oppure in questi incarichi. Dentro o fuori dal ruolo di magistrati.

L’Ucpi, Unione delle camere penali italiane, che nella persona dell’avvocato Bartolo Iacono, ha fatto una ricerca ad hoc sul problema, ci segnala che, ad esempio, “attualmente alla Corte Costituzionale sono assegnati ”fuori ruolo“ 28 magistrati (fonte CSM aggiornata all’11 settembre) e 7 in posizione part – time con ”incarico extragiudiziario autorizzato dal CSM“. Non basta, al Csm Oltre ai magistrati eletti (16) attualmente sono distaccati ”fuori ruolo“ 17 magistrati (segretario generale (1) , addetti alla segreteria (11), addetti all’ufficio studi e documentazione (5). Infine alla presidenza della Repubblica i magistrati attualmente collocati fuori ruolo sono tre. Uno di questi è Consigliere per gli Affari dell’amministrazione della giustizia. Non si contano poi, quelli in servizio a via Arenula, che sono altri 58, quelli che si imboscano in missioni all’estero, tipo insegnare il diritto ai futuri magistrati afghani, che sono altri 34, quelli negli altri ministeri, sempre con posizioni preminenti di consiglieri giuridici (come se i consigli sulla legge potessero darli solo i giudici e non anche gli avvocati o i professori universitari delle varie branche del diritto, ndr) che sono altri 27, quelli presso la Presidenza del Consiglio, altri 14, e quelli presso le varie ”Authority“, cioè altri 15.

Se si sommano quelli che lavorano all’ispettorato tra via Arenula e via Silvestri, che sono altri 17, più i cinque del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e gli altri cinque dell’ufficio legislativo del ministro, più altri sparsi si arriva alla somma di 264 unità. Che includono anche 12 magistrati che sono sotto mandato parlamentare, 3 sotto mandato di amministrazione regionale e altri 3 sotto mandato di amministrazione comunale, più 9 in aspettativa varia. Non pervenuti come le temperature che leggeva Bernacca quando si arrivava a Santa Maria di Leuca. Forse Napolitano farebbe bene a occuparsi di loro prima che dei presunti vulnus alla Costituzione che porterebbero alcune sacrosante riforme che solo ora Berlusconi dice di volere fare. Oltre alla quantità di queste presenze estranee in altri rami della amministrazione statale, c’è anche un problema di qualità della legislazione e dell’attività ordinaria degli organi amministrativi e esecutivi: se sono sempre e solo i magistrati a consigliare, supervisionare, scrivere leggi ed applicarle, fatale che si creerà con loro la categoria orwelliana di ”quei maiali che erano più uguali degli altri maiali“. In nessun altro paese al mondo i magistrati hanno così tanto potere dentro e fuori dal loro ordine giudiziario. Questo sì che è un vero problema costituzionale caro presidente Napolitano.

da L'Opinione del 16 dicembre 2008, pag. 2.

sabato 13 dicembre 2008

GIUSTIZIA: ALTRO GIRO, ALTRA GIOSTRA!

I meandri della gIUSTIZIA italiana che ancora qualcuno si ostina a non voler rinnovare.

Qualche anno fa, precisamente il 2006, molti media nazionali riportarono - sbagliando - come una sentenza quella che era invece una richiesta del pubblico ministero sfavorevole all'operatore telefonico H3G, denominato comunemente 3.

Ebbene, a distanza di tre anni, la sentenza vera e propria non è stata ancora emessa. Perchè?

Vediamo di ricostruire i fatti che ci riguardano da vicino essendo anch'io un cliente di 3.

Ricostruzione affidata ad un articolo dell'epoca:

"Tre non può bloccare i cellulari. Il giudice: si usino con tutte le sim

MILANO - "Craccare" un telefonino non è reato penale. Quei 500 mila italiani da un anno nel mirino della magistratura perché hanno sbloccato i "lacci elettronici" che impediscono di utilizzare il loro cellulare "3" con la scheda di un altro gestore possono tirare un sospiro di sollievo. Lo ha deciso il pubblico ministero Gianluca Braghò chiedendo l'archiviazione del procedimento aperto nel luglio 2005 in seguito ad una querela presentata da H3G, la società che controlla il marchio "3" e da LG Electronics. Nessun rischio di tipo penale, quindi, né per i possessori dei telefonini né per la miriade di "chioschi" che in passato reclamizzavano apertamente la possibilità di sbloccare i videofonini per 20 o 30 euro. La storia è semplice. Per consolidare la propria posizione nel mercato "3" ha venduto milioni di sofisticati videofonini a prezzi molto convenienti, anche ad un terzo o a un quarto del loro valore. L'unica condizione era l'impegno a restare fedeli per almeno un anno (più spesso due) alla stessa "3". A difesa di questa promessa faceva buona guardia l'operator lock, un dispositivo elettronico che in teoria avrebbe dovuto bloccare il telefonino qualora si fosse cambiata la Sim con quella di un concorrente. In teoria. Perché secondo la polizia mezzo milione di italiani si sono fatti sbloccare il cellulare grazie ad un software reperibile su Internet. E hanno quindi utilizzato le schede ricaricabili a buon mercato dei gestori concorrenti.
Nel luglio del 2005 la "3" è ricorsa alla magistratura ipotizzando reati come accesso abusivo ad un sistema informatico, frode informatica, detenzione abusiva di sistemi d'accesso. E ha chiesto al giudice di intervenire "per ripristinare la legalità nel mercato dei servizi per la comunicazione mobile". Secondo il giudice, però, le richieste de la "3" sono infondate. Il motivo: il telefonino è di proprietà dell'utente che, per definizione, non può violare qualcosa che è suo.

"Anche il buon senso", è scritto nella sentenza, "suggerisce che il cliente una volta ricevuto il video telefonino si comporta uti dominus potendo utilizzarlo a suo piacimento". Quanto allo sblocco del cellulare "altro non è che una violazione contrattuale". Insomma, niente di penale. Al massimo "3" potrebbe fare una causa civile ai suoi clienti.

Braghò osserva inoltre che "in base ad un'indagine a campione" effettuata fra i rivenditori di "3" gli acquirenti dei videofonini "difficilmente sono posti nella condizione di conoscere le clausole contrattuali poiché al momento dell'acquisto non viene sottoscritto alcun contratto". Anzi, nella richiesta di archiviazione si precisa che nei locali di vendita non sono affisse le condizione generali di contratto. E dunque, anche per questo motivo, va escluso il dolo."

La Repubblica del 29 giugno 2006), pag. 37

Per sapere chi ha ragione quanto ancora dovremo attendere?

Si è perduto il fascicolo, il giudice è andato in ferie, e ammalato, è stato trasferito, è defunto e non è stato sostituito? Oppure la sentenza è stata emessa e imboscata perchè favorevole agli utenti...oppure?

Una qualsiasi risposta ci potrebbe stare bene, purché non continui questo assordante silenzio.

Di quale prestigio parla l'articolista?

Il prestigio infranto


• da La Repubblica del 5 dicembre 2008, pag. 1


di Giuseppe D'Avanzo


Si può immaginare che Silvio Berlusconi se la goda come mai se l'è goduta negli ultimi quattordici anni di conflitto frontale con la magistratura. Mai Berlusconi e con Berlusconi tutti coloro che hanno in odio il controllo giurisdizionale hanno avuto un giorno di così vittoriosa, piena, gratificante gioia come questo giovedì 4 dicembre 2008. È una data da annotarsi perché sotto questa luna la magistratura, come ordine (potere) dello Stato, autonomo e indipendente da qualsiasi altro potere, raggiunge il punto più basso del suo prestigio istituzionale; livelli infimi di attendibilità, di rispetto di se stessa, di ossequio alle regole.


Si infligge da sola, come in preda a una follia autodistruttiva, un'umiliazione che lascerà tracce durevoli. Coinvolge nella mischia, ingaggiata irresponsabilmente da due procure (Salerno, Catanzaro) anche il capo dello Stato. Giorgio Napolitano chiede notizie e, se non segreti, atti dell'inchiesta che i due uffici, come bambini prepotenti e irresponsabili, si sequestrano e controsequestrano accusandosi reciprocamente di reato.


Non c'è nessuno che si salva in questa storia, da qualsiasi parte si guardi. La procura di Salerno indaga, su denuncia di Luigi De Magistris, sugli ostacoli che hanno impedito al magistrato di concludere le inchieste Why Not e Poseidone. Mette sotto accusa i procuratori di Catanzaro; il procuratore generale della Cassazione che ha promosso il provvedimento disciplinare contro De Magistris; il sostituto procuratore generale che ha sostenuto l'accusa al palazzo dei Marescialli; il vicepresidente del consiglio superiore e, nei fatti, l'intero Consiglio.


Con un decreto di perquisizione di 1.700 pagine (1.700!) porta via da Catanzaro i fascicoli delle inchieste ancora in corso. La procura di Catanzaro replica che l'iniziativa è "un atto eversivo". Mette sott'inchiesta, a sua volta, le toghe di Salerno per abuso d'ufficio e interruzione di pubblico servizio e si riprende i fascicoli. Il presidente della Repubblica, dinanzi all'inerzia di una procura generale della Cassazione, si muove. Con un'iniziativa senza precedenti e, secondo alcuni addetti impropria, chiede a Salerno notizie utili sull'inchiesta (contro Catanzaro) e più tardi lo stesso fa con Catanzaro (contro Salerno).


Ci sarà tempo e modo per affrontare nel merito il groviglio di questioni sollecitate da questo pasticcio. In queste ore di sconcerto, è forse utile ricordare che le inchieste di De Magistris, un generoso magistrato lasciato colpevolmente isolato in un opaco ufficio giudiziario, sono state valutate nel tempo da un giudice per le indagini preliminari, da un tribunale del riesame, dalla Corte di Cassazione. Sempre De Magistris ha avuto torto. Circostanza sufficiente per concludere, come in passato, che le sue inchieste sono eccellenti e attendibili ricostruzioni "giornalistiche" di un sistema di potere, ma un fragile quadro penale. Per di più, messo insieme con mosse "abnormi". O per lo meno giudicate tali, e censurate, dal procuratore generale della Cassazione, dal plenum del Csm, dalla Corte di Cassazione (respinge il ricorso di De Magistris).


