lunedì 26 ottobre 2009

I magistrati sbagliano ma non pagano pegno MAI

Dopo le recenti paginate mediatiche sul giudice di Milano con i calzini sgargianti che oltre alla promozione sono serviti a dargli anche la scorta a nostre spese, oppure dell'ordinanza del divieto di dimora in Campania per la moglie di Mastella che nella sua qualità di presidente del consiglio regionale dovrà comunque andare a Napoli, ma da molto più lontano rispetto a Ceppaloni e a nostre spese,  per rinfrescarci la memoria pubblico uno studio sulla SuperCasta dei magisttrati, come l'ha definita Livadiotti nel suo omonimo libro, realizzato da una docente universitaria e riportato per sommi capi dall'Opinione.



I magistrati sbagliano ma non pagano pegno
di Dimitri Buffa 






Che criteri adotta la sezione disciplinare del Csm nel giudicare ed eventualmente sanzionare i ritardi dei magistrati nel deposito delle sentenze o altri provvedimenti o nello svolgimento delle attività di ufficio? Lo studio più completo finora svolto in proposito riguarda un periodo compreso tra il 1995 e il 2002 ed è stato fatto da una ricercatrice dell’Università di Bologna, la docente Daniela Cavallini. Se la si vuole mettere sui dati crudi e brutali il risultato è questo: su 251 incolpati, quelli non condannati sono risultati essere 196 e quelli invece sanzionati 55. Ma è sulle sanzioni che si gioca la differenza tra una giurisprudenza di tipo “domestico” come tutti sanno essere quella del Csm e una di tipo effettivo: ebbene di quello scarso numero di magistrati “condannati” nessuno è stato destituito o rimosso dall’ufficio, solo 7 hanno perso l’anzianità, uno solo è stato dispensato dall’ufficio precedentemente ricoperto, mentre gli altri 47 sono stati semplicemente “ammoniti” (34) o “censurati” (13). Sanzioni, che, a prescindere dalla gravità dei fatti contestati, di fatto non turbano i sonni di chi si vede costretto a subirle. Né cambiano di molto la rispettiva carriera in magistratura. Un’altra cosa che pochi sanno, anzi forse quasi nessuno, è che le sentenze della disciplinare sono impugnabili dai magistrati secondo le norme ormai non più in vigore del codice Rocco davanti alle sezioni civili, e non penali, della Cassazione. Cosa che porta altri vantaggi di casta alla categoria. Una norma transitoria della riforma del codice di procedura penale del 1989 ha infatti lasciato in vigore il codice Rocco solo per i giudici.

A proposito della confusione di ruoli, nello studio della Cavallini si legge fra l’altro che “...l’accertamento, nel comportamento del magistrato, dei connotati oggettivi e soggettivi di rilevanza disciplinare costituisce un apprezzamento di merito rientrante nell’insindacabile valutazione della sezione disciplinare del Csm.” Neanche le sezioni unite civili della Corte di cassazione, in sede di impugnazione, possono sindacare nel merito la valutazione già compiuta, dovendosi limitare ad un riesame di sola legittimità. Questo in teoria, perché, sempre per i magistrati, la Suprema Corte accetta di entrare anche nel merito in caso di motivazioni “illogiche o contraddittorie”. Cosa che fino a pochi anni fa valeva anche per i comuni mortali, mentre ora non più. Di fatto comunque le già basse percentuali di condanna possono venire vanificate alla fine di un iter burocratico giudiziario non previsto per nessun altro cittadino italiano. Nel merito della giurisprudenza che si è andata così formano, secondo l’orientamento della sezione disciplinare del Csm, scrive la Cavallini, “il semplice ritardo nell’adozione di provvedimenti giudiziari non costituisce di per sé illecito disciplinare”. E questo è dovuto anche al fatto che mentre il codice di procedura penale e quello di procedura civile sanzionano le inadempienze degli avvocati con un regime di “perentorietà” (cioè di decadenza dai diritti), per quel che riguarda i ritardi e le inadempienze dei magistrati il regime diventa “ordinatorio”, con una serie di escamotage che di fatto permettono di sanare quasi tutte le cause di nullità.

La richiesta di abolire questa disparità è stata per anni un cavallo di battaglia dei Radicali di Pannella che hanno anche proposto un referendum, non capito dalla gente nella sua essenzialità. Infine i criteri di decisione nelle motivazioni della disciplinare utilizzano questo metro: “Il fatto illecito sorge soltanto laddove il ritardo dipenda da negligenza o neghittosità, cioè sia sintomo di inerzia, scarsa operosità, indolenza del magistrato e non trovi giustificazione in situazioni di forza maggiore o altri impedimenti a lui non imputabili”. Non basta, per arrivare a una qualche forma di blanda condanna deve essere anche accertato “...se il ritardo caratterizza quasi la metà (o più della metà) del lavoro svolto dall’incolpato, se non è un episodio isolato ma costituisce la normalità, se è sistematico e crescente nel tempo, se è superiore ad un anno (due anni o tre anni), se riguarda un lasso di tempo considerevole dell’attività del giudice, se attiene a settori ”delicati“ come quello del lavoro o della previdenza...”. Solo quando tutti questi criteri saranno soddisfatti, i giudici della disciplinare accetteranno il fatto che un siffatto comportamento “...denota indubbiamente una certa incuria del magistrato”.
Bontà loro.

Da: l'Opinione del 19/09/2008. pg.4

Ancora Province? E sì, tanto paga Pantalone!

Vi riporto un interessante articolo dei "soliti" Rizzo e Stella, i giornalisti che hanno scritto La Casta, il libtro capostipite del filone letterario del malcostumne italico, che pur provocando uno scandalo enorme, per la virtù italiana che il tempo fa dimenticare tutto, i nostri politicanti passata la festa (le promesse sotto elezioni), gabbano il Santo (noi popole bue).
Bene fanno Rizzo e Stella a non farci diventare degli smemorati cronici.


E i camuni gridarono: una provincia anche a noi
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

E i Camuni? Niente ai Camuni? Deciso a vendicare l’ingrata storia, il deputato leghista Davide Caparini ha deciso di tirare dritto: vuole a tutti i costi la nuova Provincia della Valcamonica. Capoluogo: Breno, metropoli di 5.014 anime. Direte: ancora un’altra provincia? Ma non avevano promesso quasi tutti di abolirle? Certo: prima delle elezioni, però. Promessa elettorale, vale quel che vale. Tanto è vero che il disegno di legge per sopprimerle, presentato alla Camera dalla strana coppia Casini & Di Pietro, è già morto. Se dovesse passare l’iniziativa camunica del parlamentare del Carroccio, quella con capitale Breno (inno ufficiale: «E su e giù e per la Valcamonica / la si sente la si sente...») sarebbe la provincia numero 110. Quando nacquero nel 1861, al momento dell’Unità d’Italia, erano quasi la metà: 59. Distribuite sul territorio con un criterio semplice: dovevi attraversare ciascuna in una giornata di cavallo. Nel 1947 erano già 91. E col passaggio dagli equini alle autoblu, hanno continuato ad aumentare, aumentare, aumentare a dispetto del proposito dei padri costituenti, che avevano previsto la loro abolizione con l’arrivo delle Regioni, fino a diventare 95 e poi 102 e su su fino a 109 grazie a new entry e soprattutto al raddoppio (da 4 ad 8) di quelle della Sardegna. La quale con l’Ogliastra (57.960 abitanti, due terzi di Sesto San Giovanni) mise a segno il capolavoro, la provincia a due teste: Tortolì (10.661 anime) e Lanusei, che di anime ne ha ancora meno: 5.699. Un record mondiale. Che con l’arrivo di Breno verrebbe stracciato in attesa di nuove province e nuove capitali tipo Quinto Stampi, Pedesina, Zungri, Maccastorna, Carcoforo... Direte: ma dai, Carcoforo! Perché no, scusate? Se la provincia è indispensabile per essere vicina ai cittadini, cosa han fatto di male i carcoforesi per non avere anche loro una provincia? Quanto costino lo ha calcolato l’anno scorso il Sole 24 Ore: 17 miliardi di euro. Con un aumento del 70% rispetto al 2000. Da dove arrivano i denari? Un po’ dai trasferimenti. Parte dal prelievo del 12,5% sull’assicurazione delle auto e delle moto: 2 miliardi nel 2007, il 54% in più rispetto al 2000. Più aumenta l’assicurazione, più intasca la Provincia. Altri quattrini arrivano dall’imposta provinciale di trascrizione: le annotazioni al Pubblico registro automobilistico che doveva essere abolito. Ci sono poi un’addizionale sulla bolletta elettrica e il tributo provinciale per l’ambiente.

