lunedì 29 giugno 2009

Qualcosa sul fu (?) Indro Montanelli.


Quello che sto per riportare è qualcosa che per molti, ad esempio quelli del CICAP, Angela & C., non è ragionevolmente o scientificamente possibile. Ma chi lo ha vissuto la circostanza e ne ha scritto il resoconto sono persone serie, moralmente ineccepibili e assolutamente non creduloni.

Quello che vi propongo non è nè ragionevole nè scientificamente tangibile.
La domanda è:
esiste un aldilà dopo la morte?

A leggere quanto scrive Stefano Lorenzetto la risposta è sì.

A voi il giudizio.

Alle 16.35 del 22 aprile, giorno in cui avrebbe compiuto 100 anni, Indro Montanelli ha detto: «Sono molto felice di essere così amato e pensato. Io so tutto quello che state facendo. Mi piacerebbe parlare martedì in diretta per telefono perché devo dire quattro parole a Lorenzetto. Così non avrà più dubbi». Lo ha detto a un suo ex redattore, Nicola Fudoli, originario di Ciminà (Reggio Calabria), sposato,
due figlie, che abita a Milano e che di anni ne ha compiuti 76 lo scorso gennaio. Due giorni prima, il 20 aprile, il caro estinto aveva detto allo stesso Fudoli: «Sono felice che finalmente si siano decisi a fare il lavoro giusto. Verrà un bell’articolo». Parlava di Mario Giordano, il direttore seduto da 19 mesi al posto che fu suo qui al Giornale, e del sottoscritto. Secondo me si sbagliava. Siamo tanto indecisi, non so se sia il lavoro giusto e temo che alla fine non verrà fuori un bell’articolo. Ma in qualche modo glielo dovevamo.
Al Fondatore, intendo.
Dall’aldilà ci teneva a far sapere questo a voi, i suoi inconsolabili lettori:
«Io sto benissimo, sono alla luce e splendo di luce perpetua. Qui tutto è una meraviglia».
Potevamo tenercelo per noi? Ci abbiamo meditato a lungo. Ma dài, ma no, ma ti pare. Alla fine ci siamo buttati.
I tipi italiani sono così da 450 settimane: prendere o lasciare.