È una sequela di giudizi inequivocabili che la procura di Salerno cancella con un colpo di spugna come se fosse dinanzi al più gigantesco dei complotti. Senza attardarsi a dirci, finalmente, se le inchieste di De Magistris sono fondate o deboli (e magari dandosi da fare per rafforzarle, se incompiute), Salerno fa leva sulle accuse di De Magistris per partire lancia in resta contro Catanzaro con un decreto di perquisizione di 1.700 pagine.


Ora un cittadino qualsiasi pensa che il magistrato che firma un decreto come quello, alto due spanne, di migliaia di pagine, non vuole chiudere davvero l'inchiesta. Pretende solo che si sappia di quali ingredienti, ancora tutti da accertare, sia fatta l'inchiesta. Vuole un'eco pubblica ingrassata dalle suggestioni e non da fatti accertati e documentati. Chiede soltanto pubblicità e, al di fuori del processo, prima di un processo, una condanna pubblica per i coinvolti, quale che sia il loro coinvolgimento. Deve essere questo che consiglia a Salerno di sequestrare le carte e non di chiedere, più utilmente e pacificamente, una copia degli atti.


Catanzaro, dal suo canto, non è da meno. Avrebbe potuto rivolgersi alla procura generale della Cassazione (il più alto livello della funzione requirente) e sollevare un conflitto di competenza. Preferisce lo scontro aperto. Per sedarlo interviene Napolitano.


Sono ore di smarrimento per chi ha fiducia nella funzione giudiziaria. Un ufficio essenziale dello Stato di diritto pare affidato a bande che si fanno la guerra in modo così estremo e furioso da coinvolgere anche l'arbitro. Del tutto irresponsabilmente, stracciano ogni apparenza di decoro, di leale collaborazione istituzionale, ogni traccia di rispetto delle regole e delle sentenze già scritte. Un cittadino non può che pensare che la sua libertà personale, i suoi beni, la sua reputazione sono affidati a una consorteria scriteriata e incosciente. Non può che prendere atto che il "potere diffuso" della giurisdizione è fallito come si è rivelato una rovina la gerarchizzazione degli uffici. Non può che concludere che la magistratura (per l'imprudenza o l'arroganza di pochi) appare non consapevole che autonomia e indipendenza si declinano con responsabilità o si perdono per sempre.


Mentre Berlusconi si starà stropicciando le mani dalla soddisfazione, e il ministro Alfano si fa subito avanti con una proposta di riforma bipartisan, quel cittadino dovrà chiedersi se ora prevarrà almeno il buon senso prima che nei palazzi di giustizia appaia il cartello di "chiuso per fallimento".

Ancora sui politicanti italici...

L'affaire Firenze e le trame del Pd


• da La Stampa del 5 dicembre 2008, pag. 41


di Franco Ramella
Quanto sta affiorando dalle intercettazioni pubblicate a Firenze, a proposito dell’affaire immobiliare Fondiaria-Castello, appare molto preoccupante. Prima che la scintilla diventi un incendio (così l’ha già definito uno degli inquirenti), sarebbe opportuno che i dirigenti del Pd intervenissero con decisione. A destare impressione non sono tanto le accuse di corruzione avanzate con riferimento al nuovo insediamento urbanistico, previsto nella zona nord-ovest della città su terreni del gruppo Ligresti. Su questa vicenda sarà la magistratura a fare chiarezza e, fino a condanna definitiva, vale la presunzione d’innocenza per ognuno degli inquisiti.


Ciò che invece preoccupa, e che non può essere passato sotto silenzio, è lo stile di governo del capoluogo toscano che traspare dalle intercettazioni. Con una parte della classe dirigente fiorentina - politica, economica e giornalistica - legata assieme da una fitta trama di scambi e favori personali: l’appartamento sottocosto per l’amica dell’assessore, la gratifica per il «caro figliuolo» di quest’ultimo, le vacanze gratis in Sardegna per il direttore del giornale cittadino ecc. Il tutto sotto l’attenta regia di un esponente di rilievo del grande gruppo assicurativo-immobiliare, che ha enormi interessi in gioco nell’operazione urbanistica finita sotto il mirino della magistratura.


Dalle telefonate si ricavano anche indizi interessanti sulle logiche che governano la politica locale: nel 2009 si elegge il nuovo sindaco di Firenze, l’anno dopo il nuovo presidente della Regione Toscana. Per dare il tono della vicenda: due degli attuali candidati alle primarie del Pd fiorentino intervengono su un imprenditore privato per punire una loro ex-protégé per il sostegno fornito ad un altro candidato-sindaco. Si intravede anche una sorta di «americanizzazione» in negativo della competizione interna al partito, per cui chi aspira a una carica di governo deve guadagnarsi il favore dei maggiori gruppi economici cittadini, per ottenerne risorse e sostegno.


In breve, ciò che emerge è la tendenza all’esaurimento di un’eredità politico-organizzativa - quella del Pci - che possedeva tutt’altra caratura. La fine delle ideologie e l’indebolimento organizzativo hanno dissolto quei legami collettivi e quei controlli interni che in queste zone rendevano il partito di massa un vitale tessuto connettivo tra la società e le istituzioni. La vicenda mostra l’urgenza per il Pd di un ripensamento della sua «forma partito», in modo da tornare a svolgere a livello territoriale un ruolo - oltre che di rappresentanza sociale - anche di selezione e di controllo sulle élite amministrative. Una funzione quest’ultima tanto più essenziale laddove - come nelle regioni rosse - la forza e la continuità di una tradizione politica, assicurano agli eletti una lunga permanenza al potere.


Proprio da questa Italia di mezzo, perciò, dovrebbe partire un messaggio di forte rinnovamento organizzativo. Magari puntando ad una «circolazione delle élite» che valorizzi i giacimenti nascosti della politica italiana: giovani e donne innanzitutto. Quest’ultime, ad esempio, occupano ancora oggi una posizione troppo marginale nelle amministrazioni delle regioni rosse: le donne assessori sono appena il 22% (la media italiana è ancora più bassa, il 17%). Sotto questo profilo la «crisi fiorentina» rappresenta per la classe dirigente democratica una sfida/opportunità a carattere più generale. Poiché le scelte che verranno compiute sul come affrontarla avranno ricadute serie e durature sulla nuova organizzazione che si sta costruendo. Oggi il Pd deve decidere che tipo di forza politica intende diventare. Tocqueville parlava di grandi e piccoli partiti. I primi, «badano più ai principi che alle conseguenze, alla generalità più che ai casi particolari, alle idee più che agli uomini. (...) I piccoli partiti, al contrario, sono in generale senza vera fede politica: non essendo sostenuti da grandi obiettivi, hanno un carattere egoistico che si manifesta in ogni loro azione (...). I grandi partiti rovesciano la società, i piccoli l’agitano; gli uni la ravvivano, gli altri la depravano; i primi talvolta la salvano scuotendola fortemente, mentre i secondi la turbano sempre senza profitto».

I nostri politicanti...

L’ex Fgci e il plurinquisito, la maledizione fiorentina torna a colpire la sinistra

• da La Repubblica del 5 dicembre 2008, pag. 13

di Alberto Statera
Qui, tra queste sterpaglie, i ragazzi della Federazione giovanile comunista, quei «khomeinisti» trai quali militava l’attuale sindaco uscente Leonardo Domenici, piantarono nel 1989 la tenda rossa che indusse il segretario del Pds Achille Occhetto a bloccare la speculazione immobiliare della Fondiaria sulla piana fiorentina del Castello. «Sento puzza di bruciato», disse nella notte tra il 26 e il 27 giugno di quell’anno di disgrazia in una telefonata al segretario provinciale Paolo Cantelli, che si schiantò sulla sedia. E un’intera classe dirigente locale comunista, forse l’avanguardia di quella definita oggi «sinistra immobiliare», fu di fatto segata in una notte, nonostante i riti consolatori di Fabio Mussi e Gavino Angius, spediti a Firenze a trattare i reprobi. Vent’anni sono passati, vent’anni e la storia, come in un’ineluttabile maledizione fiorentina, si ripete con un partito che si sfalda alla vigilia delle primarie per la designazione del candidato sindaco su quei 180 ettari di nulla, in un clima politico che adesso Occhetto definisce da «compagni di merendine». Mentre da Roma Walter Veltroni ammette che il Partito democratico, percorso da cacicchi di periferia, non è affatto al riparo dalla questione morale, sollevata da Giorgio Napolitano.

Al posto della tenda rossa dei khomeinisti della Fgci svettano oggi qui, a nord-ovest del centro di Firenze, decine di scheletri poggiati su cilindri di cemento armato che dovrebbero contenere dal luglio prossimo la scuola dei marescialli e dei brigadieri dei carabinieri. Dietro, tra i rovi, il nulla su cui la sinistra rischia di perdere alle prossime elezioni amministrative il miglior risultato elettorale in tutta Italia del neonato Pd veltroniano. La piana di Castello, l’unica area libera di Firenze ora sequestrata dalla magistratura, diciamolo, è uno schifo, accerchiata com’è dall’aeroporto di Peretola dei Benetton, dall’autostrada, dalla ferrovia e dal futuro inceneritore.


Difficilmente ci sarebbe qualcuno disposto a costruire lì qualcosa. Se non fosse che quell’area è di Salvatore Ligresti con la sua Fondiaria-Sai. E, si sa, quando c’è di mezzo don Salvatore da Paternò, tutto è possibile: anche un quartiere residenziale con migliaia di appartamenti, e soprattutto le sedi della Regione e della Provincia, concesse dalla politica, che valorizzano un’area alquanto infelice. Un affare da più di un miliardo, importante quasi come quello di Milano nell’area ex Fiera denominato City Life.