Come mai i cittadini non si arrabbiano? Occhio non vede, cuore non duole: sono tutte tasse dentro altre tasse. Non si notano. Va da sé che a quel punto, ignaro delle spese, il cittadino vede titillato il suo campanilismo. Come nel caso della provincia di Fermo nata dalla divisione di quella di Ascoli Piceno. Una specie di scissione dell’atomo: da una piccola provincia ne sono nate due minuscole. In compenso, al posto di un solo consiglio da 30 membri, ne sono nati due da 24: totale 48 poltrone. Per non dire della provincia a tre piazze di Barletta-Andria-Trani, chiamata così per non far torto ai permalosi cittadini dell’una o l’altra capitale. Quanti sono i comuni di quella nuova Provincia? Dieci in tutto, sono. Il che, diciamolo, aumenta la pena per i sette tagliati fuori dal nome: Bisceglie, Trinitapoli, Minervino Murge. E la targa automobilistica? «BT». Rivolta: «E Andria? Non si può fare “Bat”?». «No, quella è di Batman».

C’è da sorridere? Mica tanto. Sull’abolizione delle province, infatti, fu giocato un pezzo dell’ultima campagna elettorale. «Aboliremo le Province, è nel nostro programma», disse Berlusconi a Porta a porta il 10 aprile 2008. «Ma la Lega sarà d’accordo?», eccepì Bruno Vespa. E lui: «La Lega è composta da persone leali». «Presidente, che cosa ha previsto per abbassare i costi folli della politica?», gli chiese la signora Ines nella chat-line al Corriere. E lui: «La prima cosa da fare è dimezzare il numero dei parlamentari, dei consiglieri regionali, dei consiglieri comunali». E le Province? «Non parlo delle Province, perché bisogna eliminarle». Mostrava di crederci al punto, il Cavaliere, che cercava sponde: «Se Veltroni ci darà una mano...». La linea veltroniana, del resto, era già stata dettata: «Cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi comuni metropolitani». Posizione confermata a Matrix: «All’abolizione delle province penso ci si possa arrivare. Ma non sono un demagogo. È facile dirlo in campagna elettorale...». Il socio fondatore del Pdl Gianfranco Fini era d’accordo: «I carrozzoni non sono intoccabili e si possono abolire per esempio le Province». Una tesi già benedetta da altri. Come l’ex ministro degli Interni azzurro Giuseppe Pisanu: «Le Province ormai non hanno più senso».

Qualche settimana dopo le elezioni il capo del Governo sventolava il primo trionfo, riassunto dai tg amici con titoli così: «Abolite nove Province». In realtà nove province cambiavano soltanto nome. D’ora in avanti si sarebbero chiamate aree metropolitane. Un ritocco semantico. Ma naufragato lo stesso. Poi cominciarono i distinguo. «C’è un solo punto nel programma in cui ho difficoltà serie con gli alleati, l’abolizione delle Province. La Lega ha una posizione molto ferma», confessò Berlusconi nel dicembre 2008. «Sono enti inutili, ma non riusciremo a cancellarli in questa legislatura», confermava Renato Brunetta. Di più: nel disegno di legge sulle autonomie locali definito dal ministro Roberto Calderoli non solo sopravvivevano. Venivano addirittura rafforzate, con la possibilità di riscuotere tasse proprie.

Vero è che Bossi aveva eretto un muro insormontabile: «Le Province non si toccano». Ma che la marcia indietro collettiva sia stata dovuta solo all’altolà del Carroccio non si può dire. Basti rileggere quanto affermò il deputato del Pd Gianclaudio Bressa nell’ottobre scorso: «Non siamo d’accordo con l’abolizione delle Province, né abbiamo mai detto di esserlo in passato. È ora di finirla con questa mistificazione». E quello che diceva Veltroni? Coro democratico: Veltroni chi? Ma è niente in confronto alle contraddizioni della maggioranza. Dove Sandro Bondi, da coordinatore forzista, era a pié fermo al fianco del Capo: «Aboliamo le Province. Sono un diaframma inutile fra i Comuni e le Regioni». Era il 14 luglio 2007: qualche mese dopo, con marmorea coerenza, si candidava alla presidenza della Provincia di Massa Carrara.

E meno male anche per lui (oggi ministro) che non ce l’ha fatta. Sennò sarebbe andato a ingrossare la folta schiera dei fedeli di sant’Alfonso Maria de’ Liguori al quale Dio concesse il dono della bilocazione. Cioè quei politici che sono insieme assisi su due poltrone: quella di parlamentare e quella di presidente provinciale. La legge dice che il presidente di una Provincia o il sindaco di una città con oltre 20 mila abitanti non può essere eletto parlamentare? Sì, ma non dice il contrario. Così i casi di doppio o triplo incarico si sono moltiplicati. Adesso sono nove, di cui sei pidiellini: c’è il presidente foggiano Antonio Pepe, quella astigiana Maria Teresa Armosino, quello avellinese Cosimo Sibilia, quello salernitano Edmondo Cirielli, quello napoletano Luigi Cesaro, quello ciociaro Antonio Iannarilli... Poi ci sono gli «ubiqui» della Lega: il presidente biellese Roberto Simonetti, quello bergamasco Ettore Pirovano e quello bresciano Daniele Molgora, che è anche sottosegretario all’Economia: un esempio di trilocazione mai tentato neppure dal santo fachiro Sai Baba capace al massimo di apparire insieme nell’Andra Pradesh e a Toronto. Chiederete: ma come fa uno a stare in tre posti diversi? La risposta la può forse suggerire lo stesso Pirovano. Il quale il 27 luglio scorso, mentre teneva la giunta a Bergamo, votava alla Camera a Roma materializzandosi grazie al tesserino usato al posto suo dal collega Nunziante Consiglio. Il quale, pizzicato da Fini, disse: «Era un gesto innocente, pensavo stesse per arrivare...». Ma se di lunedì ha la giunta! «Oh signur, credevo fosse martedì...».
da: Corriere della Sera del 14 ottobre 2009, pag. 1

giovedì 22 ottobre 2009

La domanda a cui Repubblica non risponde

Il quotidiano Repubblica di De Benedetti ha, ossessivamente e per molto tempo, posto dieci domande al premier.
Adesso che una sola domanda viene posta a questo giornale che si erge a paladino della pubblica moralità e correttezza, tace.
Ecco i fatti.


La domanda a cui Repubblica non risponde

di Vittorio Feltri

Tutto previsto. La reazione di la Repubblica al nostro articolo su Corrado Augias, descritto come collaboratore dei servizi segreti cecoslovacchi ai tempi della Cortina di ferro, è arrivata puntuale e nei toni attesi. Una mezza paginata dello stesso Augias che reclamala propria innocenza e un commento di D’Avanzo, editorialista descamisado da alcuni mesi dedito alla narrazione delle attività notturne, vere o presunte, di Silvio Berlusconi. Il primo cerca di buttarla sul ridere, minimizza la portata dei fatti e naturalmente accusa il Giornale di aver costruito sulla sua candida personcina un castello di balle. Evidentemente non aveva molto altro da dire, benché nel pezzo si sia dilungato in vari particolari privi del minimo interesse. Il secondo riprende il filo di un discorso che va facendo e ripetendo da quando sono tornato al Giornale: il Cavaliere comanda e io, Brighella, eseguo, anzi sparo. Lasciamoglielo credere, così è contento. Infatti il problema non sono le ossessioni di D’Avanzo né le imbarazzate argomentazioni difensive di Corrado Augias. Ciò che rimane sospeso per aria è il contenuto di quanto abbiamo pubblicato. I due colleghi citati non entrano nel merito della questione; non spiegano, non giustificano, non precisano. Si limitano a scrollare le spalle e girano là frittata secondo lo stile ormai invalso nel loro quotidiano di lotta debenedettiana contro il capo del governo e tutto ciò che in qualche modo si riconduca a lui. Augias lascia intendere di essere molto offeso perché, valutato il materiale in nostro possesso, non gli abbiamo telefonato per informarlo. Praticamente ci accusa di aver colpito lui per colpire la Repubblica, e glissa sul resto come se la storia dello spionaggio che lo riguarda fosse un’invenzione denigratoria. È proprio qui che si sbaglia di grosso. C’è o ci fa? Si dà il caso, caro Corrado, che non sia stato il Giornale ad attribuirti una intensa collaborazione con gli apparati spionistici della Cecoslovacchia, Paese nemico all’epoca della guerra fredda, bensì gli apparati stessi che di tale collaborazione hanno conservato documenti dai quali abbiamo attinto le notizie su di te. Abbiamo svolto un lavoro da cronisti: ci siamo procuratile carte - recentemente messe a disposizione -, le abbiamo lette e riassunte. Non è con noi che te la devi prendere ma con gli 007 cui hai reso per parecchio tempo, consapevolmente o no, i tuoi servigi. Lo hai fatto per affinità ideologica o per altro? Il punto è che lo hai fatto, almeno secondo le fonti, cioè gli archivi di Praga. Se poi tu abitualmente incontravi l’agente segreto da Rosati in piazza del Popolo a Roma o in altro luogo, poco importa. Gli agenti segreti e i loro informatori (con tanto di codice). per definizione non sono identificabili quindi frequentano qualsiasi ambiente senza temere di essere riconosciuti per quello che in realtà sono: spie. Può darsi benissimo che tu non avessi nulla da confidare a chi ti aveva «contattato». Se così fosse tuttavia bisognerebbe capire per quale ragione tu lo frequentassi e per quale quell’agente frequentasse uno, te, che non aveva alcunché da dirgli. Questi dettagli, converrai, meritano di essere chiariti. Tocca a te chiarirli. Noi abbiamo appreso dei dati da documenti controllati e li abbiamo divulgati perché storicamente rilevanti. Peccato che tu li abbia scambiati per nostre illazioni. Non è così. La scrollatina di spalle non basta a fugare dubbi e perplessità sul tuo conto.

di Vittorio Feltri, da Il Giornale del 20 ottobre 2009

sabato 10 ottobre 2009

La Calabria spiegata a Venditti a partire dal triangolo rettangolo di Tommaso Labate






Perché Dio l'ha creata? 
Un conterraneo di Tommaso Campanella risponde al cantautore romano.