Tutto comincia un mese fa, quando mi telefona Adele Perego, che non sentivo da anni. Dalla fondazione del Giornale fino al 2002 è stata la segretaria di tutti gli amministratori delegati di questo quotidiano. Mi parla di Fudoli, che io non ho mai conosciuto: «Vorrebbe esporle una vicenda molto delicata, della quale anch’io sono stata testimone. Ma teme d’essere frainteso, ha persino paura a telefonarle».
Tranquillizzi Fudoli, le rispondo, e gli dica di chiamarmi quando vuole.
L’anziano collega si fa vivo dopo qualche giorno. Passiamo subito al tu, il pronome personale d’ordinanza fra giornalisti.
A fatica riesco a strappargli l’oggetto dell’ipotetica conversazione che dovremmo avere: «C’è di mezzo Montanelli». In che senso?
«Mi parla dal paradiso». Questo qui è suonato, penso fra me. Però penso anche che in Italia abbiamo dato la prima pagina a un presidente del Consiglio persuaso d’aver individuato durante una seduta spiritica il luogo dove le Brigate rosse tenevano prigioniero Aldo Moro. Perché Romano Prodi sì e Nicola Fudoli no? «Non si tratta assolutamente di sedute spiritiche», s’inalbera il mio interlocutore.
«Né medium, né piattini, né tavolini a tre gambe. Tutto avviene nella grazia di Dio, dopo aver fatto il segno di croce e recitato un Pater, un’Ave e un Gloria».
Prendo informazioni su Fudoli da coloro che hanno lavorato al Giornale prima che ci arrivassi io. Nessuno è a conoscenza di turbe psichiche attuali o pregresse. Curriculum rispettabile: giornalista dal 1953, esordio alla Gazzetta del Sud di Messina, parentesi alla Tribuna del Mezzogiorno, quindi all’Ora di Palermo; poi nel 1970, con i soldi dell’armatore repubblicano Amedeo Matacena, fondatore e direttore di Nuovo Sud, il quotidiano della rivolta popolare in difesa di Reggio Calabria capoluogo; trasloco all’Arena di Verona, da dove - su raccomandazione dello scrittore Cesare Marchi, grande amico di Montanelli - emigra a Milano, al
Giornale che sta per nascere, redazione esteri. Ha lavorato a queste pagine dal primo numero, 25 giugno 1974, fino al 1988, quando è andato in pensione.
Dopo molte titubanze, Fudoli si decide a svelarmi i particolari. Al centro di tutto c’è Graziella Atanasio, 56 anni, residente a Messina, moglie di un avvocato e madre di tre figli. Montanelli «parla» con la voce di questa signora, che non lo ha mai conosciuto e che a malapena sa riconoscerlo in fotografia. Fudoli telefona in Sicilia. Lei si concentra per un minuto, quindi risponde alle domande in
prima persona, come se fosse Indro. La signora è protagonista involontaria di quel fenomeno paranormale, investigato da psichiatri e psicologi, che va sotto il nome di «scrittura automatica»: a velocità impressionante, senza mai staccarsi dal foglio, la sua mano destra annota tutte le parole che la bocca pronuncia. L’aspetto misterioso della faccenda è che la donna parla di cose che non sa e che in teoria non dovrebbe sapere. La prima volta che Adele Perego ha partecipato a uno di questi dialoghi ultraterreni, il 12 marzo, Fudoli le ha chiesto, o meglio ha chiesto a Montanelli: «Hai visto chi c’è qua?», ricevendone in cambio un secco: «Non sono cieco, c’è Adele». È stata la signora Perego a confermarmi che quel
giorno Montanelli si mostrò a conoscenza di un’altra circostanza certamente ignota a Graziella Atanasio: il legame sentimentale che esisteva fra la stessa Adele, separata dal marito, e Arturo Amadeo, vedovo, che fu per molti anni il capo della tipografia del Giornale ed è scomparso nel 1997.
Specifico subito, per dovere di cronaca, che il mio «colloquio» con Indro, cominciato alle 11.43 di martedì scorso e durato 18 minuti, è stato piuttosto deludente, forse a causa del marcato scetticismo che mi pervade e che in altri tempi avrei definito montanelliano.
Per avere certezza che lui fosse lui, mi sono azzardato a chiedergli se si ricordasse che cosa accadde di particolare quel giorno in cui venne a pranzo con Vittorio Feltri e me al ristorante Santini di Milano, allora situato in corso Venezia (penso di potervelo confidare: alla fine mi chiese in prestito 10.000 lire per darle di mancia al cameriere). A questo punto il Monumento s’è proprio scocciato: «Se tu vuoi credere alla mia esistenza in cielo, bene. Altrimenti non so cosa farci». Un agnostico che esorta un credente
alla fede: non è un miracolo? E del resto dieci giorni prima, a sorpresa, Cesare Romiti aveva rivelato: «Indro non morì ateo».
Aggiungo, sempre per dovere di cronaca, che il 20 aprile Montanelli promise a Fudoli: «Appena esce l’articolo sul Giornale, ognuno di loro avrà un premio per il lavoro che faranno per me. Non posso dirti cosa». Il mio regalo l’ho avuto in anticipo: alle 9.06 di martedì, appena arrivato a Milano per raccogliere quest’intervista, ho ricevuto in auto una telefonata che mi annunciava un importante incarico professionale del tutto inaspettato. Liberissimi di non crederci, ovviamente. Ma è così.
Comunque secondo me la notizia non è che Indro Montanelli abbia qualcosa da dire persino dall’aldilà. La notizia è che ci sono in giro persone talmente innamorate di lui da sentirlo ancora vivo anche da morto.
Come hai conosciuto Graziella Atanasio?
«Ero comparello di suo fratello Saro, deceduto un paio di settimane fa».
Comparello?
«Padrino di battesimo».
Da quanto va avanti questa storia?
«Dall’agosto scorso. I primi colloqui si sono svolti nella villetta dei suoi genitori in contrada Mastroquartuccio di Sant’Alessio Siculo, vicinissima alla mia casa di vacanze».
La signora in che modo s’è accorta dei suoi poteri?
«Ha cominciato ad avere le prime sensazioni nel 1991, subito dopo aver perso un altro fratello, Luciano, per un incidente stradale».
Che genere di sensazioni?
«Sentiva Luciano intorno a sé. Profumi indescrivibili nell’aria, pizzicotti sul collo, pacche sul sedere come faceva quand’era bambino.
Graziella rincasava e trovava le luci accese. Un giorno le ha persino innaffiato il giardino».
Sarà piovuto.
«Aveva bagnato una rosa sì e una no. E a Messina non era piovuto».
In che modo definiresti il tuo dialogo a distanza con Indro?
«Eeeeh...». (Allarga le braccia). «Lo sento vicino. Non dà mai giudizi sulle persone».
Starà espiando le critiche dispensate in vita.
«Sono tutti buoni lì, sai? Per loro l’amore è sopra ogni cosa».
Quante volte l’hai sentito?
«Dialoghiamo almeno una volta la settimana, per una decina di minuti».
Potresti ricavarci un libro.
«È già pronto. S’intitolerà Noi siamo vivi. Sottotitolo: L’amore muove tutto il mondo invisibile».
Tutto l’universo obbedisce all’amore. Lo diceva La Fontaine, lo canta Franco Battiato.
«Titolo e sottotitolo mi sono stati dettati da Samuel».
Chi è Samuel?
«Un serafino, uno degli angeli più vicini al trono di Dio. Era un nipotino di Graziella. Aveva una grave malformazione cardiaca.
Ha vissuto soltanto 9 giorni. È nato con la missione di far sposare sua madre e suo padre. Appena mamma e papà sono diventati marito e moglie, lui è morto».
Qual era il tuo rapporto con Montanelli?
«Di grande deferenza. Sono stato uno dei pochi che fino all’ultimo gli ha dato del lei. Mi metteva soggezione. Lui ci scherzava: “Fudolino, scriviti le domande che vuoi pormi, altrimenti quando vieni da me t’impappini”. Una volta mi prese sottobraccio insieme con Paolo Isotta e disse: “Ecco i miei allievi”. Gli sarò sempre grato, e non soltanto per avermi assunto una ventina di giorni prima
che Il Giornale uscisse nelle edicole».
Per che altro?
«Nel 1976 mia figlia Rosanna, all’epoca quindicenne, fu spinta contro una vetrata durante un gioco fra ragazzi. Arrivò al Fatebenefratelli col polso destro tagliato fino all’osso. La mano era perduta, bisognava amputarla.
Montanelli mi mandò all’ospedale col suo autista, Enzo Maimone. Nel frattempo telefonò a un suo amico, il professor Ezio Morelli, che era primario di chirurgia plastica all’ospedale di Legnano. Rosanna fu subito portata là e operata d’urgenza, 350 punti di sutura per ricostruirle vene, nervi e muscoli recisi di netto. Se mia figlia può ancora scrivere, lo devo a Indro».
Parli a distanza solo con Montanelli?
«No, anche con Flavia Podestà. Te la ricordi?».
Me la ricordo sì. Redazione economia. Poi inviata alla «Stampa».
«Indro e Flavia sono sempre insieme. Prima di cercare te, avevo una mezza idea di interessare Mattino Cinque, la trasmissione di Barbara D’Urso. Perché loro da lassù ci tengono a far sapere che sono vivi, vogliono che la gente creda. Flavia mi ha suggerito: “A Mattino Cinque c’è un amico che conosci bene, cercalo”. Il giorno dopo guardo la trasmissione fino ai titoli di coda e chi trovo fra i nomi? Filippo Pepe».
Anche lui del «Giornale». Redazione romana. Poi portavoce del ministro Maurizio Gasparri.
«Io non sapevo che lavorasse a Canale 5».
Con chi altro chiacchieri?
«Con i miei cari defunti: genitori, due sorelle, suocera, un cognato medico, una nipotina. Con un amico d’infanzia, Nicola Jeropoli.
Con Mauro De Mauro, sparito a Palermo nel 1970: eravamo insieme all’Ora. Col senatore Uberto Bonino, mio primo editore alla Gazzetta
del Sud. E con Luciano Pavarotti. Ha chiesto al fratello di Graziella, suo omonimo, d’essere evocato. Si sentiva trascurato: “La mia seconda moglie e le mie figlie sono troppo prese dagli affari terreni”. Ha parlato bene di Adua, la prima moglie, e della sorella Gabriella».
De Mauro non ti ha indicato i nomi dei suoi assassini?
«No. Mi ha detto solo: “Non te ne parlo perché tu hai la lingua troppo lunga, non voglio metterti in pericolo. Ma sappi che i miei carnefici sono tutti già morti”».
I defunti come descrivono l’aldilà?
«Luce, luce, luce. Un mondo di luce, di amore, di pace. Indro dice che in cielo sono giovani e belli, hanno tutti 33 anni,
indipendentemente dall’età al momento del decesso. Ci sono cinque dimensioni: la prima, morti per vecchiaia; la seconda, per incidente; la terza, per malattia; la quarta, per morte violenta, i più bisognosi di consolazione; la quinta, Dio circondato da cherubini, serafini e santi».
Montanelli ha fatto rivelazioni che non t’aspettavi?
«Ha definito Barack Obama “uomo della provvidenza”. E ha detto che il Signore tornerà sulla Terra».
Per chi ha avuto parole affettuose?
«Per tutti. Ma in particolare per Iside Frigerio, la sua segretaria. E per la nipote Letizia Moizzi, la cui nonna, Colette Rosselli, era la moglie di Indro. Il 20 aprile mi ha detto: “Saluta la mia nipote adorata. Abbracciala per me e dille che non si dimentichi del vecchio brontolone. Io sono sempre accanto a lei. Adesso vado a lavorare e vi abbraccio con amore infinito”».
Ma come? I giornalisti non si godono la pensione neanche in paradiso?
«Vanno a lavorare dove c’è più bisogno di affetto. In questo momento sono impegnati ad asciugare le lacrime in Abruzzo.
L’ho saputo da mia madre Rosa, che è un arcangelo».
A chi altro hai parlato di questi tuoi «contatti»?
«A Mario Cervi. A Magda Tommasoli, che lavorava alla Notte. A Maria Celeste Crucillà, inviata di Oggi. E a mio fratello Bruno, anch’egli giornalista».
Che però s’è tenuto alla larga dallo scoop.
«È in pensione».
Lo sai che cosa diranno, vero? Che ti approfitti del nome di Montanelli per avere il tuo quarto d’ora di celebrità.
«Non m’è mai interessato finire sui giornali. Li ho soltanto fatti. Gianni Ferrauto e Amedeo Massari, gli amministratori storici del Giornale, e Gianni Granzotto, il padre di Paolo, te lo confermerebbero. Ma purtroppo sono morti, a parte Ferrauto».
Perché la signora Atanasio fa tutto questo?
«Non certo per soldi. Prima aveva un negozio di pelletteria. Ora accudisce i genitori infermi. Se ti dico che lei sapeva da tempo che suo fratello Saro sarebbe morto 15 giorni fa, ci credi?».
Sei cristiano?
«Cattolico praticante».
Non hai letto il Deuteronomio? «Non si trovi in mezzo a te chi consulti gli spiriti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in bominio al Signore».
«Voglio discuterne con qualche sacerdote. Ho bisogno di conforto. Matto non ono. Ho sempre creduto e credo nell’aldilà e nella possibilità riservata ad alcuni prescelti di comunicare con gli spiriti dei defunti assunti alla luce senza fine.
In vita Indro non ci credeva. Ma adesso che ha visto, ci crede anche lui».
E chi va a spiegarlo ai suoi lettori agnostici?
«Glielo spiego io col libro Noi siamo vivi. Loro sono vivi».