«Mors tua vita mea», sembra essere il motto della squadra ligrestiana che ogni volta che persegue un progetto speculativo da Craxi in poi, sembra far fuori un’intera classe politica. Per scelta? Per insipienza? Per arroganza del potere finanziario, che è certo di poter comprare sempre tutto e tutti? Per inadeguatezza di una classe politica di cacicchi locali irretiti dal «volto demoniaco del Potere», come dice l’expresidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, citando Ritter? Si chiama Fausto Rapisarda l’uomo che ha messo a ferro e fuoco la sinistra fiorentina. Vecchia conoscenza delle polizie e delle procure d’Italia, nipote acquisito e plenipotenziario di Ligresti, plurinquisito, ex latitante, fu protagonista di Mani Pulite per lo scandalo Eni-Sai: 12 miliardi dilire pagati al Psi di Craxi e al segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi per ottenere di assicurare con polizze-vita i 140 mila dipendenti dell’ente petrolifero. Allora si beccò 3 anni e otto mesi, meno di Craxi e Citaristi, ma quella condanna non servì a toglierlo dalla scena, sulla quale persiste peraltro immarcescibile, pur se pregiudicato, suo zio don Salvatore.

E’ lui, Fausto, che a Firenze gestisce l’affare Castello con i soliti metodi.

Intercettato il 10 ottobre racconta a Ligresti: «Stasera sono a cena con D’Alema. Sono al suo tavolo, mi ha messo lui al suo tavolo, quindi si è informato evidentemente». Degno di una gag di Totò il resoconto telefonico del suo incontro alla Taverna del Bronzino con il vicepresidente della Regione Federico Gelli, che - onore che annuncia futuri favori - gli dà persino del tu. E da oscar della «Brutta Italia» quello con Francesco Carrassi, il direttore ora dimissionario della "Nazione", feudo della famiglia Riffeser che cambia i direttori dei suoi giornali come le calze, scegliendo accuratamente quasi sempre i più disponibili a tutto, il quale rivendica favori in cambio di un editoriale gradito a Ligresti.

Un’Italia di millanterie, di debolezze, di degenerazioni piccole e grandi della politica e della società civile, già vista tante volte, se non fosse perché sembra contagiare in pieno nella sua roccaforte la sinistra più gradita d’Italia, alla vigilia delle elezioni per l’elezione del nuovo sindaco al posto di Leonardo Domenici, che, come persona informata dei fatti, ha subìto l’onta di quattro ore di interrogatorio da parte del procuratore Giuseppe Quattrocchi. Le primarie espressione di democrazia interna rispetto allo strapotere partitico? Sarà, ma qui si sono trasformate nel massacro di un’intera classe dirigente e nell’epitome della «brutta politica». Perché le istituzioni trattano confidenzialmente personaggi ben noti come Rapisarda? «Istituzioni e politica volgari, grottesche, approssimative e arruffone», ha scolpito Daniela Lastri, la ragazza, candidata alle primarie con Matteo Renzi, il giovane, Lapo Pistelli, il democristiano, e Graziano Cioni, il vecchio. «Se vince la Lastri è un disastro», dice Cioni, l’assessore-sceriffo autore dei provvedimenti anti-lavavetri, in una delle intercettazioni che hanno portato ad indagarlo per corruzione insieme al suo collega assessore all’Urbanistica Gianni Biagi. Cioni, comunista da sempre, «babbo cenciaio», come ricorda con orgoglio, sembra un po’ Plunkitt, quel politico novecentesco della New York di Tammany Hall che viveva la politica come un do ut des di reciproche fedeltà e favori. Accusato di avere un figlio che lavora da Ligresti, di avere un’amica stretta cui ha trovato una casa di Ligresti, di averle fornito una parabola Sky di Ligresti, di aver preso sponsorizzazioni da Ligresti, la sua concezione della politica è tutta contenuta nell’intercettazione di una telefonata con Sonia Innocenti, una fornaia rimasta senza lavoro con due bambini a carico, che si era rivolta a lui in cerca di un lavoro.

Cioni l’aveva fatta assumere dall’imprenditore Marco Bassilichi.

Ma viene a sapere che al momento di schierarsi per le primarie, Sonia sceglie Lapo Pistelli. E per telefono le fa una sfuriata: «Ascoltami, io mi posso ritirare, posso andare alle elezioni, posso vincere, ma la gente che è stata con me e poi se ne scorda, mi fa incazzare, mi fa incazzare, mi fa incazzare. Capito? Allora è bene chete ne ricordi. Ma che mi prendi per il culo?». Sono increduli nella Casa del Popolo di San Bartolo 300 iscritti, ma il figlio del «babbo cenciaio», mentre si dimette il capogruppo del Pd Alberto Formigli, socio di società di progettazione, per ora non molla di un centimetro sulla candidatura alle primarie, aggravando a Roma la gastrite di Veltroni.

Tutto questo forse non sarebbe mai avvenuto se Diego Della Valle, che tanti soldi ha investito nella Fiorentina, non avesse chiesto una novantina di ettari al comune per fare la sua Cittadella Viola, il suo stadio, naturalmente con qualche albergo e qualche centro fitness. Visto che non siamo a Phoenix, ai margini del deserto, l’unica area disponibile è alla piana del Castello, anche a costo di sacrificare segretamente gli 80 ettari previsti di parco, che peraltro al sindaco Domenici lo hanno sempre fatto «cagare», come racconta lui stesso in un’intercettazione telefonica.

Fateci l’abitudine, nella stanza di Clemente VII, a Palazzo Vecchio, sotto gli affreschi del Vasari, è questo ormai il lessico corrente. Forse perché persino qui la politica - ma speriamo di essere smentiti - non è ormai che «sangue e merda», come diceva l’indimenticato ministro socialista Rino Formica.

Giustizia italiana e Politica

Il colle e l'oscuro groviglio

• da La Stampa del 5 dicembre 2008, pag. 1

di Carlo Federico Grosso.

La situazione è senza precedenti: per il groviglio delle competenze interessate, per l’importanza della posta in gioco, per i possibili risvolti politici, soprattutto per il rischio di perdita di credibilità delle istituzioni giudiziarie.

L’altro ieri avevamo letto, con stupore misto ad interesse, dell’iniziativa della Procura della Repubblica di Salerno nei confronti dei colleghi di Catanzaro, indiziati per un asserito complotto organizzato contro De Magistris. Il sospetto di tale Procura era che taluni magistrati e taluni politici lo avessero ordito contro il giovane sostituto procuratore allo scopo di bloccare, o deviare, alcune inchieste che coinvolgevano personaggi eccellenti. Soltanto la convinzione della Procura salernitana poteva d’altronde giustificare la gravità dell’accusa e la spettacolarità, anche mediatica, dell’iniziativa.

Ieri le contromosse di Catanzaro. La Procura Generale di tale sede giudiziaria ha reagito, indagando a sua volta i colleghi di Salerno per abuso di ufficio ed interruzione di un pubblico servizio, e disponendo il sequestro dello stesso materiale sequestrato il giorno precedente da Salerno. Una iniziativa a sua volta sconcertante.

Tanto più sconcertante, se si considera che Procura competente a valutare i reati commessi da magistrati di Salerno non è quella di Catanzaro, bensì quella di Napoli.

Non è possibile stabilire, al momento, chi ha ragione e chi ha torto. Non si conoscono infatti gli atti d’indagine compiuti dai magistrati che hanno ereditato i processi di De Magistris, gli atti delle indagini compiute dalla Procura di Salerno, le motivazioni delle accuse di abuso e interruzione di servizio pubblico elevate dalla Procura generale di Catanzaro. D’altronde quand’anche si fosse in grado di conoscere tali atti, orientarsi non sarebbe agevole.

Bene hanno fatto, pertanto, il Consiglio superiore della magistratura e il Guardasigilli, nell’esercizio delle loro rispettive funzioni, ad intervenire immediatamente. Bene ha fatto, soprattutto, il Presidente della Repubblica, interpellato dal Procuratore generale di Catanzaro, a non sottrarsi alla richiesta di fare chiarezza.

L’intervento del Capo dello Stato merita un’attenzione assolutamente particolare. Giorgio Napolitano ha chiesto, in un primo tempo, al Procuratore della Repubblica di Salerno «l’urgente trasmissione di ogni notizia e atto utile a meglio conoscere una vicenda che, a prescindere dal merito, presenta aspetti di eccezionalità con rilevanti implicazioni di carattere istituzionale, prima fra tutte quella di determinare la paralisi della funzione processuale». In un secondo tempo, appresa la menzionata reazione della Procura generale di Catanzaro, ha chiesto a sua volta a tale Procura notizie utili a valutare ciò che stava accadendo.

Tale iniziativa del Presidente della Repubblica non appartiene all’ambito delle sue competenze codificate. Assunta in qualità di supremo garante della legalità e dei diritti di tutti i cittadini, appare comunque, in un momento di così grave tensione e difficoltà, assolutamente apprezzabile per la forza e la tempestività del segnale offerto.

Una ultima riflessione. I prossimi giorni consentiranno, forse, di comprendere meglio il significato di ciò che è accaduto e di formulare le prime valutazioni di merito. Al momento è in ogni caso necessario auspicare con forza che nessuno mediti di utilizzare quest’ultimo, assai poco encomiabile, episodio di guerra fra Procure, per cercare di imporre, in qualche modo, un bavaglio all’esercizio dell’attività giudiziaria.