Se il Creatore (o creatore, fate voi) avesse potuto ascoltarne la preghiera con qualche migliaio di anni d’anticipo e non l’avesse creata, la Calabria, a quest’ora il pianista di piano bar e tutti gli altri trentatré reduci della Terza E del Giulio Cesare sarebbero rimasti lì a ricordare quando la Regina d’Inghilterra era Pelè. Di fronte a un triangolo rettangolo, però, l’Antonello e i suoi compagni avrebbero fatto scena muta, osservandolo, il triangolo rettangolo, con la stessa sorpresa del don Abbondio di fronte a una citazione su Carneade da Cirene: «Chi era costui?». L’avrebbero prima visto e poi guardato, ammirato e rimirato, senza sapere da che lato prenderlo, il triangolo rettangolo.

Che nel triangolo in questione la somma dei quadrati costruiti sui cateti equivale al quadrato costruito sull’ipotenusa è cosa nota, in fondo, grazie all’esistenza stessa della Calabria. Fu proprio in Calabria, Magna Grecia, dove Pitagora da Samo si trasferì per fondare la sua scuola, che l’omonimo teorema venne definitivamente messo a punto, diventando poi colonna portante della geometria mondiale, studiata financo nella Terza E del Giulio Cesare dell’anno scolastico 1965/66. Quella dell’Antonello che oggi si chiede e chiede al Creatore (o creatore, fate voi) perché esiste, la Calabria.

Per quanto possa sembrare paradossale, senza la Calabria le fondamenta del Diritto non sarebbero quelle che conosciamo. Zaleuco, uno dei primi legislatori del Creato (o creato) era di Locri. Terra di santi di prima fascia, come san Francesco da Paola, e di filosofi di prim’ordine, come Tommaso Campanella e Bernardino Telesio.

Anche in epoca contemporanea la Calabria vanta il rito del caffè servito con bicchiere d’acqua senza neanche chiederlo, mangiate da padreterno a quindici euro, una coscienza civica e un senso d’appartenenza alla Terra sviluppate ben oltre la media nazionale, le melanzane ripiene, il chilometro più bello d’Italia (così il pescarese D’Annunzio definì il lungomare di Reggio), il bergamotto, la peggior razza di juventini presente sul suolo nazionale (fondamentali per un trattato di antropologia sulla specie così come per le più belle litigate sul calcio), le processioni delle Madonne sul mare, i bar che ancora servono sia la China Martini che lo Stravecchio, l’Amaro del Capo, un aeroporto sull’acqua che per atterrarci serve un brevetto speciale (ancora Reggio Calabria), gli arancini del traghetto per la Sicilia, la montagna, il mare e la collina, tutti e tre insieme, come se lui, Creatore o creatore, avesse deciso di mettere in crisi i capitoli del vecchio sussidiario dedicati alla geografia.

Se non ci fosse stata la Calabria non ci sarebbe l’“Italia”, che si chiama così - anche se Venditti non lo sa - per via degli Itali, ch’erano gli antichi abitanti della regione. Hanno origini calabresi il capo della Cia, l’ex moglie del tennista Borg e l’attuale di Flavio Briatore, quelli che quest’estate hanno picchiato Fabrizio Corona (ricevendo in cambio l’olé nazionale), le attempate tette di Sabina Stilo e le giovani gambe di Miss Italia 2009. E in Calabria, come scrisse Rino Geatano trent’anni fa, si può camminare con quel contadino che forse fa la stessa tua strada, parlare dell’uva e parlare del vino, «che ancora è un lusso per lui che lo fa». E sempre in Calabria, prima dell’alba, è possibile assistere alle straordinarie urla dei banditori d’asta nelle cooperative di pescatori, roba che altrove ci farebbero dieci film e quaranta libri, mentre la Calabria li custodisce gelosamente per sé.

L’incauto Venditti, che ha rivolto la sua pessima domanda al Creatore/creatore ed è stato stanato dal democratico Youtube, s’è giustificato come il più fesso dei bambini colto dalla più ingenua delle mamme con tutte e due le proverbiali mani nell’altrettanto proverbiale marmellata. Dice che la sua era «una denuncia». Perché lui, insiste, ama «quella terra». Se fosse in cerca di materiali per denunce, il pianista di piano bar, sappia che la Calabria è tra i primi produttori del mondo. Una criminalità organizzata che ha soppiantato mafia e camorra, che soffoca l’economia locale, azzanna la politica onesta, attenta alle coscienze. E poi una crudeltà senza confini: come quella dei calabresi che vent’anni fa tennero un ragazzo di nome Carlo Celadon con una catena al collo per ventisette lunghissimi mesi; o di coloro che rinchiusero un bambino piemontese di nome Marco Fiora in un cunicolo di mezzo metro quadrato, costringendolo anche dopo la liberazione a lunghissimi anni di immobilità, fisica e psicologica. Oggi anche le vecchie Anonime hanno un nome o più nomi. Anche sulle ombre, in attesa di legge, ordine e giustizia, c’è un fascio di luce. Chi ama una terra ne denuncia impietosamente i mali, senza mai metterne in discussione l’esistenza. Come un buon genitore che, di fronte alla disgrazia del figlio malato, non si permetterebbe mai di chiedergli il perché della sua stessa nascita.di Tommaso Labate

Se il Creatore (o creatore, fate voi) avesse potuto ascoltarne la preghiera con qualche migliaio di anni d’anticipo e non l’avesse creata, la Calabria, a quest’ora il pianista di piano bar e tutti gli altri trentatré reduci della Terza E del Giulio Cesare sarebbero rimasti lì a ricordare quando la Regina d’Inghilterra era Pelè. Di fronte a un triangolo rettangolo, però, l’Antonello e i suoi compagni avrebbero fatto scena muta, osservandolo, il triangolo rettangolo, con la stessa sorpresa del don Abbondio di fronte a una citazione su Carneade da Cirene: «Chi era costui?». L’avrebbero prima visto e poi guardato, ammirato e rimirato, senza sapere da che lato prenderlo, il triangolo rettangolo.

Che nel triangolo in questione la somma dei quadrati costruiti sui cateti equivale al quadrato costruito sull’ipotenusa è cosa nota, in fondo, grazie all’esistenza stessa della Calabria. Fu proprio in Calabria, Magna Grecia, dove Pitagora da Samo si trasferì per fondare la sua scuola, che l’omonimo teorema venne definitivamente messo a punto, diventando poi colonna portante della geometria mondiale, studiata financo nella Terza E del Giulio Cesare dell’anno scolastico 1965/66. Quella dell’Antonello che oggi si chiede e chiede al Creatore (o creatore, fate voi) perché esiste, la Calabria.

Per quanto possa sembrare paradossale, senza la Calabria le fondamenta del Diritto non sarebbero quelle che conosciamo. Zaleuco, uno dei primi legislatori del Creato (o creato) era di Locri. Terra di santi di prima fascia, come san Francesco da Paola, e di filosofi di prim’ordine, come Tommaso Campanella e Bernardino Telesio.

Anche in epoca contemporanea la Calabria vanta il rito del caffè servito con bicchiere d’acqua senza neanche chiederlo, mangiate da padreterno a quindici euro, una coscienza civica e un senso d’appartenenza alla Terra sviluppate ben oltre la media nazionale, le melanzane ripiene, il chilometro più bello d’Italia (così il pescarese D’Annunzio definì il lungomare di Reggio), il bergamotto, la peggior razza di juventini presente sul suolo nazionale (fondamentali per un trattato di antropologia sulla specie così come per le più belle litigate sul calcio), le processioni delle Madonne sul mare, i bar che ancora servono sia la China Martini che lo Stravecchio, l’Amaro del Capo, un aeroporto sull’acqua che per atterrarci serve un brevetto speciale (ancora Reggio Calabria), gli arancini del traghetto per la Sicilia, la montagna, il mare e la collina, tutti e tre insieme, come se lui, Creatore o creatore, avesse deciso di mettere in crisi i capitoli del vecchio sussidiario dedicati alla geografia.

