lunedì 26 ottobre 2009

I magistrati sbagliano ma non pagano pegno MAI

Dopo le recenti paginate mediatiche sul giudice di Milano con i calzini sgargianti che oltre alla promozione sono serviti a dargli anche la scorta a nostre spese, oppure dell'ordinanza del divieto di dimora in Campania per la moglie di Mastella che nella sua qualità di presidente del consiglio regionale dovrà comunque andare a Napoli, ma da molto più lontano rispetto a Ceppaloni e a nostre spese,  per rinfrescarci la memoria pubblico uno studio sulla SuperCasta dei magisttrati, come l'ha definita Livadiotti nel suo omonimo libro, realizzato da una docente universitaria e riportato per sommi capi dall'Opinione.



I magistrati sbagliano ma non pagano pegno
di Dimitri Buffa 






Che criteri adotta la sezione disciplinare del Csm nel giudicare ed eventualmente sanzionare i ritardi dei magistrati nel deposito delle sentenze o altri provvedimenti o nello svolgimento delle attività di ufficio? Lo studio più completo finora svolto in proposito riguarda un periodo compreso tra il 1995 e il 2002 ed è stato fatto da una ricercatrice dell’Università di Bologna, la docente Daniela Cavallini. Se la si vuole mettere sui dati crudi e brutali il risultato è questo: su 251 incolpati, quelli non condannati sono risultati essere 196 e quelli invece sanzionati 55. Ma è sulle sanzioni che si gioca la differenza tra una giurisprudenza di tipo “domestico” come tutti sanno essere quella del Csm e una di tipo effettivo: ebbene di quello scarso numero di magistrati “condannati” nessuno è stato destituito o rimosso dall’ufficio, solo 7 hanno perso l’anzianità, uno solo è stato dispensato dall’ufficio precedentemente ricoperto, mentre gli altri 47 sono stati semplicemente “ammoniti” (34) o “censurati” (13). Sanzioni, che, a prescindere dalla gravità dei fatti contestati, di fatto non turbano i sonni di chi si vede costretto a subirle. Né cambiano di molto la rispettiva carriera in magistratura. Un’altra cosa che pochi sanno, anzi forse quasi nessuno, è che le sentenze della disciplinare sono impugnabili dai magistrati secondo le norme ormai non più in vigore del codice Rocco davanti alle sezioni civili, e non penali, della Cassazione. Cosa che porta altri vantaggi di casta alla categoria. Una norma transitoria della riforma del codice di procedura penale del 1989 ha infatti lasciato in vigore il codice Rocco solo per i giudici.

A proposito della confusione di ruoli, nello studio della Cavallini si legge fra l’altro che “...l’accertamento, nel comportamento del magistrato, dei connotati oggettivi e soggettivi di rilevanza disciplinare costituisce un apprezzamento di merito rientrante nell’insindacabile valutazione della sezione disciplinare del Csm.” Neanche le sezioni unite civili della Corte di cassazione, in sede di impugnazione, possono sindacare nel merito la valutazione già compiuta, dovendosi limitare ad un riesame di sola legittimità. Questo in teoria, perché, sempre per i magistrati, la Suprema Corte accetta di entrare anche nel merito in caso di motivazioni “illogiche o contraddittorie”. Cosa che fino a pochi anni fa valeva anche per i comuni mortali, mentre ora non più. Di fatto comunque le già basse percentuali di condanna possono venire vanificate alla fine di un iter burocratico giudiziario non previsto per nessun altro cittadino italiano. Nel merito della giurisprudenza che si è andata così formano, secondo l’orientamento della sezione disciplinare del Csm, scrive la Cavallini, “il semplice ritardo nell’adozione di provvedimenti giudiziari non costituisce di per sé illecito disciplinare”. E questo è dovuto anche al fatto che mentre il codice di procedura penale e quello di procedura civile sanzionano le inadempienze degli avvocati con un regime di “perentorietà” (cioè di decadenza dai diritti), per quel che riguarda i ritardi e le inadempienze dei magistrati il regime diventa “ordinatorio”, con una serie di escamotage che di fatto permettono di sanare quasi tutte le cause di nullità.

La richiesta di abolire questa disparità è stata per anni un cavallo di battaglia dei Radicali di Pannella che hanno anche proposto un referendum, non capito dalla gente nella sua essenzialità. Infine i criteri di decisione nelle motivazioni della disciplinare utilizzano questo metro: “Il fatto illecito sorge soltanto laddove il ritardo dipenda da negligenza o neghittosità, cioè sia sintomo di inerzia, scarsa operosità, indolenza del magistrato e non trovi giustificazione in situazioni di forza maggiore o altri impedimenti a lui non imputabili”. Non basta, per arrivare a una qualche forma di blanda condanna deve essere anche accertato “...se il ritardo caratterizza quasi la metà (o più della metà) del lavoro svolto dall’incolpato, se non è un episodio isolato ma costituisce la normalità, se è sistematico e crescente nel tempo, se è superiore ad un anno (due anni o tre anni), se riguarda un lasso di tempo considerevole dell’attività del giudice, se attiene a settori ”delicati“ come quello del lavoro o della previdenza...”. Solo quando tutti questi criteri saranno soddisfatti, i giudici della disciplinare accetteranno il fatto che un siffatto comportamento “...denota indubbiamente una certa incuria del magistrato”.
Bontà loro.

Da: l'Opinione del 19/09/2008. pg.4