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it





martedì 23 giugno 2009

Siamo in pericolo di golpe, Scalfari dixit?


Nel leggere l'articolo scritto dall'On. Bondi sono rimasto esterrefatto.
Il mio conterraneo Eugenio Scalfari, già direttore di Repubblica, il quotidiano-partito che a dire del suo proprietario, l'Ing. De Benedetti, è l'unico veicolo moralizzatore adatto a noi italiani nonchè italioti, ha sentenziato che siamo prossimi al regime con un golpe.
Ricordi ai più che possono averlo dimenticato o che per ragioni d'età non lo sanno, chi è Eugenio Scalfari, uno dei più noti giornalisti italiani, il cui lavoro giornalistico ebbe inizio nel periodo fascista, diventando capo-redattore del giornale Roma Fascista.
Dopo la II guerra mondiale si dichiarò liberale e nel 1955 partecipò alla fondazione del partito radicale. Nel 1963 venne eletto consihgliere comunale a Milano nelle liste del PSI, per poi diventarne onorevole al Parlamento. Continuò a cambiare idee partitiche, appoggiando di volta in volta quel personaggio che riteneva utile ai suoi desiderata, da De Mita a Giuliano Amato per finire poi verso personaggi - Di Pietro uno fra tutti - più confacenti al patron del quotidiano. Quotidiano del quale ha venduto la sua partecipazione azionaria, che lo ha reso miliardario, essendone stato il fondatore.