Sempre sulla malagiustizia italiana

Napoli Quei difensori d'ufficio di Di Pietro

• da Il Giornale del 5 dicembre 2008, pag. 1

di Filippo Facci
L’articolo di Giuseppe D’Avanzo pubblicato ieri su Repubblica andrebbe analizzato nelle scuole di giornalismo. Andrebbe citato per intero, ma siccome D’Avanzo non scrive mai meno di una pagina e mezzo dovete fidarvi di una nostra personalissima sintesi, questa: 1) mi chiamo D’Avanzo, sono il vicedirettore di Repubblica e ho un nervosismo direi malcelato; 2) sono nervoso perché dell’inchiesta napoletana che promette sfracelli, di cui ovviamente ero al corrente, ha scritto prima il Giornale di me, che oltretutto sono di Napoli e ora devo metterci una pezza, un pezzone: 3) quelli del Giornale vanno dunque screditati, e comincerei col dire che su Antonio Di Pietro hanno scritto «una notizia farlocca» mettendosi in scia a un «venticello calunnioso», e questo nonostante Di Pietro si sia comportato con «esemplare correttezza» (me l’hanno detto alcune mie fonti che ovviamente non voglio citare) al pari di altri «innocenti, incappati nelle intercettazioni telefoniche» e che vogliono trasformare in «colpevoli da sbattere sui giornali»: e io, sin dai tempi di Alberto Di Pisa e Corrado Carnevale, sono uno che se ne intende. Figuratevi che vogliono tirar dentro anche lo «sventurato» Cristiano Di Pietro, figlio di, consigliere provinciale a Campobasso, colpevole di colloqui ripetuti col provveditore alle Opere pubbliche Mauro Mautone che è soltanto l’epicentro di tutta l’inchiesta; 4) volevo anche dirvi che dell’inchiesta non ho letto ancora una riga, non ho visto nessuna intercettazione: e però una manina forse legata ai servizi segreti ne ha già fatta sparire una copia dalla Dia di Napoli, e dunque, se uscisse roba e non la pubblicassi io, ecco, insomma, non dico spazzatura solo perché a Napoli non è il caso; 5) già che ci sono vi elenco una serie di altri esponenti delle forze dell’ordine, che ovviamente non conosco, i quali non c’entrano niente; 6) finito, anzi no, dimenticavo che l’inchiesta polverizzerà ciò che resta della giunta di Rosa Iervolino; andranno di mezzo il provveditore alle opere pubbliche Mauro Mautone, l’amico di Di Pietro, oltre all’imprenditore Alfredo Romeo, cinque assessori della giunta napoletana e diversi politici nazionali tra i quali Renzo Lusetti del Pd e Nello Formisano dell’Idv e Italo Bocchino del Pdl. Facezie. I miei amici mi hanno anche detto che Giorgio Nugnes si è tolto la vita perché i servizi segreti lo pressavano con la minaccia di far uscire notizie false su di lui. Fine della sintesi. Con precisazione. Nostra. Va bene il nervosismo e il finto snobismo, ma è perlomeno scorretto parlare di una «notizia farlocca rilanciata dal Giornale, che ancora ieri ostinatamente la ripubblica», come appunto vergato da D’Avanzo. La notizia in questione uscì in queste pagine il 21 ottobre e non è farlocca per niente, rieccola identica: «La magistratura sarebbe in possesso di intercettazioni telefoniche dove Cristiano Di Pietro chiederebbe l’assunzione di amici suoi al molisano Mario Mautone, provveditore alle opere pubbliche di Molise e Campania e sua vecchia conoscenza. Fu il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro a nominarlo direttore centrale del settore edilizia e poi presidente di una commissione tecnica sugli appalti autostradali. Tutte queste cose, il 23 settembre scorso, le ha raccontate il senatore Sergio De Gregorio all’agenzia Il Velino, ma soprattutto le ha scritte il 10 ottobre La Vocedella Campania». Ed è tutto stravero, l’unica imprecisione è che la faccenda sia anche legata a un’inchiesta sulla ricostruzione post terremoto del Molise: circostanza che l’altro ieri il Giornale ha riportato una seconda volta solo per smentirla. D’Avanzo, in compenso, dà spazio a un ampio virgolettato di Di Pietro ma in una pagina e mezzo non ha niente da osservare su un particolare che resta inquietante: ossia che lo stesso Di Pietro, per smentire legami troppo stretti con Mautone, abbia finito per rivelare d’esser stato a conoscenza dell’inchiesta napoletana sin dal 2007, quand’era ministro. Come se fosse normale. Seconda precisazione. Non stupirebbe, con l’aria che tira, se nelle scuole di giornalismo cominciassero realmente a pensare che una velina sia quella di Striscia la notizia: occorrerebbe, perciò, fare degli esempi concreti di velina old style, quella classica che mette in secondo piano le notizie vere e in primo piano i personaggi da salvaguardare, magari sulla base di generiche «fonti» che forniscono notizie generiche più che altro per bruciarle, disinnescarle. Chiediamo a Giuseppe D’Avanzo se ha qualche docente da suggerire.

Ancora lui, l'italiano dei suoi valori!

La nota stonata di Di Pietro


• da Il Riformista del 5 dicembre 2008, pag. 1




Tutti sono d’accordo: quello che sta avvenendo tra le procure di Salerno e Catanzaro è senza precedenti, è una situazione gravissima, si indaga perfino sul Csm e sul suo vicepresidente. Dunque non c’è altro modo per rimettere ordine in questo disastro, in questa guerra di toghe contro toghe, che l’intervento del Capo dello Stato, il quale presiede il Csm. L’unico che non l’ha capito, e che critica l’iniziativa del Quirinale, è Antonio Di Pietro, il quale contesta «il modo e il tono usato», e sostiene addirittura che così «si rischia la criminalizzazione preventiva e preconcetta dell’attività di indagine che sta svolgendo la procura di Salerno».


Sono questi i momenti, quelli in cui viene in causa la responsabilità istituzionale, che si capisce di che pasta sono fatti i politici. E se il Pd non l’avesse capito prima, ora sa perché Di Pietro non può essere, né oggi né domani, un suo alleato.

Riprendo dopo una lunga pausa.

Riprendo, dopo un lungo periodo d'inattività, pubblicando un articolo di Pierluigi Battista, che la dice lunga sulle cose che accadono in questa nostra povera Italia.

" Allarme rosso di Pierluigi Battista.

L'Espresso è un settimanale prestigioso che non ha mai camuffato la sua anima progressista e di sinistra: per questo assume un significato particolare quel titolo-choc, «Compagni spa», che campeggia sulla copertina del suo ultimo numero. Organo di punta della polemica anti- berlusconiana, allergico culturalmente e antropologicamente a tutto ciò che nell'Italia e nel mondo porti con sé un sentore di «destra», il giornale ora diretto da Daniela Hamaui ha scelto di non chiudere gli occhi sulle brutture che deturpano le vicinanze di casa. Recentemente ha rivelato i dati che denunciano la deriva oligarchico- corporativa in cui appare prigioniera la «casta » sindacale. Ora denuncia gli «intrallazzi», specchio di un invasivo e arrogante «potere dei comitati d'affari» in cui si stanno inabissando le giunte di sinistra, da Napoli a Firenze, da Genova a Perugia, da Crotone a Trento, dall'Aquila a Foggia. Un esempio raro di giornalismo libero: schierato ma refrattario all'omertà di schieramento, di parte ma capace di non occultare, nella foga della battaglia politica, i vizi che albergano nei partiti idealmente più vicini.

Una lezione. E un allarme: un allarme rosso. Un allarme per quel clima mefitico di sospetti, pratiche spregiudicate, relazioni pericolose, favoritismi, uso disinvolto delle regole che sembrano dilagare sulle giunte di sinistra, messe oramai nelle condizioni di non poter più decentemente rivendicare anche solo la parvenza di quella «diversità» rispetto all'avversario esibita in passato con smisurato orgoglio. Una condizione prossima alla rottura, a cominciare dalla città-simbolo di questo sprofondamento, Napoli, che ha strappato al presidente della Repubblica Napolitano l'angosciata esortazione a «reagire all'impoverimento della politica» che affligge le amministrazioni del Mezzogiorno in particolare. Una fonte di ansia e di allarme che ha indotto un costituzionalista certo mai indulgente con il centrodestra come Gustavo Zagrebelsky, a denunciare in un'intervista al Corriere l'infiltrazione di una nuova «questione morale» nel corpo periferico del Pd. E ha spinto Oscar Luigi Scalfaro alla richiesta di una pulizia tempestiva e radicale, anticipando le sempre più incombenti voci di devastanti terremoti giudiziari.

La risposta meno efficace e più controproducente a questo accavallarsi di moniti e di avvertimenti sarebbe l'adozione di una strategia della minimizzazione, come sembra affiorare dalle parole di Luciano Violante consegnate al Riformista. E invece un'opposizione debole e messa all'angolo da un'inedita e velenosa «questione morale» rappresenterebbe lo scenario peggiore in un'Italia squassata dalla crisi e in presenza, per la prima volta dall'aprile scorso, di una regressione nella vasta messe di consensi accumulata dal governo. L'allarme rosso ha raggiunto oramai il livello di guardia e svanisce l'illusione di riaggiustare gli strappi confidando nelle virtù risanatrici del tempo che passa e cicatrizza ogni ferita. Se si persistesse in questa illusione, il senso di drammatica urgenza di una svolta ispirerebbe il terrore dell'abisso. Qualcosa di molto più grave della copertina di un giornale.


Corriere della Sera del 5 dicembre 2008, pag. 1"

venerdì 25 aprile 2008

Trombati? Sì ma con il portafoglio bello gonfio.

Onorevoli pensioni: 9mila euro al mese a 50 anni.
Ora passa all’incasso tutta la schiera di ex parlamentari che, per essere entrati nel Palazzo, hanno diritto a pensioni e liquidazioni d’oro. Un’inchiesta di Panorama, oggi in edicola, fa le pulci ai prossimi ex membri della «casta»: deputati e senatori non rieletti che tuttavia hanno diritto a buonuscite di tutto rispetto. Tutta colpa di una vecchia norma degli anni Ottanta. Con 20 anni di contributi, a prescindere dall’età dell’onorevole, il Parlamento scuce. Per tutta la vita. Basta essere stati eletti prima del 2001.

Ed ecco cosa viene fuori: ci sono i baby pensionati, quelli cioè che all’anagrafe hanno 50 anni o meno ma ne hanno molti di contribuzione (chi non arriva a venti può sempre riscattare i contributi mancanti ndr). Alfonso Pecoraro Scanio, 49 anni, 5 legislature alle spalle, si porterà a casa 8.836 euro lordi al mese. Interpellato, ha ammesso che «sì, è un privilegio ma lo utilizzerò anche per sostenere il volontariato ambientale». Antonio Martusciello (Fi), di anni ne ha 46, di cui 14 passati in Parlamento. Potrebbe riscattare i restanti per arrivare a 20 e portarsi a casa per tutta la vita 7.959 euro lordi al mese. Pietro Folena, Prc, di anni di contributi ne ha 25: per lui sono garantiti 8.836 euro al mese. E ancora, tutti sotto i 60 anni di età, avranno il vitalizio di 7.959 euro lordi al mese, tra gli altri, Enrico Boselli (Psi), Oliviero Diliberto (Pdci), Ramon Mantovani (Prc) Maurizio Ronconi (Udc), Enrico Nan (Forza Italia), Fulvia Bandoli (Sd). Un po’ meno (6.203 euro) prenderanno Tana de Zulueta (verdi), Salvatore Buglio (Rnp), Gloria Buffo (Sd).

