sabato 20 dicembre 2008

Magistrati, la vita è bella

Uno dei tanti motivi del mancato funzionamento della giustizia in Italia è ben descritto in questo articolo di Dimitri Buffa.

Nel decennio tra il 1993 e il 2003 il Csm accordò ai propri protetti della casta in toga qualcosa come 15 mila e rotti incarichi giudiziari. Cioè oltre mille l’anno. Nel 2004, finalmente, l’ex Casa delle libertà tramite il ministro guardasigilli dell’epoca, l’ottimo Roberto Castelli, si inventò una legge, che dopo varie traversie divenne effettiva nel 2006 e che avrebbe dovuto ridurre all’osso questo tipo di prebende. Purtroppo, però, subito dopo venne Mastella, e dopo un anno di governo del centro sinistra i privilegi furono ristabiliti e nessuno li ha tolti più. Risultato? Se si va sul sito del Csm , visto che almeno la pubblicità degli incarichi non se la sono potuta rimangiare, si scopre che solo quest’anno, nel periodo tra maggio e novembre, sono stati accordati oltre 620 di questi incarichi. Cui si aggiungono i 265 giudici distaccati fuori ruolo cui anno per anno il Csm riconferma la possibilità di fare il lavoro del magistrato, meglio di fare lobbying per la categoria, all’interno dei ministeri, di Palazzo Chigi, della Corte costituzionale (dove di fatto sono i fuori ruolo a preparare e in definitiva anche a orientare le decisioni dei giudici della Consulta con le ricerche giurisprudenziali da loro svolte), al Csm, al Dap, in via Arenula e così via. Insomma dappertutto tranne che nei palazzi di giustizia. Dove d’altronde ci pensano già i loro colleghi a fare il buono e il cattivo tempo.

Nel giorno in cui il Capo dello Stato spezza una lancia a favore della intangibilità della Costituzione per quel che riguarda la giustizia, e la cosa notoriamente non è vera perché la Costituzione tranne che negli articoli fondamentali, che sono i primi, può comunque essere cambiata, è bene ricordare quanti giudici vivono tuttora borderline con la Costituzione facendo un lavoro diverso da quello per cui sono diventati magistrati. E ponendosi spesso in conflitto di interessi con le proprie inchieste o con i propri giudizi. Quando non in una posizione di corruttibilità teorica. Qualche settimana orsono solo la pattuglia dei Radicali italiani guidata da Rita Bernardini ha fatto battaglia in aula perché venissero resi noti i compensi dei magistrati fuori ruolo e perché il governo prendesse una posizione in merito. E’ andata male. Però almeno sappiamo che il problema esiste e sappiamo anche alcuni dettagli che ci possono aiutare a inquadrarlo. Tra l’altro proprio in uno studio recente di Bankitalia sulla giustizia civile, a proposito degli incarichi extra giudiziari, si afferma che “essi sono la conseguenza della demotivazione dei magistrati alla meritocrazia”. E questo visto che la loro progressione in carriera e nello stipendio è pressoché automatica. Insomma i giudici, demotivati dall’egualitarismo sessantottino della legge Breganza (quella che, per usare le parole del Presidente della repubblica emerito Francesco Cossiga, permette a qualunque pretore di farsi fare i biglietti da visita “in fieri”, da usare 20 anni dopo, come primo presidente della Cassazione) adesso si rivolgono all’esterno della loro professione cercando nuovi stimoli o nelle carriere politiche oppure in questi incarichi. Dentro o fuori dal ruolo di magistrati.

L’Ucpi, Unione delle camere penali italiane, che nella persona dell’avvocato Bartolo Iacono, ha fatto una ricerca ad hoc sul problema, ci segnala che, ad esempio, “attualmente alla Corte Costituzionale sono assegnati ”fuori ruolo“ 28 magistrati (fonte CSM aggiornata all’11 settembre) e 7 in posizione part – time con ”incarico extragiudiziario autorizzato dal CSM“. Non basta, al Csm Oltre ai magistrati eletti (16) attualmente sono distaccati ”fuori ruolo“ 17 magistrati (segretario generale (1) , addetti alla segreteria (11), addetti all’ufficio studi e documentazione (5). Infine alla presidenza della Repubblica i magistrati attualmente collocati fuori ruolo sono tre. Uno di questi è Consigliere per gli Affari dell’amministrazione della giustizia. Non si contano poi, quelli in servizio a via Arenula, che sono altri 58, quelli che si imboscano in missioni all’estero, tipo insegnare il diritto ai futuri magistrati afghani, che sono altri 34, quelli negli altri ministeri, sempre con posizioni preminenti di consiglieri giuridici (come se i consigli sulla legge potessero darli solo i giudici e non anche gli avvocati o i professori universitari delle varie branche del diritto, ndr) che sono altri 27, quelli presso la Presidenza del Consiglio, altri 14, e quelli presso le varie ”Authority“, cioè altri 15.