"La Repubblica, pericolo per la democrazia"
di Sandro Bondi

Egregio direttore sono costretto per la seconda volta in pochi giorni a difendermi dal tentativo di Repubblica di denigrarmi, sia usando il «bastone», cercando di colpirmi negli affetti più cari, sia ricorrendo, come ha fatto Eugenio Scalfari in un articolo pubblicato ieri, a deliberate quanto provocatorie insinuazioni.
Nel corso di un dibattito con Eugenio Scalfari svoltosi a Cortina lo scorso anno, dissi apertamente al fondatore di La Repubblica che il suo viscerale antiberlusconismo avrebbe portato la sinistra in un vicolo cieco e alla sua sconfitta definitiva. Avevo visto bene. Non avevo previsto, tuttavia, che il quotidiano che Scalfari dirige avrebbe condotto la sinistra allo snaturamento della propria identità. E ancor meno avevo previsto che l’attacco nei confronti del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sarebbe stato portato al livello di questi ultimi giorni, fino al punto cioè di mettere a repentaglio gli stessi interessi generali del nostro Paese.
Al pari dei giacobini, il ristabilimento della virtù impone qualsiasi sacrificio, qualsiasi ostacolo deve essere rimosso e ogni strumento può essere utilizzato per il raggiungimento di un fine dichiarato necessario e buono.
Il quotidiano La Repubblica è l’erede principale di questa cultura ed è divenuto nello stesso tempo una specie di «superpartito», che concentra in sé la dimensione politica, quella economica, quella culturale e perfino quella giudiziaria.
La mia opinione è che l’azione di questo «superpartito» costituisca da tempo l’insidia più grande per la nostra democrazia.
Eugenio Scalfari cerca di dipingere il quadro politico e l’atmosfera di questi giorni come se ci trovassimo nuovamente alla vigilia della caduta di un regime, con il corollario di servi, gerarchi e cortigiani, fra i quali vengo annoverato maliziosamente anch’io, in procinto di tradire e di abbandonare la nave.
La maestria di Scalfari, bisogna ammetterlo, consiste da sempre nella capacità di divulgare e accreditare nell’opinione pubblica una visione storiografica, politica e culturale che è esattamente agli antipodi della realtà.
Quello che sta avvenendo in questi giorni è la conferma più clamorosa di quanto sostengo.
Scalfari è abile nel descrivere un regime corrotto e morente, contro il quale il suo quotidiano ha lanciato l’offensiva finale, trascinando con sé anche il Corriere della Sera e ciò che resta della sinistra, mentre la realtà è che un governo democraticamente eletto subisce un’aggressione sistematica da parte di un centro di potere economico e politico, che non può vantare alcuna legittimità democratica né morale, sulla base di una campagna scandalistica paragonabile alla pesca con lo strascico.
Alle porte non vi è la caduta di un regime, come ritiene Eugenio Scalfari, né la fuga di gerarchi felloni, ma vi sarebbe, nell’ipotesi abbia successo il progetto destabilizzante di Repubblica, l’indebolimento della nostra democrazia e la rovina dell'Italia.
Io non dimentico mai che, se Berlusconi non avesse avuto il coraggio di impedire nel 1994 alla gioiosa macchina da guerra della sinistra capitanata da Achille Occhetto di conquistare il potere, l’Italia sarebbe stata governata da una torbida alleanza formata dalla sinistra comunista e da tutti quei poteri economici rappresentati da un quotidiano come La Repubblica, che avrebbe dato vita sì a un vero regime politico privo di alternative.
Questo rischio esiste anche oggi, aggravato semmai dalla circostanza che la sinistra rappresenta oggi una larva di soggetto politico, mentre l’influenza di La Repubblica è divenuta dominante.
Per tutte queste ragioni, e non soltanto per l’affetto che mi lega a Berlusconi e la considerazione che ho di lui come di un uomo sotto tutti gli aspetti ammirevole, come risulta anche dalle interviste pubblicate dal suo stesso giornale, noi non cederemo mai, mai, di fronte alla campagna di odio e di delegittimazione orchestrata dal gruppo editoriale L'Espresso-La Repubblica, in combutta con una sinistra ormai al traino di tutte le battaglie più misere e sconclusionate.
Se sapremo sconfiggere anche quest’ultimo disperato attacco contro il governo e contro Berlusconi, la nostra democrazia sarà più salda, il nostro futuro più sereno. Questo gli italiani lo sanno e hanno la possibilità di testimoniarlo con il loro voto.


da Il Giornale del 22 giugno 2009, pag. 7

La lettera aperta del Presidente emerito Cossiga a Berlusconi,


Riporto volentieri la lettera aperta del Presidente emerito Cossiga che ha scritto a Berlusconi dalle pagine del Corriere della sera. Consigli molto interessanti che seguirei alla lettera se fossi il destinatario, al quale ricordo - nei prossimi quattro anni di mandato che ha avuto dagli italiani - di mantenere le promesse elettorali, prime fra tutte:
l'abolizione delle province;
l'abolizione del bollo auto;
la separazione delle carriere fra Magistrati e pubblici ministeri;
la riforma del CSM;
l'abolizione del rimborso elettoarle ai partiti;
il completamento della revisione della Carta Costituzionale adeguandola ai tempi.

Silvio, non chiedere scusa a nessuno.

Lettera di Francesco Cossiga

Caro Silvio, ti scrivo da amico e da politico, non da «amico politico», benché legato a te
da un’amicizia personale che data dal 1974 e che non è mai venuta meno. Non sono mai entrato nella tua vita privata pur, come tu ben sai, non condividendo alcune manifestazioni di essa.
Ritengo che i giudizi sulla vita privata di una persona che non attengano alla funzione pubblica esercitata - e in particolare la vita eufemisticamente chiamata «sentimentale» ma più esattamente «sessuale» - debbano essere distinti dai giudizi politici.

Non mi sembra che il giudizio politico di allora e il giudizio storico di oggi abbiano bollato con il marchio dell’infamia John Fitzgerald e Robert Kennedy, le cui attività galanti superarono di gran lunga le tue, e ebbero anche aspetti inquietanti sui quali la giustizia americana non volle inquisire fino in fondo. E che dire del primo ministro britannico Wilson, che fece nominare dalla Regina, che non batté un ciglio, alla carica di Pari a vita con il titolo di baronessa una sua collaboratrice, collaboratrice per così dire, in senso piuttosto lato? E qui mi fermo… Ora tu ti trovi, a torto o a ragione, in un brutto impiccio: per motivi «sentimentali» e anche per motivi, diciamo così, mercantili. Vi è chi, movimenti politici e potentati economici, con o senza giornali di loro proprietà, sono terrorizzati che tu possa governare il Paese per altri quattro anni; e sperano che titolari di alte cariche istituzionali, al primo, al secondo o al terzo posto nelle precedenze, riescano a farti uno sgambetto. Vorrei darti qualche consiglio, anche se so che tu ritieni che pochi consigli possano darti quelli che furono attori o, come me, solo comparse in quello che tu chiami il «teatrino» della politica della Prima Repubblica. È vero che una coincidenza è solo una coincidenza, che due coincidenze sono un indizio e che tre coincidenze possono essere una prova.
Ma io non credo che tu sia vittima di un complotto. E poi, complotto di chi? Dei nostri servizi di sicurezza? Ma al loro apice, da Gianni Di Gennaro a Bruno Branciforte e Giorgio Piccirillo, ci sono dei fedeli e capaci servitori dello Stato, sui quali non può gravare alcun sospetto e che sono impegnati, oltre che a svolgere le loro mansioni, ancora a capire, per colpa della legge e del Governo, quali esse siano e quali siano i confini tra le loro competenze e quelle del servizio di informazione e sicurezza militare dello Stato Maggiore della Difesa…