Se non ci fosse stata la Calabria non ci sarebbe l’“Italia”, che si chiama così - anche se Venditti non lo sa - per via degli Itali, ch’erano gli antichi abitanti della regione. Hanno origini calabresi il capo della Cia, l’ex moglie del tennista Borg e l’attuale di Flavio Briatore, quelli che quest’estate hanno picchiato Fabrizio Corona (ricevendo in cambio l’olé nazionale), le attempate tette di Sabina Stilo e le giovani gambe di Miss Italia 2009. E in Calabria, come scrisse Rino Geatano trent’anni fa, si può camminare con quel contadino che forse fa la stessa tua strada, parlare dell’uva e parlare del vino, «che ancora è un lusso per lui che lo fa». E sempre in Calabria, prima dell’alba, è possibile assistere alle straordinarie urla dei banditori d’asta nelle cooperative di pescatori, roba che altrove ci farebbero dieci film e quaranta libri, mentre la Calabria li custodisce gelosamente per sé.

L’incauto Venditti, che ha rivolto la sua pessima domanda al Creatore/creatore ed è stato stanato dal democratico Youtube, s’è giustificato come il più fesso dei bambini colto dalla più ingenua delle mamme con tutte e due le proverbiali mani nell’altrettanto proverbiale marmellata. Dice che la sua era «una denuncia». Perché lui, insiste, ama «quella terra». Se fosse in cerca di materiali per denunce, il pianista di piano bar, sappia che la Calabria è tra i primi produttori del mondo. Una criminalità organizzata che ha soppiantato mafia e camorra, che soffoca l’economia locale, azzanna la politica onesta, attenta alle coscienze. E poi una crudeltà senza confini: come quella dei calabresi che vent’anni fa tennero un ragazzo di nome Carlo Celadon con una catena al collo per ventisette lunghissimi mesi; o di coloro che rinchiusero un bambino piemontese di nome Marco Fiora in un cunicolo di mezzo metro quadrato, costringendolo anche dopo la liberazione a lunghissimi anni di immobilità, fisica e psicologica. Oggi anche le vecchie Anonime hanno un nome o più nomi. Anche sulle ombre, in attesa di legge, ordine e giustizia, c’è un fascio di luce. Chi ama una terra ne denuncia impietosamente i mali, senza mai metterne in discussione l’esistenza. Come un buon genitore che, di fronte alla disgrazia del figlio malato, non si permetterebbe mai di chiedergli il perché della sua stessa nascita.

Fonte: Il Riformista del 9/10/2009

Che disastro la politica degli avvocaticchi

Negli ultimi tempi, per poter leggere qualcosa di sensato, di realmente concreto e "quasi" neutro alla maniera anglosassone, è leggere Il Riformista.
Eccone un'ulteriore prova sul tema che in Italia non esiste un "regime" come vanno gridando, in ogni occasione che le telecamere sono a tiro, i soliti Di Pietro, De Magistris, Santoro, Franceschini, Travaglio, Grillo e tutti gli altri loro sodali.


 Che disastro la politica degli avvocaticchi
di Antonio Polito


Cominciamo con lo sgombrare il campo dalle balle. Ma quale regime? La Corte costituzionale ha bocciato ieri la legge cui più teneva Berlusconi, il presunto padrone dell'Italia. Fino all'ultimo i suoi uomini e Umberto Bossi hanno minacciato di conseguenze politiche gravi il collegio giudicante. Subito dopo la sentenza Berlusconi, in un evidente stato di alterazione, ha dichiarato che è una sentenza politica, che la Consulta non è più un organo di garanzia, che è di sinistra come Napolitano.

Eppure, in questo regime, la suprema magistratura di garanzia ha fatto ciò che riteneva giusto fare. I check and balances funzionano anche nel nostro sistema democratico. Non perfettamente, ma funzionano. C'è sempre un giudice a Berlino, o meglio, su quella piazza del Quirinale che ospita, uno di fronte all'altro, il palazzo presidenziale e quello della Consulta. I mestatori in giro con la coppola alla Di Pietro che invitano il popolo alla rivolta perché nessuno più protegge la Costituzione, dovrebbero vergognarsi dopo la sentenza di ieri per tutte le bugie che hanno raccontato agli italiani, invece di festeggiare. Dovrebbe vergognarsi anche Berlusconi delle dichiarazioni che ha fatto. Perché anche lui, finché fa il premier, è la Repubblica italiana, e deve difenderne la dignità e gli altri organi costituzionali.

Dunque la Consulta ha deciso. Avevamo scritto prima di conoscerla che, come fece Gore negli Usa quando la Corte suprema diede ragione a Bush, non si può fare altro che rispettare la sentenza. Avevamo anche scritto che, quando si prevede un'immunità giudiziaria, bisogna agire per via costituzionale, e cioè cambiare la Costituzione con le procedure previste all'articolo 138.

Facile previsione, la nostra. Cinque anni fa, interrogata sul Lodo Schifani, la Consulta non si espresse su questo. Non ne ebbe il coraggio. Prese il Lodo Schifani dalla coda, invece che dalla testa. E gli trovò un paio di difetti correggibili. Il centrodestra li corresse, e ripresentò il Lodo con la firma di Alfano. Stavolta, invece, il collegio ha preso il toro dalle corna. E si è espresso sul punto cruciale.

La Consulta ha cioè stabilito che quella prevista nel Lodo Alfano era una vera e propria immunità, non una «sospensione funzionale», come hanno argomentato gli avvocati del premier, che dunque viola l'articolo 3 della Costituzione sull'uguaglianza dei cittadini. Cosa che si può fare, ma si può fare solo scrivendolo in Costituzione. Il centrodestra ha avuto anni per agire in modo più saggio, per introdurre una norma che non c'è in tutto il mondo democratico, ma da qualche parte c'è eccome. Però ha sempre risposto alle emergenze giudiziarie con la logica delle leggine ad hoc e ad personam, in corsa con il tempo e con le procure.

Forse sarebbe l'ora di ammettere che l'intera strategia del berlusconismo sulla giustizia è stata sbagliata, è stata una strategia da avvocaticchi, non da riformatori, perché di riforme vere non ne ha fatte nemmeno una, ma di pezze a colore ne ha messe tante, purtuttavia senza riuscire ad evitare l'epilogo: Berlusconi che torna da imputato davanti agli odiati giudici di Milano, per un processo la cui sentenza è già scritta, avendo lo stesso tribunale condannato l'avvocato Mills come corrotto e non avendo finora potuto condannare Berlusconi come corruttore solo grazie al Lodo Alfano. Non ci vorrà molto, dicono gli esperti, perché ora quella condanna arrivi. E potrebbe essere pesante, e potrebbe prevedere la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici. Potrebbe segnare cioè il più grave colpo mai assestato dai giudici alla carriera politica di Silvio Berlusconi.

Che cosa vuol dire? Che è finito Berlusconi e con lui il berlusconismo? Sono giustificati i boati che hanno accolto la sentenza in molti luoghi di Roma e che solo il timing ha evitato risuonasse anche nella sede dove Montezemolo e Fini si incontravano per scrivere insieme l'Italia futura? È giustificato il paragone tra Palazzo Grazioli e il Raphael, che a molti è venuto in mente ieri vedendo la sede romana di Berlusconi circondata da centinaia di poliziotti pronti a scacciare un eventuale nemico di piazza? Secondo noi no. Ogni conclusione politica è prematura. Berlusconi è ferito, ma nient'affatto morto. È forse finita la sua sesta vita, ma può averne una settima.

Mai sottovalutare la forza del consenso popolare di cui gode ancora il premier, che in democrazia non è un optional. Le ere politiche finiscono solo quando quel consenso si esaurisce. Non che questa maledetta estate di Berlusconi, dalle escort, al Lodo Mondadori, a quello Alfano, non lasci segni sul suo rapporto con il pubblico. Ma i segnali di uno smottamento non si vedono affatto. E questo per una ragione molto semplice: l'elettorato giudica i risultati, non le inchieste. Però, se e quando Berlusconi sarà condannato a Milano per corruzione in atti giudiziari, la sua posizione interna e internazionale sarà gravemente compromessa. Forse non più tenibile. Per questo il suo mondo si divide oggi tra quelli che dicono: andiamo subito al popolo, scioglimento e nuove elezioni, perché così ti cuociono a fuoco lento. E l'altro fronte che dice: no, stai al tuo posto, continua a governare, concentrati sul programma, e magari fai finalmente quella riforma della giustizia che finora hai sempre barattato per un po' di tregua dalle toghe.