Se si sommano quelli che lavorano all’ispettorato tra via Arenula e via Silvestri, che sono altri 17, più i cinque del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e gli altri cinque dell’ufficio legislativo del ministro, più altri sparsi si arriva alla somma di 264 unità. Che includono anche 12 magistrati che sono sotto mandato parlamentare, 3 sotto mandato di amministrazione regionale e altri 3 sotto mandato di amministrazione comunale, più 9 in aspettativa varia. Non pervenuti come le temperature che leggeva Bernacca quando si arrivava a Santa Maria di Leuca. Forse Napolitano farebbe bene a occuparsi di loro prima che dei presunti vulnus alla Costituzione che porterebbero alcune sacrosante riforme che solo ora Berlusconi dice di volere fare. Oltre alla quantità di queste presenze estranee in altri rami della amministrazione statale, c’è anche un problema di qualità della legislazione e dell’attività ordinaria degli organi amministrativi e esecutivi: se sono sempre e solo i magistrati a consigliare, supervisionare, scrivere leggi ed applicarle, fatale che si creerà con loro la categoria orwelliana di ”quei maiali che erano più uguali degli altri maiali“. In nessun altro paese al mondo i magistrati hanno così tanto potere dentro e fuori dal loro ordine giudiziario. Questo sì che è un vero problema costituzionale caro presidente Napolitano.

da L'Opinione del 16 dicembre 2008, pag. 2.

sabato 13 dicembre 2008

GIUSTIZIA: ALTRO GIRO, ALTRA GIOSTRA!

I meandri della gIUSTIZIA italiana che ancora qualcuno si ostina a non voler rinnovare.

Qualche anno fa, precisamente il 2006, molti media nazionali riportarono - sbagliando - come una sentenza quella che era invece una richiesta del pubblico ministero sfavorevole all'operatore telefonico H3G, denominato comunemente 3.

Ebbene, a distanza di tre anni, la sentenza vera e propria non è stata ancora emessa. Perchè?

Vediamo di ricostruire i fatti che ci riguardano da vicino essendo anch'io un cliente di 3.

Ricostruzione affidata ad un articolo dell'epoca:

"Tre non può bloccare i cellulari. Il giudice: si usino con tutte le sim

MILANO - "Craccare" un telefonino non è reato penale. Quei 500 mila italiani da un anno nel mirino della magistratura perché hanno sbloccato i "lacci elettronici" che impediscono di utilizzare il loro cellulare "3" con la scheda di un altro gestore possono tirare un sospiro di sollievo. Lo ha deciso il pubblico ministero Gianluca Braghò chiedendo l'archiviazione del procedimento aperto nel luglio 2005 in seguito ad una querela presentata da H3G, la società che controlla il marchio "3" e da LG Electronics. Nessun rischio di tipo penale, quindi, né per i possessori dei telefonini né per la miriade di "chioschi" che in passato reclamizzavano apertamente la possibilità di sbloccare i videofonini per 20 o 30 euro. La storia è semplice. Per consolidare la propria posizione nel mercato "3" ha venduto milioni di sofisticati videofonini a prezzi molto convenienti, anche ad un terzo o a un quarto del loro valore. L'unica condizione era l'impegno a restare fedeli per almeno un anno (più spesso due) alla stessa "3". A difesa di questa promessa faceva buona guardia l'operator lock, un dispositivo elettronico che in teoria avrebbe dovuto bloccare il telefonino qualora si fosse cambiata la Sim con quella di un concorrente. In teoria. Perché secondo la polizia mezzo milione di italiani si sono fatti sbloccare il cellulare grazie ad un software reperibile su Internet. E hanno quindi utilizzato le schede ricaricabili a buon mercato dei gestori concorrenti.
Nel luglio del 2005 la "3" è ricorsa alla magistratura ipotizzando reati come accesso abusivo ad un sistema informatico, frode informatica, detenzione abusiva di sistemi d'accesso. E ha chiesto al giudice di intervenire "per ripristinare la legalità nel mercato dei servizi per la comunicazione mobile". Secondo il giudice, però, le richieste de la "3" sono infondate. Il motivo: il telefonino è di proprietà dell'utente che, per definizione, non può violare qualcosa che è suo.

"Anche il buon senso", è scritto nella sentenza, "suggerisce che il cliente una volta ricevuto il video telefonino si comporta uti dominus potendo utilizzarlo a suo piacimento". Quanto allo sblocco del cellulare "altro non è che una violazione contrattuale". Insomma, niente di penale. Al massimo "3" potrebbe fare una causa civile ai suoi clienti.

Braghò osserva inoltre che "in base ad un'indagine a campione" effettuata fra i rivenditori di "3" gli acquirenti dei videofonini "difficilmente sono posti nella condizione di conoscere le clausole contrattuali poiché al momento dell'acquisto non viene sottoscritto alcun contratto". Anzi, nella richiesta di archiviazione si precisa che nei locali di vendita non sono affisse le condizione generali di contratto. E dunque, anche per questo motivo, va escluso il dolo."

La Repubblica del 29 giugno 2006), pag. 37

Per sapere chi ha ragione quanto ancora dovremo attendere?

Si è perduto il fascicolo, il giudice è andato in ferie, e ammalato, è stato trasferito, è defunto e non è stato sostituito? Oppure la sentenza è stata emessa e imboscata perchè favorevole agli utenti...oppure?

Una qualsiasi risposta ci potrebbe stare bene, purché non continui questo assordante silenzio.

Di quale prestigio parla l'articolista?