Complotto di un servizio estero? Di Cia o Dia americane? Certo, i mezzi e le competenze li hanno, eccome! E perché mai Barack Obama dovrebbe aver ordinato una tale campagna di «intossicazione»?
Perché sei amico di Putin e della Federazione Russa? Ma immaginati. Alla fine Putin preferirà Obama a te e viceversa. Noi siamo un grande Paese, ma non una grande potenza: smettiamolo di crederlo. Io penso che tu sia vittima dell’odio dei tuoi avversari ma anche delle tue imprudenze e ingenuità. L’odio dei tuoi avversari è evidente: e non penso al mite e sprovveduto Dario Franceschini, né al freddo, politico e onesto e corretto Massimo D’Alema, anche se si è lasciato scappare una battuta che più che te e lui sta mettendo nei pasticci il «lotta-» o «lobby-continuista» magistrato di Bari. Questo odio io l’ho patito sulla mia pelle. Perché a te il noto gruppo editoriale svizzero dà dello sciupa­femmine, ma a me per quasi sette anni ha dato del golpista e del pazzo, nel senso tecnico del termine…

Lascia stare i complotti, e respingi anche l’odio che è un cattivo consigliere anche per chi ne è oggetto. Vendi Villa La Certosa, o meglio regalala allo Stato o alla Regione Sarda: è indifendibile e «penetrabilissima». Lascia anche Palazzo Grazioli, che ha ormai una fama equivoca e trasferisciti per il lavoro e per abitarvi a Palazzo Chigi. Non chiedere scusa a nessuno, salvo che ai tuoi figli, quelli almeno che hai in comune con Veronica. Non mi consta che gli altri due grandi sciupafemmine come Kennedy e Clinton abbiano mai chiesto scusa al loro popolo… Fai la pace con Murdoch: tra ricchi ci si mette sempre d’accordo. Cerca un armistizio con l’Anm: porta alle lunghe la legge sulle intercettazioni e quella sulle modifiche del Codice di Procedura Penale e dai ai magistrati un consistente aumento di stipendio.

Vuoi, invece, fare la guerra? Allora vai in Parlamento: ma al Senato per carità! E non alla Camera, per non correre il rischio di vederti togliere la parola o espulso dall’aula. Tieni un duro discorso sfidando l’opposizione, fa presentare una mozione di approvazione delle tue dichiarazioni, poni la fiducia su di essa e, come ai gloriosi tempi della Dc con il Governo Fanfani, fatti votare contro dai tuoi, impedendo con i voti la formazione di un altro governo, porta così il Paese a inevitabili nuove elezioni… Perché la guerra è sempre meglio per te, per l'opposizione e per il Paese, di questo rotolarsi nella melma.

Con affetto ed amicizia
Francesco Cossiga
presidente emerito della Repubblica

• da Corriere della Sera del 22 giugno 2009, pag. 9

martedì 16 giugno 2009

Pornopaleolitico.

Non c'è nulla di nuovo sotto le stelle. E' tutto un dejà vu!

Una scoperta archeologica svela che forse non sono i nostri tempi a favorire certe degenerazioni pornografiche.
di Angiolo Bandinelli
In una grotta della Germania vicino a Ulm, gli studiosi dell’Università di Tubinga hanno disseppellito una statuetta femminile d’avorio, alta non più di sei centimetri, che ha suscitato scalpori e persino un notevole imbarazzo. Si tratta del più antico esempio di arte figurativa conosciuto: le datazioni compiute col metodo del radiocarbonio l’hanno collocata in un periodo che va da 31.000 a 40.000 anni fa, vale a dire almeno 5.000 anni prima delle famose “Veneri paleolitiche” rinvenute in molti siti europei e che un po’ le somigliano. A differenza di queste, però, la statuina di Ulm, completamente nuda, presenta caratteri sessuali accentuati, quasi abnormi. I seni sono protuberanti, gonfi come quelli delle nostre maggiorate al silicone, ma è la vulva, l’organo genitale, a essere “particolarmente voluminosa e vistosa” cosicché “le sue forme focalizzano l’attenzione sulla sua sessualità esplicita, quasi aggressiva”: tanto da far congetturare che la figurina non abbia la sua origine in “sottili motivazioni simboliche collegabili all’idea della fecondità”, come si era virtuosamente pensato per le “Veneri paleolitiche”, ma in esplicite e “inequivocabili pulsioni sessuali”. Non finisce qui: nella stessa grotta è stato anche trovato un pene di pietra, di circa 19 cm. di lunghezza. Roba da sexy shop: “L’oggetto è scolpito in maniera naturalistica – scrive un giornale – e presenta una superficie perfettamente levigata e lucida che, secondo l’archeologo Nicholas Conard, fa ipotecare uno specifico utilizzo in ambito sessuale”, forse correlato a rituali “atti a stimolare la fecondità della natura”. Oppure – perché escluderlo? – a pratiche orgiastiche, tipo partouze di stampo post-sadiano.

La faccenda mi ha sollecitato alcune considerazioni, perfino ovvie. Mi pare strano che l’appello insistito e solenne ai valori della natura umana provenga da chi si richiama continuamente al peccato originale, l’evento che avrebbe deteriorato irreparabilmente lo stato di una creatura fino a quel momento perfetta e pura ma da quel momento irreparabilmente degradata, tanto che Dio dovette a un certo punto inviare il figlio per riscattarla e salvarla; c’è inoltre, a mio (modesto) parere, una singolare coincidenza tra le posizioni di chi raccomanda i valori della naturalità rispetto al relativismo di una cattiva cultura e quelle di Rousseau, il padre del mito del buon selvaggio. Oggi scopriamo che forse l’uomo più vicino allo stato di natura non era immune da certe degenerazioni imputate ai nostri deprecabili tempi. Sarebbe contraddittorio se tutto questo venisse gettato sulle spalle di Darwin. Semplicemente e laidamente penso che dovremo abituarci a certe disturbanti scoperte sull’uomo e la sua vicenda, anche quando contraddicono le affermazioni del disegno divino intelligente.


