martedì 16 giugno 2009

Pornopaleolitico.

Non c'è nulla di nuovo sotto le stelle. E' tutto un dejà vu!

Una scoperta archeologica svela che forse non sono i nostri tempi a favorire certe degenerazioni pornografiche.
di Angiolo Bandinelli
In una grotta della Germania vicino a Ulm, gli studiosi dell’Università di Tubinga hanno disseppellito una statuetta femminile d’avorio, alta non più di sei centimetri, che ha suscitato scalpori e persino un notevole imbarazzo. Si tratta del più antico esempio di arte figurativa conosciuto: le datazioni compiute col metodo del radiocarbonio l’hanno collocata in un periodo che va da 31.000 a 40.000 anni fa, vale a dire almeno 5.000 anni prima delle famose “Veneri paleolitiche” rinvenute in molti siti europei e che un po’ le somigliano. A differenza di queste, però, la statuina di Ulm, completamente nuda, presenta caratteri sessuali accentuati, quasi abnormi. I seni sono protuberanti, gonfi come quelli delle nostre maggiorate al silicone, ma è la vulva, l’organo genitale, a essere “particolarmente voluminosa e vistosa” cosicché “le sue forme focalizzano l’attenzione sulla sua sessualità esplicita, quasi aggressiva”: tanto da far congetturare che la figurina non abbia la sua origine in “sottili motivazioni simboliche collegabili all’idea della fecondità”, come si era virtuosamente pensato per le “Veneri paleolitiche”, ma in esplicite e “inequivocabili pulsioni sessuali”. Non finisce qui: nella stessa grotta è stato anche trovato un pene di pietra, di circa 19 cm. di lunghezza. Roba da sexy shop: “L’oggetto è scolpito in maniera naturalistica – scrive un giornale – e presenta una superficie perfettamente levigata e lucida che, secondo l’archeologo Nicholas Conard, fa ipotecare uno specifico utilizzo in ambito sessuale”, forse correlato a rituali “atti a stimolare la fecondità della natura”. Oppure – perché escluderlo? – a pratiche orgiastiche, tipo partouze di stampo post-sadiano.

La faccenda mi ha sollecitato alcune considerazioni, perfino ovvie. Mi pare strano che l’appello insistito e solenne ai valori della natura umana provenga da chi si richiama continuamente al peccato originale, l’evento che avrebbe deteriorato irreparabilmente lo stato di una creatura fino a quel momento perfetta e pura ma da quel momento irreparabilmente degradata, tanto che Dio dovette a un certo punto inviare il figlio per riscattarla e salvarla; c’è inoltre, a mio (modesto) parere, una singolare coincidenza tra le posizioni di chi raccomanda i valori della naturalità rispetto al relativismo di una cattiva cultura e quelle di Rousseau, il padre del mito del buon selvaggio. Oggi scopriamo che forse l’uomo più vicino allo stato di natura non era immune da certe degenerazioni imputate ai nostri deprecabili tempi. Sarebbe contraddittorio se tutto questo venisse gettato sulle spalle di Darwin. Semplicemente e laidamente penso che dovremo abituarci a certe disturbanti scoperte sull’uomo e la sua vicenda, anche quando contraddicono le affermazioni del disegno divino intelligente.