Il prestigio infranto


• da La Repubblica del 5 dicembre 2008, pag. 1


di Giuseppe D'Avanzo


Si può immaginare che Silvio Berlusconi se la goda come mai se l'è goduta negli ultimi quattordici anni di conflitto frontale con la magistratura. Mai Berlusconi e con Berlusconi tutti coloro che hanno in odio il controllo giurisdizionale hanno avuto un giorno di così vittoriosa, piena, gratificante gioia come questo giovedì 4 dicembre 2008. È una data da annotarsi perché sotto questa luna la magistratura, come ordine (potere) dello Stato, autonomo e indipendente da qualsiasi altro potere, raggiunge il punto più basso del suo prestigio istituzionale; livelli infimi di attendibilità, di rispetto di se stessa, di ossequio alle regole.


Si infligge da sola, come in preda a una follia autodistruttiva, un'umiliazione che lascerà tracce durevoli. Coinvolge nella mischia, ingaggiata irresponsabilmente da due procure (Salerno, Catanzaro) anche il capo dello Stato. Giorgio Napolitano chiede notizie e, se non segreti, atti dell'inchiesta che i due uffici, come bambini prepotenti e irresponsabili, si sequestrano e controsequestrano accusandosi reciprocamente di reato.


Non c'è nessuno che si salva in questa storia, da qualsiasi parte si guardi. La procura di Salerno indaga, su denuncia di Luigi De Magistris, sugli ostacoli che hanno impedito al magistrato di concludere le inchieste Why Not e Poseidone. Mette sotto accusa i procuratori di Catanzaro; il procuratore generale della Cassazione che ha promosso il provvedimento disciplinare contro De Magistris; il sostituto procuratore generale che ha sostenuto l'accusa al palazzo dei Marescialli; il vicepresidente del consiglio superiore e, nei fatti, l'intero Consiglio.


Con un decreto di perquisizione di 1.700 pagine (1.700!) porta via da Catanzaro i fascicoli delle inchieste ancora in corso. La procura di Catanzaro replica che l'iniziativa è "un atto eversivo". Mette sott'inchiesta, a sua volta, le toghe di Salerno per abuso d'ufficio e interruzione di pubblico servizio e si riprende i fascicoli. Il presidente della Repubblica, dinanzi all'inerzia di una procura generale della Cassazione, si muove. Con un'iniziativa senza precedenti e, secondo alcuni addetti impropria, chiede a Salerno notizie utili sull'inchiesta (contro Catanzaro) e più tardi lo stesso fa con Catanzaro (contro Salerno).


Ci sarà tempo e modo per affrontare nel merito il groviglio di questioni sollecitate da questo pasticcio. In queste ore di sconcerto, è forse utile ricordare che le inchieste di De Magistris, un generoso magistrato lasciato colpevolmente isolato in un opaco ufficio giudiziario, sono state valutate nel tempo da un giudice per le indagini preliminari, da un tribunale del riesame, dalla Corte di Cassazione. Sempre De Magistris ha avuto torto. Circostanza sufficiente per concludere, come in passato, che le sue inchieste sono eccellenti e attendibili ricostruzioni "giornalistiche" di un sistema di potere, ma un fragile quadro penale. Per di più, messo insieme con mosse "abnormi". O per lo meno giudicate tali, e censurate, dal procuratore generale della Cassazione, dal plenum del Csm, dalla Corte di Cassazione (respinge il ricorso di De Magistris).


È una sequela di giudizi inequivocabili che la procura di Salerno cancella con un colpo di spugna come se fosse dinanzi al più gigantesco dei complotti. Senza attardarsi a dirci, finalmente, se le inchieste di De Magistris sono fondate o deboli (e magari dandosi da fare per rafforzarle, se incompiute), Salerno fa leva sulle accuse di De Magistris per partire lancia in resta contro Catanzaro con un decreto di perquisizione di 1.700 pagine.


Ora un cittadino qualsiasi pensa che il magistrato che firma un decreto come quello, alto due spanne, di migliaia di pagine, non vuole chiudere davvero l'inchiesta. Pretende solo che si sappia di quali ingredienti, ancora tutti da accertare, sia fatta l'inchiesta. Vuole un'eco pubblica ingrassata dalle suggestioni e non da fatti accertati e documentati. Chiede soltanto pubblicità e, al di fuori del processo, prima di un processo, una condanna pubblica per i coinvolti, quale che sia il loro coinvolgimento. Deve essere questo che consiglia a Salerno di sequestrare le carte e non di chiedere, più utilmente e pacificamente, una copia degli atti.


Catanzaro, dal suo canto, non è da meno. Avrebbe potuto rivolgersi alla procura generale della Cassazione (il più alto livello della funzione requirente) e sollevare un conflitto di competenza. Preferisce lo scontro aperto. Per sedarlo interviene Napolitano.


Sono ore di smarrimento per chi ha fiducia nella funzione giudiziaria. Un ufficio essenziale dello Stato di diritto pare affidato a bande che si fanno la guerra in modo così estremo e furioso da coinvolgere anche l'arbitro. Del tutto irresponsabilmente, stracciano ogni apparenza di decoro, di leale collaborazione istituzionale, ogni traccia di rispetto delle regole e delle sentenze già scritte. Un cittadino non può che pensare che la sua libertà personale, i suoi beni, la sua reputazione sono affidati a una consorteria scriteriata e incosciente. Non può che prendere atto che il "potere diffuso" della giurisdizione è fallito come si è rivelato una rovina la gerarchizzazione degli uffici. Non può che concludere che la magistratura (per l'imprudenza o l'arroganza di pochi) appare non consapevole che autonomia e indipendenza si declinano con responsabilità o si perdono per sempre.