Poi ci sono quelli con la mega liquidazione, che hanno 30 anni di contributi versati c/o riscattabili. Per loro 9.363 euro lordi al mese. Si tratta di Ciriaco De Mita (Rosa bianca), Gerardo Bianco (ex Margherita). Paolo Cirino Pomicino (Dc), Sergio Mattarella (Pd), Vincenzo Visco (Pd), Luciano Violante (Pd) e Valdo Spini (Psi). Il Senato staccherà un assegno di 9.604 euro per Armando Cossutta (Pdci), Egidio Sterpa (Fi), Alfredo Biondi (Fi), Clemente Mastella (Udeur), Willer Bordon (Consumatori) e Edo Ronchi (Pd).

Ma non è finita qui. C’è infatti anche una sorta di trattamento di fine rapporto, che il Senato chiama «assegni di solidarietà». Il tfr di Palazzo Madama e Montecitorio è pari all’80% dello stipendio, moltiplicato per gli anni effettivi di mandato. Una bella sberla, quindi, liquidare Armando Cossutta (Pdci) che si porta a casa 345.744 euro, Clemente Mastella (307.328 euro), Alfredo Biondi (278.516 euro), Angelo Sanza (337.068), Luciano Violante (271.527), Sergio Mattarella e Vincenzo Visco (234.075).

Una montagna di denaro, insomma. Il Senato ha già messo da parte 8 milioni di euro per saldare gli onorevoli. Soldi loro, certo. Ma se in vent’anni un deputato sborsa 241.561 euro e l’aspettativa media di vita è di 78,6 anni, un neopensionato di 50 anni incasserà il vitalizio per 28 anni e mezzo. Gravando sulle casse dello Stato per oltre 2 miliardi di euro.

Cesare Salvi (Sd), alfiere della lotta contro i costi della politica, giura: «Mi sono battuto come un leone per modificare queste norme ma ho constatato un deficit culturale della sinistra su questi temi». E in effetti la riforma del 2007 annulla il riscatto dei contributi; il vitalizio si calcolerà sugli anni effettivi di mandato e le aliquote partiranno dal 20% per una legislatura al 60% per 15 anni e oltre.

mercoledì 2 aprile 2008

BASTA, dice il comico Grillo. Non ha capito o non vuole capire.

Il comico Beppe Grillo con il suo quinto Comunicato politico dice BASTA.

Elenca nel suo blog, come al solito, una serie di ovvietà che ognuno di noi, cittadino italiano, conosce molto bene.
Il come farle cessare è altro problema.

Lui, il comico, avrebbe potuto farlo se avesse mantenuto l'impegno di presentarsi alle elezioni con una sua Lista Civica Nazionale.
Non avrebbe vinto le elezioni, ma avrebbe sicuramente portato in Parlamento un numero tale di deputati e senatori che non avrebbe consenstito la formazione di nessun governo senza il suo appoggio. E l'esssere li, nella stanza dei bottoni, gli avrebbe permesso di cambiare le cose,
Invece, ha preferito rinunciare con l'ormai classico italico armiamoci ma PARTITE voi, dal basso, dai Comuni e li che si respira vera democrazia, dice il grillo parlante. Poi aggiunge:
queste elezioni sono invalide, contro legge. Non andate a votare!
Ma il potere, quello vero, sta a Roma. E li che si fanno le leggi che cambiano le cose, no nei Comuni.
Questi pOLITICANTI, sempre gli stessi, vivono sulle nostre spalle, fregandosene della volontà popolare. Vi ricordate i referendum che i cittadini italiani votarono in massa?
1°) Abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.
2°) Risarcimento del danno a carico degli stessi magistrati per gli errori che commettono.
3°) Abolizione del ministero dell'agricoltura e foreste.
Come'è andata a finire lo sappiamo molto bene:
- Il finanziamento che era di modesta entità è diventato RIMBORSO DELLE SPESE ELETTORALI, raggiungendo la stratosferica somma di 200 milioni di euro.
- I magistrati continuano a sbagliare e a pagare il danno per i loro errori siamo noi tutti perchè il rimborso è a carico dello Stato.
- Al ministero dell'agricoltura e foreste hanno cambiato soltanto il nome: ministero per le politiche agricole!

E il comico vorrebbe cambiare le cose abbaiando alla luna, con i suoi BASTA. Eccolo:

27 Marzo 2008

Comunicato politico numero 5

Basta con il primato della politica sulla Giustizia. Basta con le prescrizioni. Basta con la moglie di Fassino in Parlamento per cinque legislature. Basta con Fassino, dirigente “non nato sotto il cavolo”, ancora in Parlamento. Basta con le candidature mafiose. Basta con i “Village People” alla Camera. Basta con i morti viventi al Senato. Basta con Icaro - Testa d’Asfalto e il tormentone Alitalia. Basta con l’extravergine Formigoni e i suoi “comunicati e liberati” alla Sanità lombarda. Basta con Crisafulli, Carra, Dell’Utri, Cuffaro candidati. Basta con Azzurro Caltagirone e gli interessi di suo suocero. Basta con Geronzi in banca e non in tribunale. Basta con la Forleo sotto processo. Basta con D’Alema che rifiuta i processi. Basta con De Magistris inquisito. Basta con il ceppalonico Mastella e la sua liquidazione di 300.000 euro. Basta con la TAV di 13 miliardi di euro in Val di Susa e le ferrovie locali allo sfascio. Basta con Bassolino e la mozzarella di bufala radioattiva. Basta con le panzane del mago Otelma Bondi. Basta con i sorrisi di compatimento di Polito, mantenuto di Stato. Basta con la merda di Fede e di Riotta che straripa dal televisore. Basta con gli aborti verbali di Ferrara, mantenuto di Stato. Basta con il controllo dell’informazione da parte di mediasetpartiticonfindustria. Basta con gli aumenti alla pompa di benzina e i profitti per i grandi azionisti dell’ENI. Basta con il titolo di Telecom Italia in picchiata e Tronchetti in barca con Afef. Basta con Malpensa hub nel deserto del varesotto di Bossi e Maroni finanziato dalle nostre tasse. Basta con i veleni a pagamento in città con l’Ecopass della Moratti. Basta con l’EXPO 2015 dei costruttori immobiliari. Basta con gli inceneritori e i tumori a norma di legge. Basta con le false liste nazionali alle elezioni politiche con il mio nome. Basta con Tremonti che ci spiega come LUI ha ridotto l’economia. Basta con Castelli che ci spiega come LUI ha ridotto la giustizia. BASTAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!

Basta con il respiro trattenuto. Basta con la vita in apnea. Basta con i sospiri di delusione. Basta con gli sbuffi di rabbia. Basta con le parole non dette. Basta con la professione del politico. Basta con la politica dei furbi e la società dei fessi. Basta con la recessione. Basta con l’incertezza della pena. Basta con i delinquenti senza frontiere in Italia. Basta con le basi militari degli Stati Uniti in Italia. Basta con l’Italia piattaforma logistica. Basta con la speculazione dei Comuni sulle licenze edilizie. Basta con i politici in televisione a parlare del nulla. Basta con i servi dell’informazione a leccargli il culo, a non fare mai una domanda. Basta con questa pagliacciata mediatica. Basta con De Bortoli, con Floris, con Vespa, con Mieli, con Giordano, con Belpietro con tutti i loro colleghi novantagradini. Basta. Il 25 aprile gridiamo: “Basta!”. Libera informazione in libero Stato.




mercoledì 19 marzo 2008

Il Veltroni pensiero sui risparmi che farà se verrà eletto.

Ma perché non dice chiaramente che il primo grande risparmio sarebbe eliminare le Province, ente superfluo e completamente inutile se non per il parcheggio di pOLITICI amici trombati o per riconoscenza.

Ma lui e suoi sodali non sono gli attuali governanti di questa povera Italia?

Perché quello che sta promettendo di fare non l’ha già fatto il suo amico Prodi, presidente del suo partito e presidente in carica del consiglio dei ministri?

«Non voglio inseguire Grillo, non gratto la pancia all’antipolitica. Abbattere i costi per me significa anche e soprattutto più efficienza, meno burocrazia. E più sobrietà, certo, perché ne abbiamo bisogno». Walter Veltroni parlerà ancora, nel suo giro d’Italia, della mannaia che deve cadere sui bilanci dei politici, delle istituzioni, degli enti locali: chiedono troppi soldi ai cittadini. Lo farà sulla base di un vero e proprio “Decalogo del risparmio” che i suoi esperti aggiornano di continuo e continuamente spediscono corretto al fax del pullman. Il segretario del Pd ha chiesto al gruppo di lavoro coordinato da Stefano Ceccanti, Walter Verini e Claudio Novelli non solo proposte, ma anche numeri, dettagli, cioè dove si può risparmiare e quanto. «Dobbiamo dire alla gente: qui possiamo salvare 100 milioni di euro per investirli in un campus universitario, in un’infrastruttura urgente… Occorre fare degli esempi concreti». E dunque non c’è solo il taglio agli stipendi dei parlamentari nel progetto del Partito democratico, ma una road map complessiva sui costi della politica. Per rendere realizzabili le promesse.