Che fine hanno fatto i "sinistri" duri e puri delle sinistre nostrane?

Ecco una parziale risposta al dilemma che ci accompagnerà per molto tempo ancora, semprechè l'ex pm Di Pietro non li fagocita tutti prima , come sta già facendo.

"E ora stiamo tutti insieme"

per Bertinotti gelo a sinistra

di Micaela Bongi

Delle «due sinistre», una moderata e una radicale, non si può più parlare, perché ormai «non c`è nessuna sinistra». E se le formazioni escluse anche dal parlamento di Strasburgo «non prendono atto che è finita una storia e che quindi si deve ricostruire da zero, non faranno un metro in più». Dopo aver auspicato, per le elezioni europee, il «tanto peggio, tanto meglio» (un insuccesso delle liste di sinistra per poter, appunto, ripartire da zero) Fausto Bertinotti trae le sue conclusioni: il peggio è arrivato e allora è arrivato anche il momento di «rimescolare le carte». Come? Dando vita - dice l`ex subcomandante intervistato dalla Stampa a «un partito nuovo di tutta la sinistra italiana, creato da tutti quelli che oggi sono all`opposizione e che si sentono più o meno di sinistra, da Rifondazione all`Italia dei valori, dal Pd al movimento di Vendola, dai socialisti ai Verdi, dai Comunisti italiani ai radicali». Proposta choc, bocciata subito senza complimenti dai socialisti di Riccardo Nencini che all`idea di stare nello stesso partito con Oliviero Diliberto e Antonio Di Pietro si sentono male, e dal Pdci Marco Rizzo, che spara a zero contro l`ex segretario di Rifondazione: «Serve aria nuova e non assassini della politica che tornano sul luogo dei delitto». Proposta che, seppure in modo più pacato, considera irrealizzabile il segretario del Prc Paolo Ferrero, perché «ha un tratto di illusione, la stessa che stava alla base del ragionamento fatto all`epoca dell`Unione: la disponibilità della sinistra moderata a ragionare sui percorsi fatti. Ma poi abbiamo visto le politiche economiche di Padoa Schioppa». E anche ora, «vedo una sinistra moderata che ha fallito ma è ben presente e ha posizioni legate ai poteri forti. Il problema, anche di natura organizzativa, riguarda la costruzione della sinistra di alternativa, non di una sinistra senza aggettivi». insomma, al di là di Di Pietro - che tra le forze di Sinistra e libertà provoca un sussulto non solo ai socialisti - o di Marco Pannella, il punto principale è il Pd. O meglio, questo Pd. Perché Bertirotti, di fronte al risultato elettorale, immagina o almeno auspica che il partito di Franceschini possa essere travolto dal «big bang». E dunque la nuova formazione raccoglierebbe solo l`ala più di sinistra dei democratici. Non a caso l`ex presidente della camera ieri avrebbe par- lato della sua proposta anche con Massimo D`Alema, Convinto che, di fronte al rischio palude, è meglio lanciare qualsiasi idea utile a movimentare le acque. Ma anche dall`area ex bertinottiana rimasta dentro Rifondazione si levano voci critiche, come quella di Augusto Rocchi: «Come si fa a definire di sinistra i radicali? Quella sinistra si dividerebbe subito sulla legge 30 0 la guerra. Non condivido il pressuposto di Fausto, secondo il quale non c`è più nessuna sinistra e dunque non ci sono le due sinistre. Ci sono due liste cresciute di00 mila voti rispetto alle politiche. Pensiamo a porci il problema di come rimettere insieme i pezzi che esistono in una forma unitaria e` plurale, evitando che ognuno dica che il disegno egemonico è il proprio. E poi nel Pd ci può essere uno scontro sull`asse politico, non un` implosione. Affrontiamo semmai il tema delle alleanze. Se poi ci sarà un`evoluzione del quadro politico, vedremo». Il problema più stringente del rapporto col Pd, lo ha Sinistra e Libertà che vuole allontanare il sospetto di subalternità, senza essere antagonista E per ora ha deciso di andare avanti con il suo progetto. Ma è appunto dai democratici che ci si aspetta un segnale, eventualmente dopo i ballottaggi. Posto che, come dicono da Sinistra democratica, «tutto è in movimento» ma «un partito con Di Pietro non funziona», anche se per la formazione di Claudio Fava è attuale, non da ora, il tema di un partito della sinistra. Dai verdi invece Paolo Cento conferma che «un partito da Rifondazione all`Idv non è all`ordine del giorno», però «è un bene che Sinistra e libertà non abbia deciso strette organizzative», perché «non si deve rinchiudere in un mero partito dai confini prefissati. In questo senso la sollecitazione per una sinistra ampia fatta da Bertinotti è interessante». E se dal Pd si leva la voce di Vincenzo Vita, dell`Associazione A sinistra - «la proposta di Bertinotti merita di essere discussa e non va respinta in modo burocratico» - commenta contrariato Walter Veltroni, che con l`ex presidente della camera aveva firmato la «separazione consensuale» e che guarda con il solito sospetto ai movimenti di D`Alema: «La proposta di Bertinotti ha un margine se si vuole un sistema bipolare - commenta l`ex segretario del Pd - ma mi pareva di aver capito che non era questa l`aspirazione di gran parte delle forze del centro-sinistra. Un grande Pd può essere la base di alleanze riformiste».