La giornata di ieri è stata una perfetta dimostrazione di questo dibattito interno. È partita con Bossi che annunciava il ricorso alla piazza (e con Bersani che minacciava di contro-mobilitare il suo popolo). Ed è finita con più miti consigli. Per quanto Berlusconi abbia gridato ieri a Piazza Venezia, sembra avere escluso per ora la via dell'ordalia popolare, di chiamare al voto contro i giudici, in uno scenario sudamericano. La via che sembra aver scelto, quella di rimanere dov'è e di farsi i suoi processi da imputato, è di gran lunga la più corretta dal punto di vista istituzionale (se la terrà). Quella cui l'ha richiamato in questi giorni il Quirinale, il quale non concederebbe crisi extra-parlamentari e soluzioni extra-costituzionali (ecco perché ieri Berlusconi ce l'aveva tanto con lui).

E per quanto i demagoghi alla Di Pietro possano strillare chiedendo dimissioni ed elezioni, in realtà per il paese è molto meglio se le cose vanno così. Lo stesso Pd non deve cadere nel tranello della scorciatoia: se crolla oggi il berlusconismo, il primo partito a spappolarsi sarebbe proprio il Pd, seguito a ruota dal Pdl. (Per un curioso - ma mica tanto - caso del destino, proprio ieri si presentava all'Italia l'aspirante successore del bipolarismo Pdl-Pd: Luca Montezemolo).

La via della Costituzione, ancora una volta, è dunque la più saggia. Non sappiamo però quanto sia saggia la classe politica di questo paese, visto che da quindici anni combatte la stessa ed unica battaglia, berlusconiani e antiberlusconiani, per trovarsi quindici anni dopo al punto di partenza, mentre il paese scivola ogni anno un po' più indietro. È interessante notare che, proprio mentre arrivava la sentenza sul Lodo, l'Italia apprendeva che in termini di prodotto interno pro capite è stata superata, dopo che dalla Spagna, anche dalla Grecia e dalla Slovenia.

Fonte: Il Riformista dell'8/10/2009

I cattivi maestri


La casta dei cattivi maestri
di Giampaolo Pansa

Quando il nostro sistema politico si schianterà nel marasma, ci chiederemo perché è successo. Ma nessuno saprà trovare la risposta. Accadrà quello che avvenne quando Benito Mussolini prese il potere, nell’ottobre 1922. Da allora molti cominciarono a interrogarsi sul perché e sul percome. E dopo novant’anni non hanno ancora finito di farlo.
NONE
Era colpa soltanto del capitalismo nostrano che aveva trovato in Mussolini e nelle sue squadre armate il mezzo per imporre il regime dei padroni? Oppure il terreno era stato preparato dalle follie violente delle sinistre di allora, il Partito socialista e il nuovo Partito comunista? O la colpa era di entrambe le parti in conflitto?

Nella mia ingenuità di cittadino pacifico, non pensavo di essere costretto a farmi le stesse domande a proposito dell’Italia di oggi. Confesso di osservare il nostro caos politico con un timore sempre più forte. Ogni giorno che passa, la mia paura raddoppia. E mi obbliga a chiedermi in quale baratro cadremo.
Ormai viviamo dentro una continua guerra civile di parole.

Il bipolarismo si sta trasformando in un mostro. I due blocchi non si limitano a combattersi, com’è normale che accada. Ormai si odiano. E si odieranno con rabbia crescente. Senza preoccuparsi del veleno che spargono. Senza domandarsi quali effetti perversi avrà nel corpo di un Paese sempre più intossicato.
Su questo sfascio campeggiano i cattivi maestri. Nella lunga stagione del terrorismo, venivano chiamati così gli intellettuali e i politici che alimentavano la violenza. Spiegando che la Prima Repubblica era un regime perverso, da combattere con le armi. Questi santoni, rossi e neri, mandarono a morire o in galera decine e decine di giovani discepoli. E contribuirono a spedire all’altro mondo centinaia di italiani per bene.

Al posto dei cattivi maestri di allora, oggi ne sono emersi altri. Insieme formano una vera casta, dotata di un potere persino più grande. Siamo una società mediatica dove qualunque messaggio ha un’amplificazione terribile. Non penso soltanto a Internet, un pianeta dove accade di tutto. Penso alla televisione, alla radio, alla carta stampata. Un pacchia per i tanti dottor Stranamore. Qualunque bestialità dicano arriva subito a milioni di allievi, che le diffondono. Mettendo in circolo slogan che possono avere conseguenze tragiche.

I cattivi maestri stanno su entrambi i fronti. Sul centrodestra, il più illustre è Silvio Berlusconi. A parole il Cavaliere combatte il disordine, ma nei fatti lo alimenta. Oggi vivremmo in clima meno intossicato se il premier fosse stato tanto saggio da controllare meglio la propria vita privata. Senza circondarsi di veline e di prostitute. Tutti possono chiamare a raccolta squadre di ragazze per le proprie serate allegre. Ma non tutti fanno il premier. Chi guida un Paese deve onorare i milioni di elettori che lo hanno votato. E non comportarsi come un satrapo malato di sesso.

Ma pure sul centrosinistra i cattivi maestri guidano le danze. È una pessima lezione politica gridare che l’Italia non è più una democrazia. Che il Cavaliere è un sosia abominevole di Mussolini e di Hitler. Che la stampa non è libera perché imbavagliata da Silvio il Dittatore. Che quanti dissentono dal verbo dei maestri sono sicari prezzolati. Che il Parlamento è in mano ai mafiosi, ormai in grado di fare le leggi.

Quest’ultima assurda lezione ha trovato la sua icona: un capo partito, Antonio Di Pietro, si è fatto fotografare davanti a Montecitorio con la coppola in testa e le smorfie da boss di Cosa Nostra. Una vergogna, ma per Di Pietro. Tanto ignorante da non sapere che la coppola non la portavano i mafiosi. Bensì i contadini siciliani e i sindacalisti che combattevano la mafia.

Un altro cattivo maestro si è rivelato un grande del nostro mestiere: Eugenio Scalfari. Mi costa dirlo, perché ho lavorato al suo fianco per quattordici anni, nella direzione di Repubblica. Ma che cosa sta facendo di tanto grave “Barbapapà”, per conquistarsi un posto di prima fila tra quanti montano in cattedra per combinare disastri? La risposta è negli articoli che scrive su giornali un tempo suoi, Repubblica e l’Espresso. Dove racconta che la democrazia italiana sta tirando le cuoia. E che occorre una nuova Resistenza.

Ma in questi giorni, Scalfari ha dimostrato quanto possa essere ignorante anche un primario cattivo maestro. Nel senso che non sa nulla di ciò che scrive. “Barbapapà” si è fatto intervistare dal settimanale di casa, l’Espresso. E ha dato il calcio del mulo a un editore concorrente, sia pure più piccolo del suo padrone, l’ingegner De Benedetti.

È la famiglia Angelucci, imprenditori privati e proprietari del Riformista e di Libero. Scalfari li ha dipinti come servi di Berlusconi, per aver «accettato di nominare come direttore di Libero Maurizio Belpietro, emissario del Cavaliere, una specie di commissario politico», naturalmente agli ordini del Caimano.
Quando dirigeva Repubblica, Scalfari ci raccomandava: «Non siate schiavi dei vostri pregiudizi. Prima di scrivere un articolo, cercate di capire come è andata per davvero». Oggi è lui il primo a tradire la propria lezione.

Non sa un bene amato cavolo di come è emersa la direzione di Belpietro. Eppure insulta un collega. E offende un editore soltanto perché non appartiene al giro dell’Ingegnere. Ma danneggia anche se stesso. Quando i cattivi maestri sbroccano, mostrano tutte le piaghe della vecchiezza intellettuale. A volte la casta può diventare un ospizio, sia pure di lusso.

Fonte: Il Riformista di lunedì, 5 ottobre 2009
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/100936/


venerdì 9 ottobre 2009

Berlusconi et De Benedetti: Storie di vil denaro. Moltooo denaro!

Berlusconi è stato condannato in 1° grado, da un giudice unico, a risarcire il "danno per mancata chance" nei confronti di De Benedetti.
A parte il giudizio su tale motivazione di condanna e la somma (la prima che la magistratura italiana infligge secondo i parametri americani), quello che desidero sia di pubblica memoria è il solito modo di fare italico dei due pesi e due misure.

Il pregiudicato ing. Carlo De Benedetti è stato condannato (fece soltanto pochi giorni di carcere) a tre anni di galera per aver truffato lo Stato, cioè noi tutti.

Il pregiudicato De Benedetti e i suoi complici (funzionario dello Stato) non hanno mai pagato il loro debito a noi cittadini per  "danno per mancata chance", nè altro!