Mentre Berlusconi si starà stropicciando le mani dalla soddisfazione, e il ministro Alfano si fa subito avanti con una proposta di riforma bipartisan, quel cittadino dovrà chiedersi se ora prevarrà almeno il buon senso prima che nei palazzi di giustizia appaia il cartello di "chiuso per fallimento".

Ancora sui politicanti italici...

L'affaire Firenze e le trame del Pd


• da La Stampa del 5 dicembre 2008, pag. 41


di Franco Ramella
Quanto sta affiorando dalle intercettazioni pubblicate a Firenze, a proposito dell’affaire immobiliare Fondiaria-Castello, appare molto preoccupante. Prima che la scintilla diventi un incendio (così l’ha già definito uno degli inquirenti), sarebbe opportuno che i dirigenti del Pd intervenissero con decisione. A destare impressione non sono tanto le accuse di corruzione avanzate con riferimento al nuovo insediamento urbanistico, previsto nella zona nord-ovest della città su terreni del gruppo Ligresti. Su questa vicenda sarà la magistratura a fare chiarezza e, fino a condanna definitiva, vale la presunzione d’innocenza per ognuno degli inquisiti.


Ciò che invece preoccupa, e che non può essere passato sotto silenzio, è lo stile di governo del capoluogo toscano che traspare dalle intercettazioni. Con una parte della classe dirigente fiorentina - politica, economica e giornalistica - legata assieme da una fitta trama di scambi e favori personali: l’appartamento sottocosto per l’amica dell’assessore, la gratifica per il «caro figliuolo» di quest’ultimo, le vacanze gratis in Sardegna per il direttore del giornale cittadino ecc. Il tutto sotto l’attenta regia di un esponente di rilievo del grande gruppo assicurativo-immobiliare, che ha enormi interessi in gioco nell’operazione urbanistica finita sotto il mirino della magistratura.


Dalle telefonate si ricavano anche indizi interessanti sulle logiche che governano la politica locale: nel 2009 si elegge il nuovo sindaco di Firenze, l’anno dopo il nuovo presidente della Regione Toscana. Per dare il tono della vicenda: due degli attuali candidati alle primarie del Pd fiorentino intervengono su un imprenditore privato per punire una loro ex-protégé per il sostegno fornito ad un altro candidato-sindaco. Si intravede anche una sorta di «americanizzazione» in negativo della competizione interna al partito, per cui chi aspira a una carica di governo deve guadagnarsi il favore dei maggiori gruppi economici cittadini, per ottenerne risorse e sostegno.


In breve, ciò che emerge è la tendenza all’esaurimento di un’eredità politico-organizzativa - quella del Pci - che possedeva tutt’altra caratura. La fine delle ideologie e l’indebolimento organizzativo hanno dissolto quei legami collettivi e quei controlli interni che in queste zone rendevano il partito di massa un vitale tessuto connettivo tra la società e le istituzioni. La vicenda mostra l’urgenza per il Pd di un ripensamento della sua «forma partito», in modo da tornare a svolgere a livello territoriale un ruolo - oltre che di rappresentanza sociale - anche di selezione e di controllo sulle élite amministrative. Una funzione quest’ultima tanto più essenziale laddove - come nelle regioni rosse - la forza e la continuità di una tradizione politica, assicurano agli eletti una lunga permanenza al potere.


Proprio da questa Italia di mezzo, perciò, dovrebbe partire un messaggio di forte rinnovamento organizzativo. Magari puntando ad una «circolazione delle élite» che valorizzi i giacimenti nascosti della politica italiana: giovani e donne innanzitutto. Quest’ultime, ad esempio, occupano ancora oggi una posizione troppo marginale nelle amministrazioni delle regioni rosse: le donne assessori sono appena il 22% (la media italiana è ancora più bassa, il 17%). Sotto questo profilo la «crisi fiorentina» rappresenta per la classe dirigente democratica una sfida/opportunità a carattere più generale. Poiché le scelte che verranno compiute sul come affrontarla avranno ricadute serie e durature sulla nuova organizzazione che si sta costruendo. Oggi il Pd deve decidere che tipo di forza politica intende diventare. Tocqueville parlava di grandi e piccoli partiti. I primi, «badano più ai principi che alle conseguenze, alla generalità più che ai casi particolari, alle idee più che agli uomini. (...) I piccoli partiti, al contrario, sono in generale senza vera fede politica: non essendo sostenuti da grandi obiettivi, hanno un carattere egoistico che si manifesta in ogni loro azione (...). I grandi partiti rovesciano la società, i piccoli l’agitano; gli uni la ravvivano, gli altri la depravano; i primi talvolta la salvano scuotendola fortemente, mentre i secondi la turbano sempre senza profitto».

I nostri politicanti...