Quanto ci costa questo maleodorante carrozzone pOLITICO? Ecco alcune cifre:

Il grosso delle spese della politica sono i 425 milioni del rimborso elettorale che i partiti si spartiranno dal 13 aprile 2008 fino al2013 ai quali vanno aggiunti i 225 milioni che le forze politiche presenti nelle urne del 2006 continueranno ad avere fino al 2010. Per fermare questo fiume di denaro l’idea è ribaltare il sistema del finanziamento ai partiti, privilegiando i contributi privati e riducendo i rimborsi statali. Ma nei dieci punti del loft si passa dalle voci maggiori a quelle minori, proprio perché l’obiettivo è insieme il risparmio e una maggiore qualità del “servizio”. Per esempio, una delle “riforme” punta a unificare le strutture amministrative di Camera e Senato che oggi hanno due biblioteche, due centri studi, due servizi di bilancio, due archivi di documentazione internazionale. Eppure le Camere fanno lo stesso identico lavoro. Questa dicotomia va eliminata. Va anche cancellata una delle differenze più odiose tra il Palazzo e il paese: il metodo di calcolo delle pensioni, che per i parlamentari si chiamano vitalizi. «Dobbiamo parificarlo a quello previsto per la generalità dei lavoratori».

La riduzione del numero di deputati e senatori (470 alla Camera e 100 al Senato), presente nel decalogo, risponde all’esigenza di una riforma costituzionale che elimini il bicameralismo perfetto, ma è anche un’uscita che in questo modo viene ridimensionata. Si possono abolire le province nelle zone dove nascono le aree metropolitane, si devono tagliare i consiglieri comunali e provinciali con un risparmio di 200 milioni. Tra le spese della politica è lievitata negli ultimi anni quella legata alle consulenze, frutto di uno spoil system selvaggio, di un accumulo di cariche, di una gestione poco controllata dei fondi pubblici. La voce «Trasparenza per i contratti della e nella politica» prevede che sul sito unico www.politicatrasparente.it siano pubblicati i nomi dei collaboratori, il loro ruolo, lo stipendio e la durata del contratto.

La stampa di partito poi è diventata un altro mezzo surrettizio di finanziamento alla politica. Bastano due parlamentari per far arrivare parecchio denaro a una testata dipartito o partitino. Il decalogo vuole fermare questa deriva e propone di alzare il numero di deputati necessario e li vincola all’omogeneità politica (non possono essere uno di destra e uno di sinistra). Questa semplice norma quanto fa risparmiare allo Stato? È su queste cifre che stanno lavorando gli esperti. Partendo da una base approssimativa (e forse per difetto) che fissa i costi della politica intorno ai 900 milioni l’anno. E che si può tagliare della metà, ossia di 450 milioni.

Sempre in temi di risparmi sui costi della pOLITICA italiota.

Una sana limata ai costi della politica è ciò che senza dubbio auspicano molti italiani. Ma dire che nel Partito democratico la proposta di Walter Veltroni, quella di allineare alla media europea le retribuzioni di deputati e senatori, oggi le più alte del continente, non abbia fatto né caldo né freddo, sarebbe forse eccessivo. E non soltanto per le conseguenze che il taglio (30% circa, secondo alcune stime) potrebbe avere sul tenore di vita degli inquilini del Parlamento. Il fatto è che gli stipendi degli onorevoli sono una fonte non proprio trascurabile di finanziamento del partito. Riducendosi gli stipendi si potrebbe quindi inaridire anche quella fonte. Ai tempi del vecchio Pci i parlamentari comunisti versavano nelle casse del Bottegone un contributo imponente, fin oltre la metà dell’indennità. Il «prelievo» è poi rimasto in vigore, anche se in forma più ridotta, prima con il Pds e quindi con i Ds. Per essere confermato anche dal Partito democratico. La regola attualmente in vigore prevede che ogni parlamentare del Pd trasferisca al partito 1.500 euro al mese dalla propria indennità. Siccome gli onorevoli democratici sono 280, il totale dà 5 milioni 40 mila euro l’anno. Ma non è tutto, perché ogni parlamentare è poi soggetto a un prelievo locale, che in qualche caso può raggiungere anche 2.000 euro al mese. E se per i diessini è cambiato poco o nulla, con le nuove regole invece i margheritini hanno dovuto tirare un po’ la cinghia. Prima del Pd i parlamentari del partito di Francesco Rutelli sborsavano 1.000 euro al mese per le strutture nazionali, più una somma variabile fra 500 e 1.500 euro per le strutture locali. Garantendo al partito il 10% circa delle sue entrate.
Ogni anno, grazie al «prelievo» sulle buste paga degli onorevoli (naturalmente con l’attuale consistenza della rappresentanza parlamentare) entrano oggi nelle casse del Pd una decina di milioni. Non proprio bruscolini, se si considera che quella è la somma spesa dall’Ulivo per la campagna elettorale del 2006.

venerdì 7 marzo 2008

Dopo il caso Report-Gabanelli, ora CGIL-Lavoratore

Scorrazzando per la rete ho trovato quest’altra chicca di legalità italica.

Dal blog di Gianni Barbacetto, 6/3/2008:

Racconto storie (vere)
Mandatemi spunti, suggeritemi personaggi. E scriveremo insieme

Mi piace raccontare storie. Ne ho scritte molte, sui giornali, dentro i libri. Mi piacciono le storie vere. Sono più emozionanti e più incredibili di quelle inventate. L’Italia, del resto, è una fonte inesauribile di intrecci impensabili, è la patria di personaggi da non credere.

In tutti i paesi c’è un po’ di corruzione e di cattiva politica. In molti paesi c’è un po’ di eversione e di terrorismo. In qualche paese c’è perfino la criminalità organizzata. In Italia non ci facciamo mancare niente. Corruzione, eversione e mafia sono radicate e potenti. Sono tre sistemi illegali. E sono intrecciati tra loro. Il confine tra il bene e il male, tra legalità e illegalità, tra Stato e Antistato è spesso difficile da decifrare.

Un paese fantastico, per chi vuole raccontare storie. Peccato che siano vere. E che dentro queste storie passano, giorno dopo giorno, anche le nostre vite.


Ecco le prime storie che mi avete mandato

La Calabria? Stupisce in tutto

Quanto sto per raccontare ha sicuramente poco di emozionante, ma di incredibile abbonda veramente. Sono iscritto da 36 anni alla CGIL da quando io ne avevo 17. Sono stato dirigente sindacale a vari livelli e poi quando il sindacato cominciava a somigliare troppo a un ufficio ho deciso di tornarmene al lavoro. Purtroppo la società nella quale lavoravo (Tecnosistemi) è finita male, e tutti i 2000 lavoratori, impiegati ,quadri e operai siamo rimasti senza lavoro. Con 900 euro di indennità di mobilità il primo anno e circa 700 per gli anni a seguire è dura mandare avanti una famiglia. Ma fino adesso siamo nella normalità delle vicende italiane.

Circa 3 anni fa cercavano una “compagna” per una Camera del lavoro di zona , sono stato contattato dal “Segretario Generale” e cosi mia moglie da allora lavora. Svolge attività di patronato occupandosi della tutela dei diritti dei lavoratori. Dei diritti degli altri però, lei invece lavora 8/10 ore al giorno senza contratto di alcun tipo, senza assicurazione e senza tutela. Da quasi tre anni la sua retribuzione tutto compreso e di euro 200,00 (DUECENTO) togliendo le spese per gli spostamenti rimane una cifra da terzo mondo, ovvero circa 7 euro al giorno, meno di 1 euro all’ora. Se questo non è abbastanza incredibile aggiungo che il tutto avviene nella gloriosa CGIL. I colloqui, le conversazioni formali e non, le email, le raccomandate a livello locale, regionale e nazionale per chiedere un ritocco al lauto compenso non hanno prodotto alcun risultato. E così il bisogno fa si che una donna di 48 anni e la sua famiglia continuino a sottoporsi a una simile umiliazione.

Purtroppo non è l’unica. La Calabria stupisce in tutto. Abbiamo quindi da una parte una simil casta di burocrati (dirigenti?) con un tenore di vita spropositato e un modo di fare sindacato con riunioni inutili seguite da pranzi,cene e pernottamenti non sempre necessari.Dall’altra persone costrette a subire le situazioni appena descritte. Non è incredibile dopo 36 anni di militanza dover rivolgersi ad avvocati privati per chiedere alla CGIL di rispettare i diritti dei suoi dipendenti? La Calabria stupisce in tutto.

Mario Vallone, Catanzaro

Caro Mauro,

quando militavi nelle lo fila, non sapevi cosa accadeva e accade ai lavoratoti/soci delle COOP rosse?

Cosa ti aspettavi, che trattassero meglio la moglie di un “compagno”.

Loro devono magnà, mica noi!

Che gli frega, noi siamo il popolo bue che non si ribella mai, neanche quando va al macello.

Questo lor signori lo sanno molto bene.

Tu sei calabrese come me, quindi sconosci il motto: chinati juncu ca passa la china!

Questo agire applicano i pOLITICI italici: aspettano che passi la sterile protesta per poi tornare, come sempre, a fare i fatti loro.

martedì 26 febbraio 2008

Di Pietro, perché non votarlo


Girovagando per la rete ho visto che non sono soltanto io a pensare di non votare l'ex pm.
Cominciamo ad essere in molti. Per avere una conferma dettagliata un altro blogger ha pubblicato questo thread che riporto integralmente con i link di riferimento.
 

Di Pietro un retroscena da pubblicizzare: in questo l'ex pm parla di etica e morale da pretendere dagli altri politici, non da lui.

Vi consiglio un libro di circa 170 pagine:

Corruzione ad Alta Velocità - Viaggio nel governo invisibile

Qui sono descritti moltissimi passi "strani" effettuati dall'On Di Pietro.
Uno su tutti:

Perchè Pacini Battaglia, implicato nello scandalo TAV, ora è un "onorevole" dell'Italia Dei Valori (Immobiliari, ndb)?
Conoscevo la vicenda, Imposimato parla del coinvolgimento di Di Pietro e Prodi, non ho letto il libro, ma alcuni brani. Imposimato scrisse il libro perchè malgrado da quattro anni denunciasse la cosa nessuno se lo filava, per questo fu anche emarginato nel suo stesso partito.

Il magistrato Giorgio Castellucci si occupò della TAV, finì poi sotto processo insieme ad altri magistrati, non so per cosa.

Prima ancora sembra che Di Pietro, allora pm, convinse Castellucci a sdoppiare l'inchiesta tenendo per se la parte che riguardava appalti e soldi, mentre a Castellucci rimase la parte riguardante i presunti illeciti nella costituzione della parte societaria della TAV.