Questa la storia di CDB ed altre di giustizia all'italiana che ho ricercato in rete e che vi ripropongo.


  
Questa la sentenza Nel 1993, in piena bufera Tangentopoli, Carlo De Benedetti presentò al pool di Mani Pulite un memoriale in cui ammetteva il pagamento di 10 miliardi di lire in tangenti ai Partiti di governo e funzionale all'ottenimento di una commessa dalle PPTT, consistente in telescriventi e computer obsoleti. Nel maggio dello stesso anno, viene iscritto all'albo degli indagati.

L'ing. Carlo De Benedetti, patron de La Repubblica e Olivetti, confessa al Pool di aver versato ai partiti di governo 10 miliardi di 'tangenti' per avere venduto alle PPTT migliaia di obsolete telescriventi e computer.
Iscritto nell'albo degli indagati nel maggio '93, dopo le condanne a Craxi e l'esilio-latitanza in Tunisia, a De Benedetti non sarà fatto ancora alcun processo dal Tribunale di Milano. 



Ci penserà il Tribunale di Roma a processarlo e condannarlo dopo una lunga diatriba fra la Procura di Roma e quella di Milano su chi avesse competenza a giuduicare De Benedetti.

Per molti altri imputati di Mani Pulite, le cose andarono diversamente dall'ing. De Benedetti che fece soltanto pochi giorni di carcere.

Gabriele Cagliari, presidente dell'ENI, dimenticato in carcere dopo la promessa di liberazione, il 20 luglio '93 si suicida in cella. 

Tre giorni dopo, il 23, con un colpo di pistola si ammazza anche Raul Gardini.

Poche ore dopo la morte di Gardini è arrestato Sergio Cusani suo segretario, commercialista e confidente.


La rapidità dell'attenzione giudiziaria verso Cusani è nelle date: arresto il 23 luglio. Richiesta di processo il 27 agosto.
Parere favorevole del GIP Italo Ghitti il 6 settembre. Prima udienza del processo 28 ottobre. Conclusione dello stesso sei mesi dopo con la condanna a otto anni di reclusione (l'accusa ne aveva chiesti sette)


Per i tempi lunghissimi della nostra giustizia un record eccezionale! Il processo Cusani assume in tivù la spettacolarità dei processi soap opera con Di Pietro al posto di Parry Mason, che appare stranamente umile col tronfio Craxi, quanto insolente con l'accasciato Forlani.



Nell'ottobre scoppia lo scandalo dei fondi riservati del Sisde. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, nella sua passata funzione di ministro degli interni,
avrebbe avuto per quattro anni un appannaggio di cento milioni mensili in busta gialla fuori di ogni controllo. 
Fatto rivelato dagli agenti segreti e dal prefetto Malpica,  capo del servizio segreto civile. 
Il capo dello Stato, O.L. Scalfaro,  la notte del Capodanno '94, nel messaggio alla nazione, reagisce indignato col famoso iterato "Non ci sto" a reti unificate. 
Ma gli italiani non capiscono. 
Disinformati dei fatti nulla sanno del motivo di quella negazione (ma non conosceranno neppure nulla della destinazione di quei fondi ad personam; nessuno dirà loro se usati per esigenze istituzionali e quali). L'inchiesta si spegne, e gli accusatori vengono incriminati con l'accusa di golpe! 

 
Questa la sentenza che riguarda i complici di De Benedetti. 


Corte dei conti

Sezione I giurisdizionale centrale

Sentenza 5 gennaio 2005, n. 1

Con sentenza 7 giugno 2005, n. 191, la Corte dei conti, sezione I giurisdizionale centrale d'appello, ha disposto la revoca, per errore di fatto, della presente decisione, nella parte in cui condanna il sig. Davide Giacalone al risarcimento del danno arrecato alle Poste italiane s.p.a.

FATTO

Avverso la sentenza n. 1725/2002 depositata il 6 giugno 2002, resa dalla Sezione Giurisdizionale, per la Regione Lazio è stato proposto appello da Giuseppe Parrella, rappresentato e difeso dall'avvocato Giulio Correale, Oscar Mammì, rappresentato e difeso dagli avvocati Mario Sanino e Giampaolo Ruggiero, dal Procuratore regionale, nei confronti di Oscar Mammì, costituitosi come sopra rappresentato, Giuseppe Parrella, costituitosi come sopra rappresentato e Davide Giacalone, costituitosi con la rappresentanza e difesa dall'avvocato Franco Gaetano Scoca, e dal Procuratore Generale, nei confronti di Oscar Mammì, Giuseppe Parrella, Davide Giacalone, tutti costituitisi come sopra rappresentati, Maurizio Di Sarra, costituitosi con la rappresentanza e difesa degli avvocati Michele Sterbini e Filippo Lattanzi, ed Enrico Veschi, costituitosi con la rappresentanza e difesa degli avvocati Claudio Pittelli e Salvatore Mileto.

Questi i fatti di causa.

Con atto di citazione del 29.9.1994, la Procura Regionale conveniva in giudizio i sigg. Giuseppe Parrella e Davide Giacalone per sentirli condannare al pagamento della somma complessiva di Lire 36.560.740.000, oltre interessi, rivalutazione monetaria e spese di giudizio.

Tale importo veniva riferito a due voci di danno: la prima, per Lire 26.535.740.000, relativa ad una fornitura all'Amministrazione PP.TT. di n. 3356 telescriventi rimaste inutilizzate (nell'ambito di un acquisto complessivo di n. 5000 telescriventi avvenuto nel gennaio 1991 per un importo totale di Lire 39.534.775.000) e la seconda, per Lire 10.025.000.000, relativa alla riscossione di dazioni di denaro senza titolo da parte della Società fornitrice in correlazione con la fornitura delle telescriventi.

(Omissis)

P.Q.M.

La Corte dei Conti - Sezione Prima Giurisdizionale Centrale di Appello, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza ed eccezione reiette, rigetta i gravami proposti avverso la sentenza in epigrafe dalle parti private; rigetta l'appello del Procuratore Generale nei confronti dei sig.ri Enrico Veschi e Maurizio Di Sarra; accoglie parzialmente gli appelli proposti dal Procuratore Regionale e dal Procuratore Generale e, per l'effetto, condanna i sig.ri Giuseppe Parrella, Oscar Mammì e Davide Giacalone, al pagamento, in solido tra loro, della somma di Euro 2.405.429,00 (duemilioniquattrocentocinquemilaquattrocentoventinove/00), comprensiva della rivalutazione monetaria oltre agli interessi legali dalla data della sentenza al soddisfo, in favore delle Poste S.p.a. e alle spese del primo grado come in premessa, nonché a quelle del presente grado che si liquidano in Euro 3429,59 (tremilaquattrocentoventinove/59).


Fonti:

http://virusilgiornaleonline.com/elogio_19.htm

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/10/31/quell-inchiesta-contesa-sui-signori-delle-poste.html

http://archiviostorico.corriere.it/1993/ottobre/31/Benedetti_ricercato_per_corruzione_co_0_9310317166.shtml

http://www.eius.it/giurisprudenza/2005/019.asp


http://archiviostorico.corriere.it/1994/maggio/27/Malpica_Scalfaro_con_busta__co_0_94052712644.shtml  

sabato 3 ottobre 2009

Ci sarà pure un giudice a Berlino?

Ci sarà pure un giudice a Berlino, si chiedeva il mugnaio prussiano al cospetto dell'imperatore Federico II, che gli negava un suo diritto.

Ricordando quet'anedddoto storico mi domando:
ci sarà un giudice in Italia che applicherà la legge e condannerà l'ex pm Di Pietro per vilipendio al Presidente della Repubblica?

Oppure, ancora una volta, l'UltraCasta dei magistrati, come l'ha definita nel suo libro Stefano Livadiotti,  interverrà per far quadrato intorno a Di Pietro, suo ex membro? 

A sostegno di quanto penso, vi propongo alcuni commenti alle parole offensive pronunciate dell'ex pm Di Pietro - ora capopartito d'assalto duro, puro e senza macchia. - nei confronti di Napolitano, presidente della Repubblica. 





"Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, affermando che non poteva non firmare la legge criminale sullo scudo fiscale, ha compiuto un atto di viltà ed abdicazione". Il patron dell'Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, in piazza della Repubblica per il corteo dei precari della scuola, critica le parole di questa mattina del capo dello Stato a proposito della firma al Dl anticrisi che contiene le norme sullo scudo fiscale. "E' proprio la Costituzione - ha spiegato Di Pietro - che affida al capo dello Stato il compito di rimandare le leggi alle camere controllando in prima istanza la loro costituzionalità. Così facendo - ha concluso - Napolitano si assume la responsabilità di questa legge".