• da Il Manifesto del 12 giugno 2009, pag. 5

sabato 13 giugno 2009

Vattimo con i liberali dice: "spero non mi rompano le palle"

L'ex pubblico ministero Di Pietro ha fatto eleggere al Parlamento europeo, oltre al suo collega De Magistris, anche il "migrante" Gianni Vattimo, sempre pronto a cambiare partito pur di avere una poltrona ben retribuita.
Che c'azzecca Gianni Vattimo con i liberali al Parlamento europeo? Il filosofo del "pensiero debole" è uno dei sette deputati che Antonio Di Pietro ha inviato a Strasburgo, dove l'Idv siede in mezzo agli apologeti di Adam Smith, John Stuart Mill e Milton Friedman. "Io resto comunista!", aveva detto Vattimo a marzo, annunciando che sarebbe salito sul taxi dipietrista per tornare a Strasburgo: il completamento di una carriera politica di cattolico omosessuale, iniziata nel Partito radicale, nei Ds, nell'Ulivo, nei Comunisti italiani, prima di approdare tra i giustizialisti di Di Pietro. "Spero che siano abbastanza liberali da non rompermi le palle", dice al Foglio Vattimo, confermando il suo ingresso "molto alla leggera" nei liberali europei. Ma come la mettiamo con la filosofia? Nel 2004 si inventò un "Marx indebolito" per giustificare il passaggio dai Ds ai comunisti, gli unici disposti a offrirgli un posto in lista. Oggi come allora il pensiero filosofico evolve: "La mia è una vera posizione liberale", spiega Vattimo. "La società non può essere ridotta ad armonia" in modo artificiale come vorrebbe il marxismo: la società "è una continua serie di conflitti" e, come dicono i liberali, l`armonia sta "nella soluzione dei conflitti". Detto questo, "la visione marxiana della storia, se togli l`assolutismo dello scientismo, è un progetto di emancipazione ancora valido". Di Pietro non ha mai azzeccato le candidature all'Europarlamento. Nel 2004 si fece accompagnare nei liberali da Giulietta Chiesa, che poi preferì migrare tra i vecchi compagni dell'internazionale socialista.
Nel 2009 doveva schierare "solo persone competenti e che parlano le lingue", aveva annunciato Di Pietro in marzo.
Filosofo del pensiero debole a parte, l'unico degli eletti che ha una solida esperienza europea è Niccolò Rinaldi, ex segretario generale aggiunto del gruppo liberale a Strasburgo. Un "signor nessuno" senza "pacchetti di tessere né voti", che ha accolto "un invito inaspettato", come lo stesso Rinaldi spiega sul suo sito Internet. Salvo lasciar intendere, in un convegno di radicali a Bruxelles a maggio, che sarà la quinta colonna di Marco Pannella a Strasburgo: "Sarò fiero di aiutare tutte le battaglie radicali, che al Parlamento europeo devono continuare a trovare voce". L'ex magistrato Luigi De Magistris, invece, non soltanto si confronterà con Clemente Mastella, ma dovrà interrogarsi sul suo compagno di banco Pino Arlacchi, finito sotto inchiesta all'Onu, di cui era vicesegretario generale, per aver tentato - tra l'altro - di finanziare il giro del mondo di un amico velista con la scusa di promuovere la lotta alla droga.
Vattimo, De Magistris e Arlacchi rischiano pure di dare il loro voto ai candidati del Cav. alla presidenza della Commissione e dell`Europarlamento. Graham Watson, il presidente dei liberali europei, ha confermato che il suo gruppo "sosterrà" la conferma di José Manuel Barroso alla testa dell'esecutivo comunitario, come chiesto dall'Italia, e ha proposto al Partito popolare europeo, grande vincitore delle elezioni, "un'alleanza ideologica" per formare una "maggioranza politica" nella prossima legislatura. Le chance del ciellino Mario Mauro di diventare presidente del Parlamento, in calo dopo che il Pdl ha mancato l'obiettivo di diventare la prima delegazione nazionale nel Ppe, possono essere rilanciate attraverso un ticket con Watson per guidare l'Assemblea di Strasburgo. Forse i dipietristi saranno pure costretti a sostenere Roberto Formigoni. Ieri, il presidente della regione Lombardia ha incontrato il Cav. a Palazzo Grazioli. Dopo il successo alle europee, la Lega nord rivendica la guida di alcune regioni del nord e, viste le storiche ambizioni di Formigoni di ricoprire l'incarico di commissario europeo, la Lombardia più del Veneto potrebbe aiutare la quadratura del cerchio del Cav.
• da Il Foglio del 11 giugno 2009, pag. 3

mercoledì 3 giugno 2009

Chi è Belusconi spiegato ai tedeschi su Die Welt

Alla gran parte dei giornali e riviste italiane, in maggioranza di sinistra, che in questi ultimi tempi hanno fatto a gara a pubblicare gli articoli della stampa straniera contro il nostro presidente del consiglio, è sfuggito un articolo pubblicato dal giornale tedesco Die Welt.
La stragande maggioranza di questi articoli, diffamatori e partigiani, sono in particolare quelli pubblicati dai giornali di proprietà del magnate australiano Murdoch, proprietario in Italia di Sky.
Pertanto pubblico la traduzione integrale di quest'articolo, apparso sul quotidiano tedesco Die Welt il 31 maggio.
Leggetelo e alla fine, quando leggerete la firma dell'estensore, rimarrete stupefatti come me, nell'apprendere il nome di colui che spiega così bene, e in maniera precisa al popolo tedesco, chi è il dottor Berlusconi.

L'imperatore dell'immaginazione

Per voi tedeschi è difficile immaginare un Cancelliere federale che possieda cinque grandi ville in un posto di mare glamour come la Sardegna nord orientale, la costa smeralda. Alle quali bisogna aggiungere due antiche ville in Brianza, una palazzina liberty nel centro di Milano, ancora ville sul lago Maggiore e a Portofino, un villone spettacolare a Taormina (in corso di acquisto), una dimora coloniale alle Bermuda, una flotta aerea privata per girare tra tutte queste residenze. Ma se fate uno sforzo di fantasia ai confini della realtà, subito dopo ve ne tocca un altro, perché intorno al complesso di ville in Sardegna gira un parco con ogni sorta di flora esotica, ibiscus e cactus venuti da tutto il mondo, piscine di ogni varietà possibile, il lago delle palme, una collina artificiale, un porticciolo con tunnel di sicurezza per l’approdo dei capi di stato, e un vulcano artificiale che erutta e manda alti nel cielo notturno i fuochi e i lapilli per il divertimento del proprietario e dei suoi ospiti.