Bilanci IVD (ovviamente CERTIFICATI, come per legge, dalla Camera dei Deputati [sic!!!] ndb)

Questo governo poteva fare una cosa utile e liberale sulle pretese della RAI, ma NISBA

Pubblico questa notizia, tratta da PuntoInformatico di oggi, che, come al solito, ai nostri bravi media è sfuggita.


Ma Prodi non va dicendo che il suo governo ha rimesso a posto l'Italia? La pretesa del carrozzone RAI di volere il canone anche per PC e Telefonini gli sembra legittima, siamo al passo con i tempi?
Oppure facciamo le cose sempre all'italiota e nascondiamo la testa come lo struzzo in attesa che qualcun' altro risolva i problemi.
Perché la RAI non inizia a chiedere la tassa del canone, anziché a noi cittadini, a loro signori: i politicanti? Oppure alle POSTE, ai Comuni, agli ENTI, alle Regioni ecc.?

RAI TAX sui PC? Il Governo poteva evitarla

martedì 26 febbraio 2008, Roma

Il 4 aprile del 2007 veniva presentata in Parlamento una proposta di legge che avrebbe risolto a monte la questione esplosa in questi giorni, quella del Canone RAI per PC e videocellofonini, una proposta rimasta nei cassetti, mai considerata dal Parlamento, che peraltro poco davvero si è occupato dello scandalo Canone in questi anni.

A segnalarla a Punto Informatico è il suo primo firmatario, l'on. Bruno Murgia (AN), che evidenzia come quella proposta "non avendo ricevuto la dovuta attenzione dal Governo Prodi, spero rientri tra gli obiettivi del prossimo Governo Berlusconi".


Quella bozza di provvedimento parlava chiaro:

Il canone di abbonamento di cui al comma 1 non è dovuto per la detenzione di personal computer o di telefoni mobili adattati o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni.

Sarebbe bastato questo ad escludere i personal computer e i cellulari di nuova generazione dalle applicazioni più controverse di quella legge del 1938 e più volte sistemata successivamente secondo cui la RAI TAX la devono pagare tutti o, almeno, tutti quelli che possiedono apparecchi "atti o adattabili" alla ricezione del segnale radio-televisivo.

"Era chiaro - spiega Murgia a Punto Informatico - almeno per me e per i tanti deputati che sottoscrissero la mia proposta, che prima o poi la RAI avrebbe battuto cassa ai contribuenti". "La motivazione fu chiara - insiste - non facciamo pagare questa odiosa tassa anche per chi possiede questi strumenti in quanto difficilmente li compriamo per guardarci la televisione; il computer e il telefono servono a ben altro e quindi è inconcepibile tassarne il possesso".

Secondo Murgia con le letteracce che da Torino ora arrivano agli italiani, e che chiedono il pagamento del Canone anche per PC e telefonini, "si è creato un pericoloso precedente che porterà le tasche degli italiani a svuotarsi sempre più, e in futuro anche per l'aria che respirano".

lunedì 25 febbraio 2008

Un'altro caso, eclatante, di gIUSTIZIA all'italiana!!!

da Notizie Radicali on line, Direttore:Gualtiero Vecellio

Criminale crocifisso. Cronaca di una condanna annunciata

a cura dell’imputato Luigi Tosti (*)

(*) Il giudice Luigi Tosti ( di religione ebraica, ndb)chiede allo Stato Italiano che vengano rimossi dalle aule giudiziarie i simboli religiosi per rispettare il principio supremo di laicità affermato dalla Costituzione Italiana e dalla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo.

Per gli amici che seguono la mia vicenda giudiziaria -e in particolare quelli francesi, spagnoli, portoghesi, belgi, olandesi, tedeschi, australiani, canadesi, statunitensi, inglesi, vietnamiti, israeliani, namibiani, congolesi, biafrani e, dulcis in fundo, anche per i sudditi dell’italica Colonia del Vaticano- comunico il resoconto dell’udienza che si è tenuta, ieri 21 febbraio 2008, dinanzi al Tribunale penale dell’Aquila, allestito in scrupolosa osservanza dello stile dei Tribunali della Santa Inquisizione, cioè con quello stesso criminale crocifisso che è oggi appeso sopra i giudici della Repubblica Pontificia Italiana e che, a suo tempo, troneggiò sopra i criminali giudici della Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana.

Il 21 febbraio 2008, mi sono presentato in udienza con una telecamera perché intendevo chiedere, nella mia qualità di imputato, l'autorizzazione a riprendere lo svolgimento dell'udienza penale, per far vedere poi agli amici che mi seguono “come” viene celebrato il processo a mio carico. Chiedere la videoregistrazione dell’udienza a mio carico è peraltro un diritto che mi viene garantito dalla legge.

Ebbene, prima ancora che i giudici entrassero nell'aula per iniziare l'udienza, un capitato dei Carabinieri della Procura della Repubblica -che mi permetto di definire, pubblicamente, come un vero gentiluomo ed una persona squisita, sperando di non arrecargli un qualche pregiudizio- si è presentato in udienza facendomi presente che doveva asportare e custodire (cioè sequestrare) la telecamera, per “ordine superiore”. Gli ho subito fatto presente che la telecamera era la mia e che mi serviva per fare le riprese: io, infatti, intendevo chiedere al Tribunale di essere autorizzato ad effettuare le riprese, non appena i Giudici fossero entrati in aula: se mi fosse stata sequestrata, come avrei potuto esercitare il mio diritto?

Mentre si stava discutendo su questa questione, sono entrati in aula i tre giudici e il Presidente, ancor prima che venisse chiamato il mio processo, ha ribadito al Capitano dei carabinieri l’ordine di sequestrare la telecamera perché la ripresa del processo “non era stata autorizzata”.

Sia io che i miei avvocati abbiamo ovviamente obiettato che il processo non era stato chiamato e che la domanda di effettuare riprese non era stata ancora formulata: dunque, non esisteva alcun provvedimento di rigetto della domanda.

Il Presidente replicava affermando, con una notevole dose di arroganza, che la domanda era rigettata. Gli si è allora ribadito che il processo non era ancora stato chiamato e che la domanda non era dunque stata fatta e che io intendevo farla. Senza neppure ritirarsi in camera di consiglio e senza neppure interpellare gli altri due giudici, il Presidente dichiarava, allora, che la richiesta di riprese audiovisive era respinta e che gli altri due giudici la pensavano come lui.

Piccola nota personale.

Quando si tratta di processare i “mostri” Olindo e Rosa Romano, i “giudici” autorizzano centinaia di televisioni a riprendere il processo, anche contro la volontà degli imputati; quando la richiesta, però, proviene da un imputato che, come me, non ha nulla da vergognarsi, i giudici impediscono, senza fornire una briciola di motivazione, la ripresa dell'udienza: e questo per impedire che i cittadini si rendano conto che i giudici stanno processando non il vero “mostro”, cioè il Ministro di Giustizia, ma la vittima del razzismo della repubblica Pontifica Italiana.

Delirante è la circostanza che i giudici possano decidere se autorizzare o no le riprese, senza fornire giustificazioni plausibili del perché essi adottino pesi e misure diverse a seconda dei casi: questo è puro arbitrio, e l’arbitrio è la negazione assoluta della garanzia di imparzialità del giudice.

Archiviata questa questione, il Presidente del Tribunale aquilano ha esordito chiedendo come mai io fossi lì, in aula, e come mai fossero presenti i miei difensori, visto che nella precedente udienza mi ero allontanato ed avevo revocato la nomina ai miei difensori, perché non era stata accolta la mia richiesta di celebrare il processo senza il criminale crocifisso dei Tribunali dell’Inquisizione, che ancora oggi troneggia sopra le loro teste, o con l’apposizione dei miei simboli a fianco del crocifisso. Per quel che ho capito, il Presidente ha manifestato una sorta di rammarico per il fatto che io fossi lì a difendermi e che ci fossero anche i miei difensori di fiducia, presagendo quello che poi sarebbe avvenuto: e cioè che mi sarei difeso, mettendo alla berlina le Istituzioni razziste italiane e la Chiesa Cattolica.

I miei legali hanno respinto queste astruse contestazioni del Presidente, rappresentandogli che io avevo per iscritto revocato la nomina del difensore di ufficio il quale aveva pubblicamente dichiarato, anche sulla stampa, che, essendo cattolico, intendeva rifiutarsi per obiezione di coscienza di difendere un giudice che aveva chiesto di togliere i crocifissi dalle aule di giustizia.

A questo punto ho chiesto la parola per far presente tre questioni: la prima era che il Tribunale aveva omesso di pronunciarsi alla precedente udienza sull'eccezione di nullità dell’udienza preliminare; la seconda era che il Tribunale aveva respinto la mia richiesta di rimuovere i crocifissi perché “non davano fastidio” ma, guarda caso, si era dimenticato di pronunciarsi sulla richiesta di esporre a fianco del crocifisso i miei simboli che, guarda caso, anch’essi “non davano fastidio”; la terza era un invito ai tre giudici ad astenersi dal processo se erano stati battezzati ed appartenevano ancora alla religione cattolica. Il processo a mio carico, infatti, implicava che essi dovessero preliminarmente decidere se la presenza dei crocifissi nelle aule di giustizia della Colonia del Vaticano fosse o meno legittima: i giudici cattolici, dunque, avevano un interesse personale nel mio processo perché, se mi avessero assolto, avrebbero pregiudicato in modo irreversibile il “privilegio” che viene tuttora accordato ai giudici cattolici dalla Repubblica Pontificia, cioè quello di avere sopra le loro auguste teste di cattolici soltanto il LORO simbolo.

Ebbene, il Presidente, senza ritirarsi in camera di consiglio e senza minimamente interpellare gli altri due giudici, ha respinto tutte e tre le questioni, affermando che nessuno intendeva astenersi e che, poi, il Tribunale non poteva autorizzare l'esposizione dei miei simboli, perché questo poteva essere fatto solo dal Ministro: motivazione, quest'ultima, tanto vera quanto irrilevante. In effetti, io non avevo invitato i giudici ad autorizzarmi ad esporre i simboli, bensì a chiedere al Ministro siffatta autorizzazione, provvedendo poi a sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale solo se la stessa fosse stata respinta.