L’ex Fgci e il plurinquisito, la maledizione fiorentina torna a colpire la sinistra

• da La Repubblica del 5 dicembre 2008, pag. 13

di Alberto Statera
Qui, tra queste sterpaglie, i ragazzi della Federazione giovanile comunista, quei «khomeinisti» trai quali militava l’attuale sindaco uscente Leonardo Domenici, piantarono nel 1989 la tenda rossa che indusse il segretario del Pds Achille Occhetto a bloccare la speculazione immobiliare della Fondiaria sulla piana fiorentina del Castello. «Sento puzza di bruciato», disse nella notte tra il 26 e il 27 giugno di quell’anno di disgrazia in una telefonata al segretario provinciale Paolo Cantelli, che si schiantò sulla sedia. E un’intera classe dirigente locale comunista, forse l’avanguardia di quella definita oggi «sinistra immobiliare», fu di fatto segata in una notte, nonostante i riti consolatori di Fabio Mussi e Gavino Angius, spediti a Firenze a trattare i reprobi. Vent’anni sono passati, vent’anni e la storia, come in un’ineluttabile maledizione fiorentina, si ripete con un partito che si sfalda alla vigilia delle primarie per la designazione del candidato sindaco su quei 180 ettari di nulla, in un clima politico che adesso Occhetto definisce da «compagni di merendine». Mentre da Roma Walter Veltroni ammette che il Partito democratico, percorso da cacicchi di periferia, non è affatto al riparo dalla questione morale, sollevata da Giorgio Napolitano.

Al posto della tenda rossa dei khomeinisti della Fgci svettano oggi qui, a nord-ovest del centro di Firenze, decine di scheletri poggiati su cilindri di cemento armato che dovrebbero contenere dal luglio prossimo la scuola dei marescialli e dei brigadieri dei carabinieri. Dietro, tra i rovi, il nulla su cui la sinistra rischia di perdere alle prossime elezioni amministrative il miglior risultato elettorale in tutta Italia del neonato Pd veltroniano. La piana di Castello, l’unica area libera di Firenze ora sequestrata dalla magistratura, diciamolo, è uno schifo, accerchiata com’è dall’aeroporto di Peretola dei Benetton, dall’autostrada, dalla ferrovia e dal futuro inceneritore.


Difficilmente ci sarebbe qualcuno disposto a costruire lì qualcosa. Se non fosse che quell’area è di Salvatore Ligresti con la sua Fondiaria-Sai. E, si sa, quando c’è di mezzo don Salvatore da Paternò, tutto è possibile: anche un quartiere residenziale con migliaia di appartamenti, e soprattutto le sedi della Regione e della Provincia, concesse dalla politica, che valorizzano un’area alquanto infelice. Un affare da più di un miliardo, importante quasi come quello di Milano nell’area ex Fiera denominato City Life.

«Mors tua vita mea», sembra essere il motto della squadra ligrestiana che ogni volta che persegue un progetto speculativo da Craxi in poi, sembra far fuori un’intera classe politica. Per scelta? Per insipienza? Per arroganza del potere finanziario, che è certo di poter comprare sempre tutto e tutti? Per inadeguatezza di una classe politica di cacicchi locali irretiti dal «volto demoniaco del Potere», come dice l’expresidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, citando Ritter? Si chiama Fausto Rapisarda l’uomo che ha messo a ferro e fuoco la sinistra fiorentina. Vecchia conoscenza delle polizie e delle procure d’Italia, nipote acquisito e plenipotenziario di Ligresti, plurinquisito, ex latitante, fu protagonista di Mani Pulite per lo scandalo Eni-Sai: 12 miliardi dilire pagati al Psi di Craxi e al segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi per ottenere di assicurare con polizze-vita i 140 mila dipendenti dell’ente petrolifero. Allora si beccò 3 anni e otto mesi, meno di Craxi e Citaristi, ma quella condanna non servì a toglierlo dalla scena, sulla quale persiste peraltro immarcescibile, pur se pregiudicato, suo zio don Salvatore.

E’ lui, Fausto, che a Firenze gestisce l’affare Castello con i soliti metodi.

Intercettato il 10 ottobre racconta a Ligresti: «Stasera sono a cena con D’Alema. Sono al suo tavolo, mi ha messo lui al suo tavolo, quindi si è informato evidentemente». Degno di una gag di Totò il resoconto telefonico del suo incontro alla Taverna del Bronzino con il vicepresidente della Regione Federico Gelli, che - onore che annuncia futuri favori - gli dà persino del tu. E da oscar della «Brutta Italia» quello con Francesco Carrassi, il direttore ora dimissionario della "Nazione", feudo della famiglia Riffeser che cambia i direttori dei suoi giornali come le calze, scegliendo accuratamente quasi sempre i più disponibili a tutto, il quale rivendica favori in cambio di un editoriale gradito a Ligresti.

Un’Italia di millanterie, di debolezze, di degenerazioni piccole e grandi della politica e della società civile, già vista tante volte, se non fosse perché sembra contagiare in pieno nella sua roccaforte la sinistra più gradita d’Italia, alla vigilia delle elezioni per l’elezione del nuovo sindaco al posto di Leonardo Domenici, che, come persona informata dei fatti, ha subìto l’onta di quattro ore di interrogatorio da parte del procuratore Giuseppe Quattrocchi. Le primarie espressione di democrazia interna rispetto allo strapotere partitico? Sarà, ma qui si sono trasformate nel massacro di un’intera classe dirigente e nell’epitome della «brutta politica». Perché le istituzioni trattano confidenzialmente personaggi ben noti come Rapisarda? «Istituzioni e politica volgari, grottesche, approssimative e arruffone», ha scolpito Daniela Lastri, la ragazza, candidata alle primarie con Matteo Renzi, il giovane, Lapo Pistelli, il democristiano, e Graziano Cioni, il vecchio. «Se vince la Lastri è un disastro», dice Cioni, l’assessore-sceriffo autore dei provvedimenti anti-lavavetri, in una delle intercettazioni che hanno portato ad indagarlo per corruzione insieme al suo collega assessore all’Urbanistica Gianni Biagi. Cioni, comunista da sempre, «babbo cenciaio», come ricorda con orgoglio, sembra un po’ Plunkitt, quel politico novecentesco della New York di Tammany Hall che viveva la politica come un do ut des di reciproche fedeltà e favori. Accusato di avere un figlio che lavora da Ligresti, di avere un’amica stretta cui ha trovato una casa di Ligresti, di averle fornito una parabola Sky di Ligresti, di aver preso sponsorizzazioni da Ligresti, la sua concezione della politica è tutta contenuta nell’intercettazione di una telefonata con Sonia Innocenti, una fornaia rimasta senza lavoro con due bambini a carico, che si era rivolta a lui in cerca di un lavoro.