Succede - e anche questo siete tenuti a considerarlo possibile - che il Cancelliere decide di invitare parenti, amici e belle ragazze, nel numero impressionante di trenta o quaranta, per una grande festa di capodanno: porta tutti nell’isola con i suoi aerei, fa solitario il padrone di casa (la seconda moglie, madre di tre dei suoi cinque figli, non ama il suo stile di vita, e se ne sta appartata da molti anni), e canta con voce molto bella e melodiosa canzoni d’amore in duetto con un maestro di musica napoletano preso dalla strada, un bravo mestierante senza alcuna pretesa di distinzione culturale o sociale. A tarda sera, mentre il vulcano erutta e la musica napoletana si diffonde, si spengono le luci nelle ville vicine; anch’esse belle ed eleganti, sono le dimore più compassate dell’establishment finanziario e industriale del paese, vecchi e nuovi ricchi che, nel giudizio degli ospiti di Berlusconi, certamente si annoiano dopo l’ennesima partita a gin rummy, e vanno a letto.

Berlusconi, ho detto. Infatti il vostro Cancelliere-tycoon, che fa festa con decine di ragazze e canta melodie napoletane mentre scoppiettano i lapilli del vulcano artificiale, è al di là di ogni immaginazione. Anche lo stile di vita dei predecessori di Berlusconi è imparagonabile al suo. L’unico paragone possibile è, nella storia antica, con alcuni cesari della dinastia giulio-claudia (Nerone compreso) e, nel nostro tempo, con Michael Jackson e il suo Neverland Ranch, isola artificiale di eterna giovinezza costruita da un colosso del narcisismo postmoderno.

Da quindici anni, invece, l’Italia è politicamente e letterariamente dominata da questo imperatore dell’immaginazione e della politica. Fondatore e proprietario delle tv commerciali Mediaset (tre reti nazionali), Silvio Berlusconi è un imprenditore milanese che ha costruito negli anni Settanta e Ottanta una grande fortuna e, quando ha visto il pericolo di perderla per mano di giudici moralisti e politici di sinistra, ha deciso di entrare in politica e di prendere il potere. Così la metà degli ultimi quindici anni Berlusconi è stato il capo del governo, l’altra metà il capo dell’opposizione; è salito alle stelle, ha cambiato il sistema, è crollato nella polvere, è stato combattuto con mezzi feroci, ha risposto con furia animalesca, ma alla fine è risultato il dominatore della politica e dell’antipolitica, e soprattutto l’uomo di stato di gran lunga più amato dagli italiani da molto tempo a questa parte.

Il mestiere della politica Berlusconi lo ha imparato presto. Sbaglia molto, ma le sue gaffe, gli eccessi, gli atteggiamenti ludici che irritano o impressionano i suoi pari nel mondo si combinano con un carattere tenace, con un intuito fulmineo, con la capacità di tenere la scena e perseguire con notevole successo fini politici e di potere, nel suo interesse personale e in quello del suo paese. Uno dei suoi più recenti capolavori è stato dichiararsi fautore dell’anarchia etica e garantirsi al tempo stesso l’appoggio della gerarchia cattolica, dal Papa in giù. In un suo grano di follia è consistito fino ad ora il segreto del consenso da lui conquistato. Molti milioni di italiani, la maggioranza, amano il suo tratto populista, la sua vicinanza ai loro difetti, verso i quali nessuno al mondo sa essere indulgente come i miei compatrioti. E gli si sono affezionati anche perché sono sideralmente distanti dai suoi nemici. Berlusconi è infatti duramente combattuto dai magistrati, che hanno l’apparenza fredda di una casta e si sono negli anni politicizzati fino alla tendenziosità, perdendo autorevolezza; dai politici professionali del vecchio regime a dominanza democristiana e comunista, una classe dirigente non rimpianta; dal club dei potenti della finanza, l’establishment che lo ha sempre considerato un pericoloso outsider.

L’ultima storia che riguarda Berlusconi è surreale, decisamente al di là del bene e del male. Un grande giornale di sinistra, la Repubblica, ha scoperto e ha lanciato come se fosse un segreto la storia, pubblica e ben documentata da una raffica di fotografie, della partecipazione del presidente del Consiglio alla festa di compleanno, il diciottesimo, di una ragazza napoletana il cui nome è Noemi. La festa era in un ristorante, c’erano i genitori e tutti i parenti della ragazza, una gran quantità di personale di servizio, amici di famiglia, agenti di scorta e membri dello staff del presidente del Consiglio. La ragazza, come altre che hanno nel tempo frequentato le feste di casa Berlusconi, è una simpatica e spregiudicata teen ager con la voglia di sfondare nel mondo dello spettacolo, e con Berlusconi ha un rapporto di familiarità, lo chiama “papi”.

Familiarità, patronage, ma niente flirt con una minorenne: su questo nessuno ha rivolto accuse dirette al premier, perché i cronisti di Repubblica si sono limitati a insinuazioni e domande allusive. E Berlusconi, dopo essersi impigliato in una rete di imprecisioni, inesattezze e mezze bugie che sono la sua arma tipica contro gli atteggiamenti aggressivi e inquisitori della stampa, ha negato con sicurezza di essere il fidanzato segreto della adolescente. Tycoon televisivo, Berlusconi è sempre rimasto se stesso negli stili di vita, e adora il patronage, il gioco semiserio intorno al sogno di promozione in carriera e di competizione delle ragazze che girano nel mondo del casting, oggi una sorta di nuova classe sociale postmoderna che produce plusvalore e si guadagna da vivere attraverso l’immagine. Sebbene ami le donne, e questo può succedere, l’uomo è molto lontano da Gilles de Rais, e anche dal libertinismo di don Giovanni. Casomai è un Leporello pieno di disprezzo per le ipocrite maniere del bel mondo.

Nella storia, che sarà probabilmente ridimensionata dopo le elezioni europee, ha avuto una funzione decisiva una serie di duri commenti della signora Berlusconi, Veronica Lario. Decisa a divorziare dopo anni di estraniamento, e dopo aver subito sia le carezze sia le distrazioni umilianti di un maschio italiano tremendamente affezionato al proprio Ego e ai suoi pubblici primati di potenza virile, la moglie del presidente del Consiglio, che ha le sue idee e una visione del mondo sobria e riservata, ha tirato un paio di sonori ceffoni al marito sia come figura privata sia come figura pubblica. Appiccando l’incendio. Un grande falò delle vanità che sarà spento solo quando si capirà che, parafrasando un aforisma postumo di Friederich Nietzsche: “Non resta altro mezzo per rimettere in onore la politica, si devono come prima cosa impiccare i moralisti”.

Giuliano Ferrara