Uno dei miei avvocati, a questo punto, rappresentava al Presidente del Tribunale che il giudice dell'udienza preliminare aveva affermato che, se un legittimo impedimento dell'imputato a presenziare all'udienza si realizza dopo che egli è comparso, l'udienza può legittimamente proseguire perché l'imputato è rappresentato dal suo difensore. Questa affermazione -proseguiva il mio avvocato - contrastava col codice di procedura penale che disponeva in senso contrario, tant’è che, se egli fosse ad esempio caduto in coma, il tribunale avrebbe dovuto rinviare l'udienza.

Il presidente, allora, interrompeva il mio avvocato con questa obiezione, allucinante: “ma questa è un’ipotesi, che non si è realizzata!!” Al che il mio legale replicava: “ma potrebbe realizzarsi e, allora, il tribunale dovrebbe decidere se rinviare o meno il processo”.

Di fronte a questa elementare obiezione, il Presidente se ne usciva con questa risposta che faceva imbestialire il mio avvocato fino al punto da indurlo a chiederne la ricusazione: “Avvocato, vuol dire che quando lei andrà in coma, noi decideremo!!!”

Volavano parole pesanti: il tutto non ripreso dalla mia telecamera, accortamente fatta sequestrare in via preventiva.

Il Presidente dichiarava di non volersi astenere ed invitava pertanto il mio avvocato a formalizzare la richiesta di ricusazione nei suoi confronti. Io invitavo il mio avvocato a non farlo, perché intendevo portare a termine il processo a mio carico (era già la quarta volta che ero costretto ad andare all'Aquila).

Passati alla fase dell'ammissione delle prove, il Pubblico ministero, guarda caso, rinunciava al suo teste di accusa, cioè il Presidente del Tribunale di Camerino Aldo Alocchi, e questo per evitargli le domande imbarazzanti alle quali sarebbe stato sottoposto dai miei difensori. Dal momento, però, che anche io ne avevo chiesto l'audizione, la sua richiesta di “soprassedere” all'audizione di questo teste non sortiva gli effetti sperati.

Iniziava, dunque, l'interrogatorio del Presidente Alocchi.

Al dr. Alocchi i miei avvocati ponevano le domande che io avevo scrupolosamente scritto, allo scopo precipuo di porre in evidenza quanto fosse stato contraddittorio e criminale il comportamento posto in essere nei miei confronti: io, infatti, ho subito una palese e criminale discriminazione religiosa da parte del Ministro di Giustizia e dei miei superiori i quali, non solo non hanno rimosso i crocifissi nelle aule dove ero costretto a lavorare, ma mi hanno vietato di esporre i miei simboli. Io non sono né un prete né un frate che ha fatto la scelta volontaria di frequentare chiese e conventi, dove vengono esposti i crocifissi. Io sono un pubblico funzionario che non può essere costretto dallo Stato italiano a frequentare aule giudiziarie nelle quali vengono esposti quegli stessi criminali crocifissi che vennero esposti nelle criminali aule giudiziarie dei criminali Tribunali della Santa Inquisizione della criminale associazione denominata Chiesa Cattolica e fondata da Dio in persona.

Ebbene, gran parte delle domande formulate per il teste Alocchi sono state vietate dal Presidente del tribunale, su opposizione del PM, senza nemmeno interpellare gli altri due giudici: e questo per togliere dall'imbarazzo il teste, che non avrebbe saputo a quale santo votarsi per fornire giustificazioni logiche o giuridiche del suo comportamento contraddittorio e discriminatorio.

Eguale sorte è poi capito al mio esame: dopo che io ho dichiarato, in pubblica udienza, che tra i motivi che mi spingevano a non tenere le udienze sotto il crocifisso vi era quello che non avrei mai tenuto le udienze sotto l'incombenza della svastica nazista e che, quindi e a maggior ragione, non intendevo tenerle sotto l'incombenza del vessillo della Chiesa Cattolica, cioè di quella che era stata ritenuta e che io avevo già definito in pubblica udienza, dinanzi al CSM, come la più grande associazione per delinquere e come la più grande banda di falsari che sia esistita sul Pianeta Terra, le domande successive venivano “stoppate” per evitare che io fornissi tutti i puntuali riscontri storici della criminalità della Chiesa Cattolica, citando le crociate, i tribunali dell'inquisizione etc.

Il PM ha iniziato ad interrompere continuamente il mio esame - cioè l'esame che mi permetteva di difendermi - e il Presidente del Tribunale ha accolto tutte le opposizione del PM, senza interpellare gli altri due giudici. Si è innescato un violentissimo diverbio tra uno dei miei difensori e il PM: diverbio che, grazie all'oculata e solerte censura preventiva del Presidente del Tribunale dell'Aquila, gli italiani non potranno mai ammirare. Ad un certo punto il Presidente ha addirittura interrotto il mio esame, “spedendomi” al mio posto.

E' iniziata allora la discussione finale.

Il PM ha chiesto la mia condanna sulla base di questo ragionamento.
E’ irrilevante valutare se la motivazione del dr. Tosti di non tenere le udienze a causa della presenza del crocifisso sia o meno fondata, perché ciò che conta è che egli, di fatto, non ha tenuto le udienze e questo comportamento ha arrecato un disagio agli utenti (? Ndb) che chiedevano giustizia. Se la presenza del crocifisso sia lecita o meno e se essa sia lesiva del principio supremo di laicità affermato dalla Costituzione e, inoltre, dei diritti inviolabili del Tosti e dei cittadini italiani alla libertà religiosa e all'eguaglianza, sono dunque questioni del tutto irrilevanti, ad avviso del PM aquilano.
Non una parola, però, il PM ha speso in merito alla circostanza che io ho comunque manifestato la piena disponibilità a tenere le udienze sotto l'incombenza del crocifisso, purché il Ministro mi autorizzasse ad esporre i miei simboli a fianco del crocifisso. E non si tratta di circostanza secondaria, perché essa al contrario evidenzia che la responsabilità del presunto “disagio degli utenti” - che mi si vuole appioppare - è semmai da imputare al Ministro di Giustizia, “razzista”, che mi ha impedito di esporre i miei simboli.

Se al PM aquilano stessero realmente a cuore gli interessi dei poveri cittadini italiani, egli avrebbe dovuto incriminare il Ministro di Giustizia che, con comportamento arrogante e razzista, mi ha vietato di godere della stessa dignità e degli stessi diritti che la Repubblica Pontificia Italiana accorda alla Superiore Razza Cattolica Italiana. Se fossi stato autorizzato ad esporre i miei simboli, io avrei seguitato a tenere le udienze: se questo non è stato fatto, ciò è dovuto al fatto che la Repubblica Pontificia Italiana è razzista.

Ma di questo il PM aquilano non ne ha tenuto conto, perché se ne avesse tenuto conto avrebbe dovuto incriminare il Ministro Cattolico: e questo, in una Colonia Pontificia, non si può fare.
Che le motivazioni del mio rifiuto siano poi irrilevanti, è un qualcosa di aberrante, che neppure una persona completamente digiuna di diritto potrebbe concepire.

Se un chirurgo si rifiuta di eseguire interventi chirurgici perché la Direzione sanitaria si rifiuta di togliere dalla sala operatoria un crocifisso radioattivo, che pregiudica la salute e la vita del chirurgo e dei pazienti, solo un imbecille patentato potrebbe affermare che le motivazioni addotte dal chirurgo siano assolutamente irrilevanti, perché quello che conta è soltanto il fatto che i pazienti hanno dovuto subire dei disagi perché, a causa del suo rifiuto, essi sono stati operati da altri chirurghi!!!!!!

Si tratta di un vero deliquio giuridico che, ovviamente, è stato accolto dal Tribunale dell'Aquila, che mi ha giustamente inflitto un'ulteriore condanna che, sommata alla precedente, porta ad un anno di reclusione ed un anno di interdizione dai pubblici uffici.

Il che, francamente, mi riempie di gioia e di orgoglio, perché ho così maturato i requisiti per candidarmi alle prossime elezioni politiche.

Sottolineo che questo processo è stato attivato su mie autodenunce e che, dunque, questa condanna non solo non mi scalfisce, ma anzi mi onora: altri quattro magistrati si sono uniti alla lista, già cospicua, dei magistrati che, a vario titolo, hanno condannato il mio comportamento, sia a livello penale che disciplinare.
Se a ciò si aggiunge che nella Repubblica Pontificia Italiana esiste un solo giudice - l’anonimo Luigi Tosti - che si rifiuta di calpestare la Costituzione Italiana e la Convenzione per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, alla quale il Vaticano non ha potuto aderito perché contraria al suo regime liberticida, l’onore si trasforma in orgoglio: l’orgoglio di essere stato l’unico, in questa Colonia del Vaticano, che non a caso si colloca come fanalino di coda tra gli Stati membri della Comunità Europea, a lottare per questi valori.

Cari baciapile e cari sudditi del Vaticano, carissimi Veltroni, Berlusconi, Prodi, Fini, Bertinotti, Di Pietro, Santanchè, Storace, Mastella, Dini, Pecoraro, Ferrero e via dicendo, ci rivedremo a Strasburgo: cominciate, nel frattempo, ad inventarvi qualche trojata giuridica per convincere i Giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che imporre ad uno sporco ebreo il crocifisso, e vietargli di esporre la sua menorà, non è un atto discriminatorio.

Carissimi Napoletani, smettetevela di sbraitare per la monnezza che vi seppellisce: i vostri beneamati Politici e il Vostro augusto Pontefice hanno dovuto lottare per altre incombenze ben più pressanti e prioritarie, e cioè per preservare la presenza degli idoli del Dio biblico incarnato nelle aule scolastiche, in quelle dei tribunali e in quelle degli ospedali. Sono stati spesi milioni per comprare centinaia di migliaia di idoli da esporre negli uffici pubblici: gli idoli non sono mica monnezza!

Perché non cominciate ad esporre sulle strade pubbliche, a fianco della monnezza, i crocifissi? Non lo sapete che “Dio vede e provvede”?
Amen