"Non firmare non significa niente", aveva detto il presidente della Repubblica rispondendo al sollecito di un cittadino che nella piazza di Rionero in Vulture lo aveva invitato a non firmare la legge sullo scudo fiscale. Il Capo dello Stato aveva spiegato come la Costituzione preveda che la legge possa essere nuovamente approvata e in quel caso lui sarebbe "obbligato" a firmare.

A difesa di Napolitano insorge il Pdl. "Il partito di Di Pietro ormai pratica il 'teppismo' parlamentare. Per certi figuri servirebbe
più l'anti doping che la sanzione da regolamento", lamenta Maurizio Gasparri, capogruppo Pdl al Senato. "L'anima anti-istituzionale che Di Pietro ha sempre avuto sin da quando si è trovato con la toga addosso è oggi venuta fuori nel modo peggiore. L'attacco senza precedenti al capo dello Stato è sintomo di una follia politica e di una barbarie che è fuori da ogni logica non solo giuridica ma anche comportamentale", osserva Antonio Leone, vice presidente della Camera. E c'è anche, nel Pdl, chi invoca l'intervento della magistratura: "Di Pietro ha iniziato insultando le Camere e prosegue con il presidente della Repubblica. E' assurdo che la magistratura questa volta non intervenga. Si tratta di reati che il codice penale punisce con la reclusione fino a tre anni", afferma il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto.

Il Pd prende le distanze da Di Pietro, difendendo le prerogative del capo dello Stato. "Il presidente della Repubblica esercita "la sua funzione di garanzia importantissima e ineccepibile", sottolinea il segretario del Pd, Dario Franceschini, ricordando a Di Pietro che "è un parlamentare e dovrebbe sapere quali sono, in base alla Costituzione, i compiti dell'opposizione, della Corte costituzionale e del capo dello Stato". "Esprimo piena solidarietà al presidente Napolitano, oggetto di una riprovevole rincorsa al populismo da parte di chi lo critica per aver svolto i suoi doveri istituzionali", fa eco Enrico Letta.

Anche l'Udc condanna le parole di Di Pietro. "L'onorevole Di Pietro è una vergogna per questo Paese", tuona il segretario Leonardo Cesa. "L'ennesimo attacco ignominioso e sprezzante che ha riservato al presidente Napolitano - aggiunge Cesa - richiede una ferma presa di posizione di tutte le forze politiche: se non arriveranno immediate scuse, l'Idv si merita il totale isolamento in Parlamento e in ogni altra sede istituzionale".


La verità sull'informazione italiana, scritta da sinistra!

Per leggere qualcosa di sensato  in questo bailamme multimediale e che sia scritto dalla sinistra devo, di norma, ricorrere a Il Riformista, diretto da Antonio Polito.

La libertà d'informazione che esiste in Italia è così evidente che soltanto un cieco lo può non vedere.
L'articolo che vi propongo ne é l'ennesima riprova. Dovebbero leggerlo attentamente i vari Mauro, D'Avanzo, Santoro, Travaglio e compagnia dicendo.

Un modo per fare piazza pulita di molti media, stampati e non, sarebbe quella di affidarli al libero mercato, togliendo le sovvenzioni di stato per l'editoria. Ma questa é tutt'altra storia. 



Una Berlinguer nel regime mussoliniano
di Antonio Polito


Il marziano che sbarcasse stamattina a Roma, troverebbe sui giornali due notizie difficili da combinare.
Supponendo che - seppur marziano - sappia qualcosa della storia d'Italia, non gli sfuggirebbe il valore simbolico della nomina di Bianca Berlinguer a direttore di un tg Rai, all'unanimità e quindi con il voto della maggioranza di centrodestra. Oltre che una brava professionista, oltre che colonna storica di quella che un tempo si chiamò Telekabul, oltre che donna indefettibilmente di sinistra, Bianca è anche la figlia del più grande e popolare dirigente comunista italiano dopo Togliatti. Dell'uomo che, col suo martirio finale sul palco di Padova, fissò per sempre l'immagine migliore della sinistra italiana.

Ma, contemporaneamente, il nostro marziano leggerà anche che secondo l'Economist, il più serio e il più liberale dei giornali del mondo, mai dai tempi di Mussolini la libertà di informazione era stata così a rischio in Italia, perché mai dal fascismo in poi «l'interferenza del governo nel sistema dei media era stata più sfacciata e allarmante».

Il nostro marziano resterebbe un po' sbigottito dalla contraddizione tra la denuncia del regime mussoliniano e la nomina della Berlinguer.

Ma se il marziano decidesse di sedersi davanti alla tv per una serata di relax, assisterebbe su Raidue all'intervista in prime time di una prostituta che dichiara di aver fatto sesso a pagamento con il capo del regime, quel Berlusconi lì di cui parlano tutti, a casa sua. E a quel punto non ci capirà più niente: insomma, l'Italia è un paese paragonabile alla Bulgaria, in quanto a indipendenza dei media, o è una democrazia casinara e chiacchierona quante altre mai? Il regime sta imbavagliando i giornalisti - «muzzling», come dice il titolo dell'Economist - oppure i giornalisti non parlano d'altro che del regime e dei suoi vizi?

Spiegare a un marziano come stanno veramente le cose è difficile. E, a quanto pare, stavolta è difficile spiegarle anche all'Economist, caduto in uno dei suoi rari strafalcioni da superficialità. Quando scrive che mai l'Italia aveva vissuto tanta ingerenza sui media da parte del regime berlusconiano, il settimanale deve aver infatti dimenticato quarant'anni di regime democristiano. Ci sono stati tempi - cari colleghi londinesi - in cui in Italia c'era un solo canale e tutto dc, si licenziavano Dario Fo e Franca Rame in tronco da Canzonissima perché si erano permessi una blanda ironia sul governo, tutti i giornali erano filo-governativi, l'opposizione comunista era censurata sistematicamente, ed esisteva letteralmente un solo giornale che si poteva permettere di criticare il governo (si chiamava l'Unità, e io me lo ricordo bene, perché è lì che negli anni 70 ho cominciato a fare il giornalista). Il grado di libertà di informazione che si respira oggi in Italia è incommensurabile con quella lunga epoca - che proprio Berlinguer definì «una cappa di piombo» che gravava sul paese. E un settimanale come l'Economist non può avere amnesie storiche di queste proporzioni.

Naturalmente, è perfino ovvio che in Italia le peculiari condizioni in cui si esercita la libertà di informare sono profondamente diverse da quelle degli altri paesi europei di antica e consolidata democrazia. E la ragione fondamentale sta nel fatto che il proprietario del polo privato della tv è il capo di un partito politico che quando vince le elezioni comanda anche nel polo pubblico. Questa è un'anomalia di seria e perdurante gravità. Che però potrebbe essere risolta in un solo modo: strappando il polo pubblico al controllo della politica, e consentendo a qualche altro polo privato di concorrerere sul mercato.
L'Economist dovrebbe domandare alla sinistra perché questa ovvia soluzione, radicalmente anti-berlusconiana, non è stata da essa mai proposta né sostenuta.
 
La risposta sarebbe che la sinistra non vuole rinunciare a comandare in Rai quando le elezioni le vince lei, e comunque su Raitre anche quando non le vince (il marziano resterebbe ancor più stupito se seguisse in tv, oltre a Santoro e Travaglio, anche Fazio, Dandini, Lerner, Gruber, ecc. ecc.).
È anche vero che gli standard informativi dei nostri tg sono miserandi, sia in termini di completezza dell'infomazione sia in termini di pluralismo (con l'eccezione di Sky, che però non può esser messa tra parentesi), per la semplice ragione che gli editori (politici) dei tg se ne fregano di completezza e pluralismo.

È poi vero che la qualità dell'informazione televisiva non si giudica solo dai tg, e che nei programmi pomeridiani sia di Rai sia di Mediaset si assiste a un festival di demagogia sguaiata e brutale, si incita al razzismo, si celebra la fatuità, si educano intere generazioni allo spirito acritico e debosciato tipico dei regimi, contribuendo a fare della nostra democrazia sempre più una democrazia senza cittadini (anche se su questi programmi nessuno protesta, purché Annozero vada in onda).

Ed è infine vero che Silvio Berlusconi passa un numero sconsiderato di ore a studiare sconsiderate azioni contro la libertà di informazione, per ottenerne in genere solo l'effetto opposto, la santificazione dei suoi torturatori. Sia citando per danni i giornali che si occupano della sua vita sessuale, sia mandando avanti il governo a impicciarsi di programmi Rai quando essi sono già sotto la sua vigilanza (visto che in parlamento ha la maggioranza), sia blaterando contro i giornalisti a lui sgraditi ogni volta che si trova in Bulgaria o nei dintorni.