Cioni l’aveva fatta assumere dall’imprenditore Marco Bassilichi.

Ma viene a sapere che al momento di schierarsi per le primarie, Sonia sceglie Lapo Pistelli. E per telefono le fa una sfuriata: «Ascoltami, io mi posso ritirare, posso andare alle elezioni, posso vincere, ma la gente che è stata con me e poi se ne scorda, mi fa incazzare, mi fa incazzare, mi fa incazzare. Capito? Allora è bene chete ne ricordi. Ma che mi prendi per il culo?». Sono increduli nella Casa del Popolo di San Bartolo 300 iscritti, ma il figlio del «babbo cenciaio», mentre si dimette il capogruppo del Pd Alberto Formigli, socio di società di progettazione, per ora non molla di un centimetro sulla candidatura alle primarie, aggravando a Roma la gastrite di Veltroni.

Tutto questo forse non sarebbe mai avvenuto se Diego Della Valle, che tanti soldi ha investito nella Fiorentina, non avesse chiesto una novantina di ettari al comune per fare la sua Cittadella Viola, il suo stadio, naturalmente con qualche albergo e qualche centro fitness. Visto che non siamo a Phoenix, ai margini del deserto, l’unica area disponibile è alla piana del Castello, anche a costo di sacrificare segretamente gli 80 ettari previsti di parco, che peraltro al sindaco Domenici lo hanno sempre fatto «cagare», come racconta lui stesso in un’intercettazione telefonica.

Fateci l’abitudine, nella stanza di Clemente VII, a Palazzo Vecchio, sotto gli affreschi del Vasari, è questo ormai il lessico corrente. Forse perché persino qui la politica - ma speriamo di essere smentiti - non è ormai che «sangue e merda», come diceva l’indimenticato ministro socialista Rino Formica.

Giustizia italiana e Politica

Il colle e l'oscuro groviglio

• da La Stampa del 5 dicembre 2008, pag. 1

di Carlo Federico Grosso.

La situazione è senza precedenti: per il groviglio delle competenze interessate, per l’importanza della posta in gioco, per i possibili risvolti politici, soprattutto per il rischio di perdita di credibilità delle istituzioni giudiziarie.

L’altro ieri avevamo letto, con stupore misto ad interesse, dell’iniziativa della Procura della Repubblica di Salerno nei confronti dei colleghi di Catanzaro, indiziati per un asserito complotto organizzato contro De Magistris. Il sospetto di tale Procura era che taluni magistrati e taluni politici lo avessero ordito contro il giovane sostituto procuratore allo scopo di bloccare, o deviare, alcune inchieste che coinvolgevano personaggi eccellenti. Soltanto la convinzione della Procura salernitana poteva d’altronde giustificare la gravità dell’accusa e la spettacolarità, anche mediatica, dell’iniziativa.

Ieri le contromosse di Catanzaro. La Procura Generale di tale sede giudiziaria ha reagito, indagando a sua volta i colleghi di Salerno per abuso di ufficio ed interruzione di un pubblico servizio, e disponendo il sequestro dello stesso materiale sequestrato il giorno precedente da Salerno. Una iniziativa a sua volta sconcertante.

Tanto più sconcertante, se si considera che Procura competente a valutare i reati commessi da magistrati di Salerno non è quella di Catanzaro, bensì quella di Napoli.

Non è possibile stabilire, al momento, chi ha ragione e chi ha torto. Non si conoscono infatti gli atti d’indagine compiuti dai magistrati che hanno ereditato i processi di De Magistris, gli atti delle indagini compiute dalla Procura di Salerno, le motivazioni delle accuse di abuso e interruzione di servizio pubblico elevate dalla Procura generale di Catanzaro. D’altronde quand’anche si fosse in grado di conoscere tali atti, orientarsi non sarebbe agevole.

Bene hanno fatto, pertanto, il Consiglio superiore della magistratura e il Guardasigilli, nell’esercizio delle loro rispettive funzioni, ad intervenire immediatamente. Bene ha fatto, soprattutto, il Presidente della Repubblica, interpellato dal Procuratore generale di Catanzaro, a non sottrarsi alla richiesta di fare chiarezza.

L’intervento del Capo dello Stato merita un’attenzione assolutamente particolare. Giorgio Napolitano ha chiesto, in un primo tempo, al Procuratore della Repubblica di Salerno «l’urgente trasmissione di ogni notizia e atto utile a meglio conoscere una vicenda che, a prescindere dal merito, presenta aspetti di eccezionalità con rilevanti implicazioni di carattere istituzionale, prima fra tutte quella di determinare la paralisi della funzione processuale». In un secondo tempo, appresa la menzionata reazione della Procura generale di Catanzaro, ha chiesto a sua volta a tale Procura notizie utili a valutare ciò che stava accadendo.

Tale iniziativa del Presidente della Repubblica non appartiene all’ambito delle sue competenze codificate. Assunta in qualità di supremo garante della legalità e dei diritti di tutti i cittadini, appare comunque, in un momento di così grave tensione e difficoltà, assolutamente apprezzabile per la forza e la tempestività del segnale offerto.

Una ultima riflessione. I prossimi giorni consentiranno, forse, di comprendere meglio il significato di ciò che è accaduto e di formulare le prime valutazioni di merito. Al momento è in ogni caso necessario auspicare con forza che nessuno mediti di utilizzare quest’ultimo, assai poco encomiabile, episodio di guerra fra Procure, per cercare di imporre, in qualche modo, un bavaglio all’esercizio dell’attività giudiziaria.

Sempre sulla malagiustizia italiana

Napoli Quei difensori d'ufficio di Di Pietro

• da Il Giornale del 5 dicembre 2008, pag. 1

di Filippo Facci
L’articolo di Giuseppe D’Avanzo pubblicato ieri su Repubblica andrebbe analizzato nelle scuole di giornalismo. Andrebbe citato per intero, ma siccome D’Avanzo non scrive mai meno di una pagina e mezzo dovete fidarvi di una nostra personalissima sintesi, questa: 1) mi chiamo D’Avanzo, sono il vicedirettore di Repubblica e ho un nervosismo direi malcelato; 2) sono nervoso perché dell’inchiesta napoletana che promette sfracelli, di cui ovviamente ero al corrente, ha scritto prima il Giornale di me, che oltretutto sono di Napoli e ora devo metterci una pezza, un pezzone: 3) quelli del Giornale vanno dunque screditati, e comincerei col dire che su Antonio Di Pietro hanno scritto «una notizia farlocca» mettendosi in scia a un «venticello calunnioso», e questo nonostante Di Pietro si sia comportato con «esemplare correttezza» (me l’hanno detto alcune mie fonti che ovviamente non voglio citare) al pari di altri «innocenti, incappati nelle intercettazioni telefoniche» e che vogliono trasformare in «colpevoli da sbattere sui giornali»: e io, sin dai tempi di Alberto Di Pisa e Corrado Carnevale, sono uno che se ne intende. Figuratevi che vogliono tirar dentro anche lo «sventurato» Cristiano Di Pietro, figlio di, consigliere provinciale a Campobasso, colpevole di colloqui ripetuti col provveditore alle Opere pubbliche Mauro Mautone che è soltanto l’epicentro di tutta l’inchiesta; 4) volevo anche dirvi che dell’inchiesta non ho letto ancora una riga, non ho visto nessuna intercettazione: e però una manina forse legata ai servizi segreti ne ha già fatta sparire una copia dalla Dia di Napoli, e dunque, se uscisse roba e non la pubblicassi io, ecco, insomma, non dico spazzatura solo perché a Napoli non è il caso; 5) già che ci sono vi elenco una serie di altri esponenti delle forze dell’ordine, che ovviamente non conosco, i quali non c’entrano niente; 6) finito, anzi no, dimenticavo che l’inchiesta polverizzerà ciò che resta della giunta di Rosa Iervolino; andranno di mezzo il provveditore alle opere pubbliche Mauro Mautone, l’amico di Di Pietro, oltre all’imprenditore Alfredo Romeo, cinque assessori della giunta napoletana e diversi politici nazionali tra i quali Renzo Lusetti del Pd e Nello Formisano dell’Idv e Italo Bocchino del Pdl. Facezie. I miei amici mi hanno anche detto che Giorgio Nugnes si è tolto la vita perché i servizi segreti lo pressavano con la minaccia di far uscire notizie false su di lui. Fine della sintesi. Con precisazione. Nostra. Va bene il nervosismo e il finto snobismo, ma è perlomeno scorretto parlare di una «notizia farlocca rilanciata dal Giornale, che ancora ieri ostinatamente la ripubblica», come appunto vergato da D’Avanzo. La notizia in questione uscì in queste pagine il 21 ottobre e non è farlocca per niente, rieccola identica: «La magistratura sarebbe in possesso di intercettazioni telefoniche dove Cristiano Di Pietro chiederebbe l’assunzione di amici suoi al molisano Mario Mautone, provveditore alle opere pubbliche di Molise e Campania e sua vecchia conoscenza. Fu il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro a nominarlo direttore centrale del settore edilizia e poi presidente di una commissione tecnica sugli appalti autostradali. Tutte queste cose, il 23 settembre scorso, le ha raccontate il senatore Sergio De Gregorio all’agenzia Il Velino, ma soprattutto le ha scritte il 10 ottobre La Vocedella Campania». Ed è tutto stravero, l’unica imprecisione è che la faccenda sia anche legata a un’inchiesta sulla ricostruzione post terremoto del Molise: circostanza che l’altro ieri il Giornale ha riportato una seconda volta solo per smentirla. D’Avanzo, in compenso, dà spazio a un ampio virgolettato di Di Pietro ma in una pagina e mezzo non ha niente da osservare su un particolare che resta inquietante: ossia che lo stesso Di Pietro, per smentire legami troppo stretti con Mautone, abbia finito per rivelare d’esser stato a conoscenza dell’inchiesta napoletana sin dal 2007, quand’era ministro. Come se fosse normale. Seconda precisazione. Non stupirebbe, con l’aria che tira, se nelle scuole di giornalismo cominciassero realmente a pensare che una velina sia quella di Striscia la notizia: occorrerebbe, perciò, fare degli esempi concreti di velina old style, quella classica che mette in secondo piano le notizie vere e in primo piano i personaggi da salvaguardare, magari sulla base di generiche «fonti» che forniscono notizie generiche più che altro per bruciarle, disinnescarle. Chiediamo a Giuseppe D’Avanzo se ha qualche docente da suggerire.