La sua vera e propria ossessione per i media - non per niente è un tycoon che si è fatto fondando una tv - lo rende dunque il bersaglio perfetto dell'opposizione, e trae in inganno perfino rigorosissimi giornali come l'Economist. Non è escluso che Silvio Berlusconi, se potesse, sarebbe un dittatore. Ma l'Italia è un paese troppo grande e troppo libero perché egli possa essere molto di più che un dittatore da operetta. Prova ne sia, cari colleghi dell'Economist, che in quindici anni ha perso due elezioni su tre, e in entrambi i casi controllava la Rai proprio come ora.

I giornalisti italiani che scenderanno domani in piazza per dar ragione all'Economist non sono in effetti molto liberi, ma lo sono un po' di più di quel collega della Bbc che fu licenziato dopo un processo perché aveva accusato Tony Blair di mentire sull'Iraq (da noi, un giudice ha invece reintegrato Santoro in Rai). E io, giornalista che in piazza non andrà, se permettete mi sento un po' offeso se da Londra mi danno dell'imbavagliato. Se lo fossi mi licenzierei, non chiederei aiuto alla Fnsi per farmi rinnovare il contratto, come ha fatto Travaglio.

 

Fonte: Il Riformista, 2 ottobre 2009

giovedì 1 ottobre 2009

Ma nel PD se ne rendono conto?


I risultati delle votazioni nei circoli del PD erano più che scontati, ma Franceschini, segretario pro-tempore,   continua a non prendere atto che il partito è in mano, da sempre, agli uomi d'apparato del vecchio PCI. D'Alema su tutto/i. 

Questi i risultati comunicati dalla Commissione nazionale del PD:

il 56,49% a Pier Luigi Bersani;
il 35,85% a Dario Franceschini;
il 7.66% a Ignazio Marino.

Quindi questi tre concorreranno alle primariedel 25 ottobre. 
Primarie - pro-forma - che serviranno esclusivamente a raccogliere denaro, oltre a dare ufficialità democratica a quanto già deciso su chi dovrà essere il nuovo segretario: Bersani. D'Alema dixit.



D'altro canto la provenienza politica di Bersani è la stessa di Franceschini, la "corrente" di sinistra della vecchia DC, il cui sbocco naturale, previo passaggio margheritino, non poteva che essere il PD che aveva abbandonato il vecchio nome e simbolo di Partito Comunista Italiano.

Sarà molto interessante vedere il comportamento del nuovo segretario nei confronti dell'alleato più scomodo: Di Pietro,  che con i suoi furiosi attacchi al governo sta raccogliendo consensi e voti nella sinistra non più rappresentata in Parlamento e nelle frange estremiste di una sinistra più che mai dura a prendere atto dei cambiamenti politici a livello mondiale. 

Un'interessante analisi sull'ex segretario Franceschini l'ha fatta Giampaolo Pansa, uno dei migliori giornalisti italiani, già vicedirettore di Repubblica e l'Espresso, politicamente di sinistra, ma critico verso certa sinistra irreale, che adesso scrive per il Riformista. Ecco il suo racconto.

Il signor F e i suoi due padroni
di Giampaolo Pansa

Il moderatore di quella Tribuna, Luca Di Schiena, e il regista, Giuseppe Sibilla, attendevano il leader del Pci all’ingresso degli studi televisivi. Attorniati dalla pattuglia dei comunisti in servizio attivo alla Rai. E dai tanti cronisti, me compreso, tutti abbastanza eccitati.

Sceso dalla berlina blu, re Enrico avanzava nel cortile con passettini lenti. A braccetto del suo medico, il pneumologo Francesco Ingrao, fratello di Pietro. Il piazzalino di via Teulada era gremito di gente. Ma nessuno fiatava. Anche Berlinguer stava in silenzio. Si limitava a sorriderci in quel suo modo speciale: tra l’intimidito e l’altero. Mi sembrò davvero un uomo di chiesa. E pensai: adesso ci benedirà.

Quando il leader del Pci giunse di fronte alla vetrata che conduce agli ascensori e poi agli studi, la piccola folla si divise. Facendo ala al suo passaggio. Re Enrico ringraziò con un tenue cenno del capo. Quindi seguì il suo addetto stampa, l’energico Tonino Tatò, che premeva per non arrivare in ritardo alla registrazione.
Adesso spostiamoci ai tempi d’oggi. È giovedì 24 settembre 2009. Siamo sempre alla Rai, dove sta per iniziare la puntata di “Annozero”. Anche in questo caso è atteso un leader politico di sinistra e tra un istante vedremo chi sia. Ma i due big del programma se ne fottono.
Michele Santoro e Marco Travaglio entrano nello studio per primi. Il pubblico si leva in piedi e li accoglie con una standing ovation. Michele e Marco si offrono al battaglione dei fotoreporter. Scherzano, se la cantano e se la ridono. Del resto, hanno una ragione per fare così: “AnnoZero” sono loro due e nessun altro.

Qualche minuto dopo entra il leader invitato nel Tempio del Santorismo. È Dario Franceschini, il segretario del Partito democratico. Nessuno se lo fila. Eppure il signor F. si è presentato persino in maniche di camicia. Adesso si usa: la camicia segnala voglia di combattimento, fa molto talk show all’americana. Come ci ha insegnato Gianni Riotta, che quando dirigeva il Tg1 aveva come divisa la mitica button-down bianca. Al massimo accompagnata da una cravattuccia nera, poco più di una stringa.

Ad “Annozero” iniziato, il signor F. indosserà poi una giacca. Ma neppure così rivestito attenuerà l’impressione grigia che suscita in noi telespettatori. Che pena, il povero F. Mi ha fatto pensare a un leader dimezzato. Costretto a tener conto di due padroni. Il primo non è di oggi: Ezio Mauro, il direttore di Repubblica. E adesso anche il santone Michele, un politico ben più forte di F. Dotato di un’arma micidiale che lui non possiede: un programma televisivo all’arma bianca, seguito da milioni di tifosi molto scaldati.

Di qui alla fine del tormentone congressuale del Pd, il signor F. sarà obbligato a percorrere la strada che Mauro e Santoro gli indicheranno giorno per giorno. Bisogna aggiungere che F. si comporterà così non perché la sua autostima sia ridotta al lumicino. Anzi, a osservarlo nei comizi, F. pare sempre più convinto di essere un Superman del progressismo. Se fosse milanese invece che figlio della magica Ferrara, dovremmo dire che non vediamo nessuno più ganassa di lui. A Milano il ganassa è lo spaccone, il parolaio presuntuoso, tutto chiacchiere e distintivo del Pd.

Il nocciolo del problema sta nel meccanismo fantozziano escogitato per eleggere il segretario democratico. In un primo round, votano gli iscritti al partito, come sta avvenendo. Ma il vincitore non potrà affatto ritenersi il leader. Poiché dovrà sottoporsi a un altro esame: quello delle primarie.

In questo secondo round voterà chi deciderà di farlo, chiunque sia e qualunque scopo abbia in mente. L’esito della consultazione potrebbe ribaltare l’esito del voto dentro il partito. Con quali conseguenze nessuno è in grado di dirlo.

Le cronache politiche sostengono che il signor F. stia contando sulle primarie. Il voto degli iscritti dice che, per ora, a essere in testa è Pierluigi Bersani. Avrà anche un linguaggio antico, popolaresco, un po’ fuori moda, in stile tardo Pci, come ci ha spiegato sul Sole-24 Ore quel cervellone di Miguel Gotor. Ma ai pochi o tanti iscritti del Pd, Bersani sembra un segretario più affidabile del ganassa di Ferrara. Però anche in questo partito, ahimè!, del domani non v’è certezza.

La conclusione è scontata. Per vincere le primarie, il signor F. sposerà le posizioni più estremiste, le più arrabbiate, le più lunatiche. Urlerà invece di parlare. Farà scelte turche: demagogia allo stato puro, fanatismo, rabbia, invettive. Il tutto condito dalle balle stratosferiche che sta già spacciando: siamo al fascismo, la democrazia tira le cuoia, la libertà di stampa è defunta, a Palazzo Chigi siede un tiranno che accorpa in se stesso i connotati malvagi di Mussolini, Hitler e Totò Riina, in salsa puttanesca.

Il signor F. non farà nessuna fatica a condursi così. Gli basterà attenersi ai consigli di Repubblica e di “Annozero”. Se non gli sembreranno sufficienti, potrà sempre rivolgersi all’alleato Tonino Di Pietro. Quello che ha detto: abbiamo un Parlamento di mafiosi.
Sono abbastanza anziano per aver partecipato alle Tribune politiche della vecchia Rai, al tempo della Prima Repubblica. Qui ne rammento una del giugno 1976, vigilia elettorale. Il protagonista era Enrico Berlinguer, segretario generale del Pci. E il suo arrivo in via Teulada ebbe il protocollo e le cadenze di un rito ecclesiastico. Tanto da farmi ricordare l’ingresso di un cardinale in una parrocchia di certo importante, ma non del livello di una sede vaticana.

Fonte: Il Riformista: martedi 29/09/2009