Ancora lui, l'italiano dei suoi valori!

La nota stonata di Di Pietro


• da Il Riformista del 5 dicembre 2008, pag. 1




Tutti sono d’accordo: quello che sta avvenendo tra le procure di Salerno e Catanzaro è senza precedenti, è una situazione gravissima, si indaga perfino sul Csm e sul suo vicepresidente. Dunque non c’è altro modo per rimettere ordine in questo disastro, in questa guerra di toghe contro toghe, che l’intervento del Capo dello Stato, il quale presiede il Csm. L’unico che non l’ha capito, e che critica l’iniziativa del Quirinale, è Antonio Di Pietro, il quale contesta «il modo e il tono usato», e sostiene addirittura che così «si rischia la criminalizzazione preventiva e preconcetta dell’attività di indagine che sta svolgendo la procura di Salerno».


Sono questi i momenti, quelli in cui viene in causa la responsabilità istituzionale, che si capisce di che pasta sono fatti i politici. E se il Pd non l’avesse capito prima, ora sa perché Di Pietro non può essere, né oggi né domani, un suo alleato.

Riprendo dopo una lunga pausa.

Riprendo, dopo un lungo periodo d'inattività, pubblicando un articolo di Pierluigi Battista, che la dice lunga sulle cose che accadono in questa nostra povera Italia.

" Allarme rosso di Pierluigi Battista.

L'Espresso è un settimanale prestigioso che non ha mai camuffato la sua anima progressista e di sinistra: per questo assume un significato particolare quel titolo-choc, «Compagni spa», che campeggia sulla copertina del suo ultimo numero. Organo di punta della polemica anti- berlusconiana, allergico culturalmente e antropologicamente a tutto ciò che nell'Italia e nel mondo porti con sé un sentore di «destra», il giornale ora diretto da Daniela Hamaui ha scelto di non chiudere gli occhi sulle brutture che deturpano le vicinanze di casa. Recentemente ha rivelato i dati che denunciano la deriva oligarchico- corporativa in cui appare prigioniera la «casta » sindacale. Ora denuncia gli «intrallazzi», specchio di un invasivo e arrogante «potere dei comitati d'affari» in cui si stanno inabissando le giunte di sinistra, da Napoli a Firenze, da Genova a Perugia, da Crotone a Trento, dall'Aquila a Foggia. Un esempio raro di giornalismo libero: schierato ma refrattario all'omertà di schieramento, di parte ma capace di non occultare, nella foga della battaglia politica, i vizi che albergano nei partiti idealmente più vicini.

Una lezione. E un allarme: un allarme rosso. Un allarme per quel clima mefitico di sospetti, pratiche spregiudicate, relazioni pericolose, favoritismi, uso disinvolto delle regole che sembrano dilagare sulle giunte di sinistra, messe oramai nelle condizioni di non poter più decentemente rivendicare anche solo la parvenza di quella «diversità» rispetto all'avversario esibita in passato con smisurato orgoglio. Una condizione prossima alla rottura, a cominciare dalla città-simbolo di questo sprofondamento, Napoli, che ha strappato al presidente della Repubblica Napolitano l'angosciata esortazione a «reagire all'impoverimento della politica» che affligge le amministrazioni del Mezzogiorno in particolare. Una fonte di ansia e di allarme che ha indotto un costituzionalista certo mai indulgente con il centrodestra come Gustavo Zagrebelsky, a denunciare in un'intervista al Corriere l'infiltrazione di una nuova «questione morale» nel corpo periferico del Pd. E ha spinto Oscar Luigi Scalfaro alla richiesta di una pulizia tempestiva e radicale, anticipando le sempre più incombenti voci di devastanti terremoti giudiziari.

La risposta meno efficace e più controproducente a questo accavallarsi di moniti e di avvertimenti sarebbe l'adozione di una strategia della minimizzazione, come sembra affiorare dalle parole di Luciano Violante consegnate al Riformista. E invece un'opposizione debole e messa all'angolo da un'inedita e velenosa «questione morale» rappresenterebbe lo scenario peggiore in un'Italia squassata dalla crisi e in presenza, per la prima volta dall'aprile scorso, di una regressione nella vasta messe di consensi accumulata dal governo. L'allarme rosso ha raggiunto oramai il livello di guardia e svanisce l'illusione di riaggiustare gli strappi confidando nelle virtù risanatrici del tempo che passa e cicatrizza ogni ferita. Se si persistesse in questa illusione, il senso di drammatica urgenza di una svolta ispirerebbe il terrore dell'abisso. Qualcosa di molto più grave della copertina di un giornale.


Corriere della Sera del 5 dicembre 2008, pag. 1"